Gli scarponi di sempre…

Quando si sta per partire per la montagna è l’ora di cominciare a preparare i vecchi scarponi. E’ un momento speciale e il primo pensiero preoccupa sempre: ricordare dove li abbiamo riposti. A volte è passato molto tempo dall’ultima volta che li abbiamo indossati e questo fa che a volte ci sia bisogno di una piccola manutenzione, che poi altro non è che una bella ingrassatura per rammollire  un po’il cuoio, indurito dal tempo.
Anche se non si ha in programma una scalata,lo scarpone è l’unica calzatura che ci permette di muoverci per strade impervie, sconnesse, sassose o innevate con maggior confort e sicurezza. La certezza è sempre la stessa: i vecchi scarponi si adattano perfettamente al piede, si abituano immediatamente al nostro passo, seguono le esigenze del nostro cammino. Li abbiamo abbandonati per scarpe più eleganti, più nuove, forse più belle e appariscenti e più alla moda, ma… quanti sforzi e pene prima che si adattino al nostro piede!
Non ci conoscono, non sono abituate alla nostra maniera di percorrere i sentieri, non sono affidabili. E poi ci vuol tempo prima che siano perfettamente a posto richiedendo attenzione, delicate nei loro materiali tecnologici, mentre il vecchio scarpone è un’altra cosa.
E che dire delle scarpe acquistate via internet, stupende nella foto che ci ha catturato , per cui le abbiamo volute a tutti i costi dopo complicate misurazioni dei nostri piedi fatti bene, fatti male, perchè si sa che ognuno ha la sua magagna . Stupende ma che non abbiamo nemmeno avuto l’occasione di provare. Quando arrivano a casa spesso sono una delusione: un bel pacchetto ,un bell’involucro, ma indossarle è un problema.
La pelle è dura come cartone e forse lo è , si disfano subito, non hanno la resistenza dei cari vecchi scarponi.

Facile, forse scontato: gli scarponi come metafora dei vecchi amici e dell’amicizia.

scarponi

Al fuoco della TV…

 

Telegiornale

Stando nel cerchio d’ombra
come selvaggi intorno al fuoco
bonariamente entra in famiglia
qualche immagine di sterminio.
Così ogni sera si teorizza
la violenza della storia.

 

Questa poesia potrebbe essere stata scritta oggi. Invece risale al 1962, agli albori della televisione in Italia. È di Nelo Risi, poeta e regista milanese, fratello del regista Dino. Evidentemente quello dei mass media è un problema che si poneva anche allora. Il televisore visto come un totem, come il fuoco sacro adorato dalle tribù animiste, attorno al quale allo stesso modo si raduna la famiglia. Ecco, a ben guardare, la differenza con il 1962 è nella composizione familiare: ormai la disgregazione dei nuclei sembra essere la regola, allora poteva essere l’eccezione.
Ma la televisione è rimasta lo stesso totem, lo stesso mostro che ci propina immagini di sterminio – se allora potevano essere lotte per l’indipendenza, prodromi della guerra del Vietnam, o terribili incidenti, come lo schianto ferroviario di Voghera, oggi alterna agli eccidi dei migranti in mare,nei campi dei profughi diventate prigioni, le immagini degli sbarchi continui sulle nostre  coste ,le uccisioni di donne, che quasi sempre vengono derubricate a femminicidi, le stragi che si compiono all’interno delle mura familiari, oppure nelle strade del mondo-Le violenze di maniaci delle armi, della polizia su gente di colore per le strade americane, traffici di droghe, violenze transomofobiche  sono all’attenzione dei telegiornali dopo i bollettini quotidiani, ripetuti all’infinito da mane a sera sulla pandemia  Covid 19, che ogni giorno ci viene presentata con una nuova variante sempre più contagiosa, come fosse quella destinata a sterminare la civiltà dell’uomo. E intanto, insieme alle false notizie sulla ripresa economica, questo terrorismo sulla Covid  continua a frenare i consumi, bloccare il turismo, il futuro del nostro paese  .i Insomma i telegiornali avrebbero bisogno di una moderazione e di qualche notizia positiva e non fanno che confermare il teorema di Nelo Risi. Solo che allora forse si poteva stare più tranquilli in quel salotto attorno alla televisione: era la “violenza della storia” a formularsi, a srotolarsi sul tappeto. Ora è la violenza “tout court”, subdola e strisciante, e sembra che i giornalisti amino sguazzarci, come in un pantano.

