1P “Napoli antica” – 2

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CASTEL DELL’OVO

Sull’antico isolotto di Megaris, che faceva parte del famoso complesso Luculliano, si stabilirono, nel Vl° secolo, i padri Basiliani che vi fondarono una chiesa ed un cenobio. L’isolotto, che dal nome della chiesa fu poi chiamato del Salvatore, era già fortificato durante il ducato, perchè è stato accertato che accanto al complesso conventuale, nei primi decenni del XII” secolo, sorgeva una rocca. Dopo la conquista normanna questa rocca fu ampliata e rafforzata da Guglielmo I detto il <<Malo››, poi nel 1221 Federico II di Svevia la completo con nuovi lavori ed altre fortificazioni. Nel 1300, durante la dinastia angioina, la rocca prese il nome di Castel dell’Ovo per l’evidente forma ovale dell’isolotto sul quale è costruito, quindi, a quanto pare, la leggenda dell’uovo di Virgilio rimane una leggenda. Il Castel dell’Ovo fu dimora di re, infatti vi abitarono, seppure per necessita di cose, Margherita di Durazzo ed il figlioletto Ladislao e vi mori, il 27 giugno 1458, Alfonso I d’Aragona. Fu carcere, fra tanti vi furono imprigionati lo sventurato Corradino e la prima regina Giovanna. Fu tesoreria, vi custodirono i loro forzieri gli svevi e gli angioini. Fu fortezza, sostenne il fuoco e rispose al fuoco in tante battaglie. Castel dell’Ovo ha subito, nel corso dei secoli, rifacimenti e restauri, quindi l’aspetto attuale è quello dell’ultima restaurazione, effettuata nel ‘600, del vicerè Francesco Benavides, conte di S. Stefano. Dal 1800 il Castello è stato, di volta in volta, adibito a diversi usi: alloggiamento di truppa, carcere militare, deposito di equipaggiamenti, caserma di transito, abitazioni civili per ex-militari, uflici. Sono stati ventilati dei progetti per il riassetto e la sistemazione del vetusto Castello e sarebbe ora di effettuarli perchè le vecchie mura sono in disfacimento ed hanno urgente bisogno di riparazioni.

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CASTEL S. ELMO

Nel X” secolo, alla sommità del colle di S. Elmo c’era una chiesa intitolata a S. Erasmo, questo nome, che trasformato prima in « Eramo ››, poi in « Ermo ›› ed infine in « Elmo ››, ha dato il nome alla collina ed al castello che vi fu costruito. Qualcuno attribuisce la costruzione di questo castello a Roberto d’Angiò, che l’avrebbe edificato nel 1329, sembra accertato, però, che già nel 1272 Carlo I d’Angiò aveva fatto erigere, sul posto, una torre che aveva solo funzioni di osservatorio. Nel 1329 Roberto d’Angiò avrebbe, in effetti, solo ampliata la costruzione, trasformando la torre in un castello che si chiamo Belforte. Durante il viceregno spagnuolo, per l`esigenza dovuta ai nuovi mezzi bellici, costituiti dalle artiglierie, d. Pietro di Toledo ordino la ricostruzione del Castello che dal 1537 al 1546 fu completamente rifatto secondo le regole militari che i tempi comportavano e fu chiamato Castel S. Erasmo. Il 13 dicembre 1587 un fulmine, cadendo sulla polveriera, fece saltare in aria quasi la metà del Castello uccidendo più di 100 uomini. Lo scoppio fu così tremendo che molti edifici della città, tra i quali le chiese di S. Maria la Nova e di S. Chiara, riportarono danni. Nel mese di luglio del 1647, durante la rivoluzione di Masaniello, il Castello (che aveva già subìto la trasformazione del nome e si chiamava, ora, S. Elmo) diede rifugio all’impaurito vicerè Ponce de Leon, duca d’Arcos e nell’ottobre dello stesso anno, per i nuovi tumulti che seguirono la morte di Masaniello, il Castello bombardò la città per 3 giorni. Nel 1799 Castel S. Elmo ebbe una parte rilevante nel breve periodo della Repubblica Partenopea, fu occupato di sorpresa dai patrioti e fu l’ultimo a capitolare, diventando, poi, una delle prigioni per coloro che avevano difeso la Repubblica contro le bande sanfediste del cardinale Fabrizio Ruflfo. Assolto il compito di fortezza, Castel S. Elmo fu adibito a caserma e, negli ultimi anni, a carcere militare. Fino agli anni trenta, a mezzogiorno preciso, un cannoncino sparava, dall’alto del Castello, un colpo a salve per segnalare l’ora ai napoletani. Il colpo si udiva in ogni punto della città.