 

rai TG

Ma cos’è l’Immacolata Concezione?

 

annunziata.570

Antonello da Messina, Palazzo Abatellis (Palermo). Maria in questo quadro non è ancora la Madonna, ma una donna comune nelle vesti e nell’aspetto, senza alcun segno di divinità: niente aureola né angeli. Si tratta di una giovane che, mentre prega, scopre, come raccontano i Vangeli, che diventerà la madre di Gesù. Le mani esprimono sorpresa, incredulità e pudore: la destra quasi si schermisce, la sinistra chiude il velo (azzurro, come sarà spesso anche in seguito), come per dire: è impossibile per una fanciulla vergine. Ma le pagine del libro sono mosse dal soffio dello Spirito Santo. Nell’Annunciata, la psicologia e le emozioni sono entrate nell’iconografia.

A differenza di ciò che molti credono, il dogma dell’Immacolata Concezione, proclamato da papa Pio IX l’8 dicembre 1854 (e celebrato dalla Chiesa cattolica ogni 8 dicembre), non si riferisce al concepimento di Gesù, bensì a quello di Maria. Secondo tale verità di fede, infatti, la Vergine Maria è stata concepita pura, senza peccato originale: Dio ha preservato Maria da ogni macchia di peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento nel grembo di Sant’Anna.

SANTA MARIA. La formulazione relativamente recente di questo dogma si deve alle dispute teologiche intorno alla nascita della madre di Gesù, durate secoli. In Oriente fin dal VI secolo d. C. si celebrava una festa della concezione di Maria, diffusa in Occidente dal X secolo ma ufficializzata solo nel 1708. L’8 dicembre di ogni anno, dunque, i cristiani cattolici festeggiano il fatto che Maria, madre di Gesù, è nata senza la macchia del peccato originale. Eccezione unica nella storia umana (singolare grazia e privilegio) con cui Dio ha preservato fin da subito Maria da ogni colpa.

I 4 DOGMI DELLA MADONNA. Le verità di fede sulla Madonna di cui la Chiesa si dice certa sono quattro, definite nell’arco di 1500 anni. Eccone una presentazione sintetica. Con un’avvertenza: quando proclama un dogma, la Chiesa di solito non lo cala “dall’alto”, per editto papale, ma fissa una volta per tutte dottrine che i fedeli già riconoscono come vere per tradizione. Per esempio, prima di proclamare l’Immacolata Concezione, Pio IX fece una consultazione tra gli episcopati mondiali, raccogliendo un 90 per cento di «sì».

1. MATERNITÀ DIVINA. Concezione comune tra i cristiani fin dalle origini, viene definita in maniera stabile dal Concilio di Efeso (431), che proclama solennemente Maria Theotokos (ossia Madre di Dio). È un dogma accettato da tutti i cristiani, inclusi i protestanti (che riconoscono i primi concili).

2. VERGINITÀ PERPETUA. Verità già proclamata da papa Silicio (391), viene codificata nel quinto Concilio ecumenico di Costantinopoli (553), che definisce la Madonna Aeiparthenos (ossia sempre vergine), prima, durante e dopo la Natività. Nel 649 un altro Concilio, il Lateranense, proclama la scomunica per chi non afferma la verginità mariana. Viene contestato da un filone teologico protestante, che vuole la Madonna vergine solo fino al concepimento di Cristo e non dopo.

3. IMMACOLATA CONCEZIONE. Come detto, spesso confuso con la verginità di Maria e con un presunto “concepimento senza peccato” di Gesù, in realtà significa che la Madonna è nata senza la macchia del peccato originale. Fu proclamato con la bolla papale Ineffabilis Deus da papa Pio IX l’8 dicembre 1854 (e celebrato dalla Chiesa cattolica ogni 8 dicembre).

4. ASSUNZIONE. Proclamato da Pio XII il primo novembre 1950 (costituzione apostolica Munificentissimus Deus), dichiara che la Madonna, portata in cielo con il suo corpo, è “attualmente riunita a Gesù risorto e partecipa con tutto il suo essere della vita gloriosa del Figlio”. Riprende l’antichissima tradizione della Dormizione o del Transito, secondo cui la Vergine, alla fine della sua vita terrena, si sarebbe addormentata per essere trasportata in cielo con la sua carne. La Chiesa non si pronuncia sulla morte corporale di Maria (secondo molti da escludere, perché sarebbe legata al peccato): la formula è “compiuto il corso della vita terrena…. “Di certo, nessun ritrovamento storico indica tracce di una tomba di Maria. Si celebra il 15 agosto.

Da  Focus

Ho trovato l’amicizia tra i filosofi…

Ma erano i filosofi che soddisfacevano quel bisogno che si celava da qualche parte nella mia testa confusa: immergendomi nei loro eccessi e nel loro farraginoso vocabolario, spesso mi incantavano, saltavano fuori con affermazioni azzardate infiammate che mi sembravano verità assoluta o maledettamente vicine alla verità assoluta, e questo tipo di sicurezza era quello che cercavo per la vita di ogni giorno, che assomigliava molto di più a un pezzo di cartone. Quei tizi erano dei grandi, mi hanno fatto sopportare giorni come rasoi e notti piene di ratti; mentre le donne tiravano sul prezzo come banditrici venute dall’inferno. I miei fratelli, i filosofi, loro mi parlavano come nessun altro per strada o in giro aveva fatto mai; riempivano un vuoto immenso. Che bravi ragazzi, oh, davvero dei bravi ragazzi!

Charles Bukowski

 

Quattro passi tra le nuvole…

Chissà perchè si dice”avere la testa fra le nuvole”? Forse perchè non sappiano dove le nuvole inizino e dove abbiano fine, per cui perdersi fra le nubi significa essere altrove, oltre la realtà. A volte questo succede inconsciamente, a volte con la volontà di soffermarsi su di loro, sulle loro infinite forme, spessori e trasparenze, quella loro imprevedibilità che da sempre affascina gli uomini. Moltissimi ne hanno scritto fin dai tempi antichi, vedi Aristofane,tra i Greci, Shakespeare, studiosi, poeti e semplici ammiratori di nubi, come lo sono io,che mi diletto con un cielo di nuvole,come fosse un gioco,
Quante forme hanno le nuvole? Infinite. Le nuvole sono instabili, mutevoli e cangianti. Più prosaicamente per un meteorologo una nube è un insieme di minuscole particelle d’acqua o di ghiaccio, così numerose da risultare visibili. Le goccioline sono grandi pochi micron fino a raggiungere i 100 micro.
Il mistero sta nell’aspetto dell’acqua lassù rispetto a quella quaggiù: perché il composto d’idrogeno e ossigeno ha una forma così diversa dal liquido versato nei nostri bicchieri? Semplice: l’aspetto bianco e opaco dipende dal fatto che l’acqua ,distribuita in una enorme quantità di goccioline infinitamente piccole riflettono la luce in tutte le direzioni così da dare al loro aggregato un aspetto diffuso e lattiginoso. Lassù abitano gli dèi. Dio è rappresentato spesso seduto su una nuvola ,ma anche Zeus è nuvoloso; il dio del cielo e della pioggia, creatore delle nuvole, seduce le donne avvolgendole con una nube come appare nel meraviglioso quadro di Correggio, grande pittore di nuvole: Giove e Io (1531).