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IL CASTELLO DEL CARMINE

Gli edifici e le torri che occupano l’area compresa tra l’angolo sud-occidentale della Piazza Guglielmo Pepe, l’ultimo tratto, a destra, del Corso Garibaldi, via Nuova Marina fino ai pilastri della Porta del Carmine ed il lato sud della Piazza omonima, costituiscono tutto ciò che resta del Castello del Carmine. Nel 1382 Carlo III di Durazzo fece costruire una torre che, per la sua forma, fu chiamata lo «Sperone», ma già nel 1386, durante il burrascoso periodo della lotta tra angioini e durazzeschi, al torrione furono aggiunte nuove opere di difesa. Nel quadro dell’allargamento delle mura, voluto nel 1484 da Ferrante d’Aragona, le opere furono ampliate e rinforzate in modo da costituire, con il torrione dominante, un solido baluardo nel sistema difensivo delle mura. Un torrente alluvionale danneggiò, nel 1566, gravemente il torrione che in seguito fu ricostruito più solido, ma di forma quadrata, dal vicerè Parafan de Ribera. Nel 1647 il torrione del Carmine, divenuto il quartiere generale del successore di Masaniello, Gennaro Annese, molestò il movimento delle navi spagnuole cannoneggiando il porto. Nel torrione alloggiò per un certo tempo Enrico di Lorena, duca di Guisa, sbarcato a Napoli per capitanare la «Serenissima repubblica del regno di Napoli». Tornata la calma nel 1648, con la fine dell’effimera repubblica, il vicerè Vèlez de Guevara, conte d’Oñate, succeduto al defenestrato duca d’Arcos, trasformò il torrione in un castello fortificato che fu presidiato da un buon nerbo di armati, onde evitare il ripetersi dei trascorsi eventi. Nuovamente ricostruito durante le vìcereggenze di Gaspare di Bracamonte, conte di Peñaranda e del cardinale Pasquale d’Aragona, dal 1660 al 1665, il Castello del Carmine, con la sua cinta bastionata, diventò una vera e propria fortezza. Nel 1799, dopo la caduta della Repubblica Partenopea e la violazione dei patti di resa, nel Castello del Carmine furono imprigionati, fra tanti altri, Eleonora Fonseca Pírnentel, Luisa Sanfelice, Ettore Carafa, Giuliano Colonna, Gennaro Serra ed Oronzio Massa. Per tutto l’800 il Castello fu un carcere militare, poi nel primo decennio del 1900 fu adattato per essere, in parte, un panificio militare ed il resto una caserma. Attualmente il panificio non è più funzionante e la caserma, benchè sulla facciata c’è ancora la scritta « Caserma Gen. Giacomo Sani», non è più una caserma; vi sono solo alloggiati gli uffici della Direzione 6 del Commissariato della Regione Militare Meridionale.

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LA CHIESA E L’OSPEDALE DELLA PACE

Risalendo Via Tribunali si trovano a sinistra, poco dopo l’inizio, l’ospedale e la chiesa della Pace; l’ospedale al numero civico 228 e la chiesa al 227. L’edificio dell’ospedale era, in origine, la grandiosa dimora di Ser Gianni Caracciolo, Gran Siniscalco del regno e favorito di Giovanna II, regina di Napoli. Fu tragica la fine di quest’uomo, padrone per un certo tempo dell’andarnento del regno, che per intrighi di corte fu assassinato in Castel Capuano, per ordine della stessa regina, una notte di agosto del 1432. I frati di S. Giovanni di Dio, il Santo fondatore dell’ordíne ospedaliero dei «Fatebenefratelli» (con questa frase usavano chiedere l`obolo ai fedeli) venuti in possesso dell’edificio nel 1587, lo trasformarono in ospedale. Del Palazzo originale, eretto al principio del ‘400, non rimane, oggi, che il basamento, l`androne ed il portale. Dopo l’ospedale c’è la chiesa che fondata in nome dell’Assunta fu, in seguito, chiamata S. Maria della Pace perchè nell’anno della costruzione, 1629, fu conclusa la pace (per breve tempo) tra Filippo IV, re di Napoli e di Spagna, e Luigi XIII, re di Francia. La chiesa, chiusa, e poi murata, da oltre trent’anni, diede il nome all’ospedale che, tuttora, si chiama: S. Maria della Pace.

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VIA CHIAIA

Via Chiaia, il cui nome è una corruzione di «Plaga››, non è stata sempre la strada aristocratica ed elegante che oggi si vede. In origine era un alveo che convogliava verso il mare, le acque discendenti dalle circostanti colline. Ai tempi romani, prosciugata e spianata, faceva parte della strada di comunicazione con Pozzuoli. Diventato un borgo, rimase fuori le mura fino al 1563, quando, con lo spostamento della Porta di S. Spirito, che stava nei pressi di Palazzo Reale, la strada entrò nella cinta urbana. Il 1636 il vicere Emanuele Guzman, conte di Monterey, fece costruire il ponte per unire le colline di S. Carlo alle Mortelle e di Pizzofalcone che la spaccatura di Chiaia separava. Una lapide, tuttora visibile, murata sotto l’arcata del ponte, ricorda l’avvenimento.