Zeus e io,

Nuvole o nubi? non si sa con esattezza, pare che la Scienza sia per nubi, mentre i comuni mortali si smarriscono prevalentemente nelle nuvole. La storia dei nomi delle nuvole comincia con Aristotele e arriva a uno sconosciuto meteorologo dilettante, Luke Howard. Una sera del 1802 in un umido stanzone londinese usato come laboratorio questo trentenne espose la sua nomenclatura delle nuvole-nubi: semplici: Cirrus, Cumulus, Stratus; intermedie: Cirrus-cumulus, Cirrostratus; modificate: Cumulus-stratus; Cumulo-cirro-stratus. Oggi si parla di Cumulus, Cumuloninbus, Stratus e Stratocumulus per le nubi basse; Altocumulus, Altostratus e Nimbostratus per quelle medie; Cirrus, Cirrocumulus e Cirrostratus per le nuvole alte. Sono il genere, poi ci sono le specie e altre varietà come le “nuvole accessorie”, che introducono altri dettagli classificatori. Ma l’impianto resta quello impostato dal quacquero inglese quella sera, dall’uomo a cui Goethe dedicò una lirica appassionata Ma come si formano le nubi? Con la salita di aria per il riscaldamento solare, ma anche per il sopraggiungere in alto di masse d’aria provenienti da direzioni diverse. Le nuvole sono il risultato di una macchina termica che funziona in modi vari e che rende la Terra vivibile. Sappiamo molto delle nuvole, ma non ancora tutto, e soprattutto, nonostante vari tentativi, non siamo in grado di produrle. Come era giunto Howard a definire quelle che Aristotele chiamava le “meteore” – “quel che sta in alto nell’aria” – secolarizzando in un colpo solo i cieli sulle nostre teste? Notando quanto fossero volubili, quindi ponendole come masse dinamiche e infine ,prendendo atto che esse passano da uno stato all’altro attraverso forme intermedie molto labili e poi dando loro un nome. La scienza della previsione, considerata a lungo la scienza della delusione, ha acquistato sempre più veridicità, grazie alla moderna tecnologia di misurazioni perfette. Cade la pioggia, la neve, un mondo di vapore che svanisce davanti ai nostri occhi. Una volta scomparse non senza lasciare i segni della propria effimera esistenza, parrebbe naturale considerarle semplici forme del cielo prive di un significato preciso. E invece no, perché sono le nuvole che ci fanno sognare . La poetessa Wislawa Szymborska ha scritto:

Non gravate dalla memoria di nulla,

si librano senza sforzo sui fatti. Ma quali testimoni di alcunché

si disperdono all’istante da tutte le parti”.

nuvole

Quanto pesa il cuore…

Ho imparato a pesare il cuore della gente con le mani. Duecentoventi grammi. Trecento. Trecentodieci. Ho imparato a pesare il cuore della gente con le mani, e raramente sbaglio. Le metto a cuppetiello, come con la frittura di paranza. Ci faccio una conca, una bacinella, un secchiello per bambini. Al posto delle mani ho due piatti di bilancia, una stadera da fruttaiuolo che non mente. Sottraggo la tara al peso lordo e misuro le persone al netto di chi sono.

Ho sentito, con le mani, cuori pesanti di piombo di malinconie. Altri, invece, erano leggeri, erano piume d’uccello, erano soffioni. Mi sono piaciuti tutti e due, e mi sono sentita un po’ piombo e un po’ soffione pure io, mentre mi pesavo il cuore con le mani a cuppetiello, dosando l’amarezza di certe assenze e, di altre assenze, la liberazione.

Il cuore è un muscolo che risponde alla legge di compensazione, ai vasi comunicanti, a sacco vuoto e sacco pieno. I cuori più grevi sono quelli stipati di rimpianti, come gli scaffali delle dispense alimentari. Li riconosco al tocco, mi basta poco, nun ce vo’ niente. Hanno dentro una tristezza diversa dalla tristezza dei rimorsi, che è più rabbiosa, incattivita ma vibrante. Il cordoglio dei rimpianti, invece, delle cose che non abbiamo osato per paura, delle persone che abbiamo perduto per inazione, per pavidità o inettitudine, è un sentimento apatico, depresso, insonnolito. Come quando non hai voglia di far nulla e ti accomodi sul letto pigramente, aspettando che il tempo passi, che qualcosa accada e ti travolga. La tristezza dei rimpianti è una tristezza che si è arresa e non reagisce. È un morto che cammina.

I cuori più leggeri, invece, i cuori-soffione, i cuori-piume d’uccello, li peso con una mano sola e tanto basta. Sono spumosi, sembrano friabili, mi ricordano la schiuma di sapone che si infrange quando l’hai montata a neve nella vasca; ci hai fatto dentro l’amore che profuma di nudo, l’amore che inarca i reni, quello che urla il piacere a bocca piena e ventre teso, quello che non si aspetta niente e sente tutto, sente il doppio. L’amore che ti fa femmina, l’amore che ti fa uomo.
I cuori più belli sono un poco e un poco. Un poco pesanti e un poco leggeri. Un poco zavorra e un poco spuma. Hanno dentro il peso e la leggerezza, l’arrivo e la partenza, lo scatto di chi fugge e l’immanenza di chi resta. Al gioco di sacco vuoto e sacco pieno loro sono sacco mezzo, non per quella storia dei grigi, della diplomazia di chi non si schiera, di chi non parteggia. No. Al gioco di sacco vuoto e sacco pieno loro sono sacco mezzo perché la vita li ha spaccati in due, li ha divisi. Ci ha messo sotto la leggerezza dei soffioni, delle piume d’uccello e della spuma, e sopra la pesantezza del piombo delle malinconie. La prima regge la seconda e non le permette di cadere; la seconda resta in equilibrio sulla prima e non la schiaccia. È una legge fisica sbilenca, sovversiva; è una logica oltreumana ca sùlo ’o core pò capì.

Centocinquanta grammi, grazie. A me ne bastano duecento, prego. Io abbondo, ne voglio trecento. Metto il cuore della gente nel cuppetiello delle mani e faccio su e giù. Molleggio a mezz’aria e poi sputo la sentenza: cuore soffione, cuore piombo, cuore sacco mezzo.

Non lo dico e non lo lascio intendere ma, da lì in avanti, io ti ho pesato.

(Antonia Storace, dal libro Frumento e papaveri)

peso del cuore

Più libri più liberi – Il Fedro di Platone e la libertà della cicala: Matteo Nucci con Sara Scarafia

 

Quaranta minuti di cibo per la mente veramente piacevoli sono stati quelli che ho trascorso ieri a Spazio Robinson,io on line, loro a Roma alla rassegna ” Più libri, più liberi”. Una conversazione, lezione sul tempo , su come spenderlo, su come vivere veramente e non solo per il denaro, anche se di esso necessitiamo. Matteo Nucci, esperto grechista, ne parla in modo pratico e divertente,proprio partendo dal mito delle cicale ,tratto dal Fedro di Platone. Premetto, per chi non lo sapesse , che il Socrate del mito non è il filosofo, ma un cittadino comune che discorre con Fedro.

cicale

Platone: Il mito delle cicale (“Fedro”)

SOCRATE: Tempo ne abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che in questa calura soffocante le cicale, cantando sopra la nostra testa e discorrendo tra loro, guardino anche noi. Se dunque vedessero che anche noi due, come fanno i più a mezzogiorno, non discorriamo, ma sonnecchiamo e ci lasciamo incantare da loro per pigrizia della mente, giustamente ci deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da loro per dormire in questo luogo di sosta come delle pecore che passano il pomeriggio presso la fonte; se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto a loro come alle Sirene senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci daranno quel dono che per concessione degli dèi possono dare agli uomini.
FEDRO: E qual è questo dono che hanno? A quanto pare, non l’ho mai sentito.
SOCRATE: Non si addice davvero a un uomo amante delle Muse non averne mai sentito parlare.(46) Si dice che un tempo le cicale erano uomini, di quelli vissuti prima che nascessero le Muse; quando poi nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni di loro restarono così colpiti dal piacere che cantando non si curarono più di cibo e bevanda e senza accorgersene morirono. Da loro in seguito ebbe origine la stirpe delle cicale, che ricevette dalle Muse questo dono, di non aver bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare senza cibo né bevanda fino alla morte, e di andare quindi dalle Muse a riferire chi tra gli uomini di quaggiù le onora, e quale di esse onora. A Tersicore riferiscono di quelli che l’hanno onorata nei cori, rendendoli a lei più graditi, a Erato di chi l’ha onorata nei carmi d’amore, e così per le altre, secondo l’onore che ha ciascuna. A Calliope, la più anziana, e a Urania, che viene dopo di lei, riferiscono di quelli che trascorrono la vita nella filosofia e onorano la loro musica, poiché esse, avendo cura del cielo e dei discorsi divini e umani, emettono tra tutte le Muse la voce più bella.(47) Per molte ragioni, quindi, a mezzogiorno bisogna parlare e non dormire.