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VIA CASANOVA

Nei primi anni del 1300 Carlo II d’Angiò fece costruire, fuori le mura orientali della città, una casina per sottrarsi, durante l’estate, alle asfissianti muraglie di Castel Nuovo. La fabbrica, che fin dal suo sorgere fu chiamata << la casa nova ››, fu eretta nella zona dove oggi è la Pretura, perchè tutti concordano nello stabilire in 200 passi (quasi 400 metri) la distanza della casina dalle mura. Con il nome di Via Casanova è indicata, oggi, la strada che da Piazza S. Francesco (quindi all’altezza della Pretura) arriva fino a Piazza Nazionale e che, allacciandosi attraverso questa con la Via Nuova Poggioreale, forma un rettilineo fino al Cimitero. Parallela a Via Casanova, dal Corso Garibaldi a Via Arenaccia, c’e la strada chiamata, impropriamente, Vico 2° Casanova, una volta percorsa dagli sferraglianti convogli delle Tranvie Provinciali, e, trasversalmente a questa, si aprono i Vicoli 1° e 3° Casanova. Prima di sboccare in Piazza Nazionale la Via Casanova, che qualcuno crede così chiamata dall’omonimo avventuriero Giacomo, taglia Via Arenaccia che era parte del lungo canalone (lo è tuttora ma sotterraneo) per il convogliamento delle acque pluviali e di scarico verso il mare. A suo tempo, per scavalcare l’ostacolo, fu costruito un ponte, del quale si vede ancora la struttura e pezzi di ringhiera, e quel tratto prese il nome, ancora vigente, di Calata Ponte di Casanova.

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IL CORSO VITTORIO EMANUELE

Il 6 aprile del 1853 Ferdinando II di Borbone fece iniziare i lavori per la costruzione di una strada che correndo da oriente ad occidente, a mezza costa della collina del Vomero, sovrastava la città. Alla fine di maggio, in meno di due mesi, dunque, la strada era già transitabile quantunque il fondo non fosse stato ancora sistemato ed in alcuni tratti, per scavalcare i valloni esistenti, ci fossero solo dei ponti di legno. La strada, che in onore della regina fu chiamata Corso Maria Teresa, si snodava, sullo stesso tracciato attuale, da Piazza Mazzini a Piedigrotta e costituiva, per tutti i suoi 5 chilometri, un belvedere sulla città e sul mare. Costituiva, perchè oggi, con le costruzioni effettuate la strada ha perduto molto della visione panoramica. Per quanto celere fu l’abbozzo della strada molto lungo fu il tempo per completarla ed il merito spettò, dopo il 1860, alla nuova amministrazione del regno unitario che, però, facendo un torto ai Borboni, cambiò il nome di Maria Teresa in quello attuale di Vittorio Emanuele.

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PIAZZA OTTOCALLI

Il 1812 re Gioacchino Murat, per rendere più facile il raccordo della città con le strade di Caserta ed Aversa, sulla via di Roma, ordinò di costruire una strada che da Via Foria arrivasse alla sommità del colle di Poggioreale. La strada, ampia e con larghi tornanti, fu chiamata Via del Campo perchè terminava al Campo di Marte (oggi aeroporto) il quale era adibito alle esercitazioni militari. Prima della costruzione di questa strada per arrivare a Capodichino (il nome deriva dall’originale <<Caput de clivi›› bisognava superare l’aspra salita che comincia da Piazza Ottocalli, chiamata, come tuttora è chiamata, Calata Capodichino, oppure percorrere la strada Nuova di Capodimonte da poco costruita. Sebbene meno ripida questa strada era, in cambio, molto più lunga e sboccava alla fine di Secondigliano, quindi non conveniente per coloro che dalla citta dovevano raggiungere i casali ed i villaggi della zona casertana. In merito a coloro che dovevano raggiungere Capodichino, si preferiva la via più breve, anche se più difficile, tanto più che si poteva contare sull’aiuto dei « bilancini ›› che si trovavano sul posto. Ai piedi della salita, infatti, c’era, come nelle stazioni di posta, un servizio di cavalli (ed anche di buoi, nel caso che si doveva trainare un carro pesante) uno o due dei quali, secondo il bisogno, venivano attaccati con tirelle davanti al veicolo che era trainato fino al termine della salita.

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omaggio a Caruso

Piazza Ottocalli era dunque la sede di questa << stazione di posta ›› che diede origine al nome della località, origine, della quale, si hanno due versioni diverse. La prima afferma che, siccome nella piazza c’erano sempre 8 cavalli di <<posta›› questi, per corruzione di parola, divennero «8 calli››; a sostegno di questa tesi si fa presente che i carrettieri la parola “cavallo” la pronunciavano «caallo>>. Per la seconda versione, la più attendibile, bisogna premettere che nell’epoca borbonica tra le monete come i ducati, le piastre, i carlini, i tornesi e le grana, c’erano anche delle monetine chiamate << cavalli» perché sopra una faccia di queste c’era, appunto, inciso un cavallo. In una certa epoca e per un certo spazio di tempo la tariffa per il servizio di traino, lunga la salita, era di 8 cavalli, quindi, siccome queste monetine erano comunemente chiamate <<calli>>, il luogo del «servizio di posta >> divenne la piazza degli <<Otto calli».

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Da “Le strade di Napoli antica” di A. D’ambrosio

1P “Napoli antica” – 2ultima modifica: 2022-08-29T10:16:47+02:00da masaniello455