per sentire il video

La tecnologia che mi piace…

Avanti a tutta tecnologia, avanti a tutto digitale, avanti a realtà virtuale, avanti di corsa, sempre più di corsa, il tempo è denaro, ,sempre più denaro è il fine di tutto questo percorso, che coinvolge ormai la vita di tutti noi. Per chi è nato in questa epoca credo che difficilmente qualche scoperta farà rimanere a bocca aperta  qualcuno, a meno che  la scoperta fosse quella dell’immortalità. Per chi, come me, ascoltava da bambina la radio a galena, passato ormai il periodo dello stupore , è subentrato quel sentimento che si chiama noia. Strano, vi chiederete, perchè noia in questo mondo cosi rapido, così continuamente nuovo? Si, noia, perchè per ottenere tutto questo basta la connessione, ossia una sedia , una postazione PC, un collegamento Internet, il più veloce possibile, aggiungiamo uno smart  Phone ed il gioco è pronto. Qualche clic sui tasti del computer oppure leggeri sfioramenti allo schermo del PC o del telefono per trovarmi immersa dove voglio, nel commercio mondiale, nella politica, in una guerra oppure in un disastro naturale dovunque nel mondo, senza muovermi dal mio tavolo… che noia  vivere la vita così rapidamente , immersi dovunque si voglia essere, costantemente ,giorno dopo giorno, settimane, mesi, anni… respirando aria climatizzata tutto l’anno, quando il mondo lento di un tempo ci regalava sole, pioggia, freddo ed afa, fatica ,ma soprattutto la voglia di andare, di programmare, di elaborare pensieri. Anche i pensieri si elaborano con la tecnologia, a noi basta imparare l’uso della strumentazione- E i bambini non giocano più nei cortili, per le strade, giocano sul divano  con play-station,  sempre più  sofisticate ,collegati; i ragazzini si scrivono parole d’amore su What’s app, fanno l’amore su Skype e quando si incontrano per fare coppia, pensano già a come sarà quando sarà finita.
Ebbene il mondo virtuale non mi attira più di tanto, mi piace come gioco, un simpatico passatempo per tenere la mente allenata, per continuare a ricordare, per imparare quello che , alla mia età, in altri tempi mi sarebbe stato impossibile e poi osservare quante cose meravigliose la tecnologia digitale permette di fare nel mondo dell’arte. Oggi non c’è museo o mostra d’arte che non offra confronti interattivi tra le opere esposte. Possiamo così osservare molte cose curiose e questo mi piace, mi piace tanto.
Al Getty  Museum è esposta questa opera di Dou, periodo tra il 1655_ 1659, che rappresenta “Studioso di archeologia , con candela”.
Ebbene, guardate quanta carica di vita la tecnica gif riesce a dare a questa bellissima riproduzione fotografica.

 

 

Sulla felicità e sulla tristezza…

Caro Seneca, perché chi parla di felicità ha gli occhi tristi? Lo notavo l’altra sera a Taormina in un convivio sontuoso come le cene romane di Trimalcione. Guardavo ad uno ad uno chi decantava la felicità e vi scorgevo un malcelato fondo di tristezza dietro la buccia dell’euforia. Chi più si riempiva la bocca di felicità e si infervorava al suo nome, tradiva dai suoi occhi e talvolta dal suo tono, vecchie cicatrici di malinconia, stagionate infelicità; si avvertiva in lui la mancanza di felicità o la sua lontananza. Forse perché chi parla di felicità non la vive dentro ma la invoca da fuori e di lei risale il ricordo perduto; forse perché l’ha solo sfiorata in qualche rapito e remoto sito e ne patisce il vuoto, come se la mancanza di felicità fosse assenza di vita, di aria e di luce; o forse perché egli è d’indole così infelice da pensare di fugare il suo stato d’animo già solo invocando la felicità, sperando che il suo solo nome possa offrirne già un assaggio o suscitarne un barlume. Allora parlare di felicità diventa un rito di propiziazione. Mi sono perciò convinto che è da infelici parlare di felicità. La felicità si vive, non si descrive, finché si è dentro; se si vuole raccontarla, si è già fuori. Ti chiedo, Seneca, di illuminarmi sulla felicità al cospetto della saggezza e della follia.

Quanto infelice dev’essere un’epoca che esalta la felicità e si crogiola nel suo culto; ne scrive, ne canta, ne parla, inonda di auguri e di buoni auspici. Come se la vita possa rinunciare a tutto, alla verità e alla dignità, alla libertà e all’amore, alla conoscenza e alla pietà, nel nome divino della felicità. Sono convinti che la felicità li contenga tutti, o tutti li renda superflui, e invece la felicità è proprio la sospensione della vita; non è il risveglio ma il sogno. Dev’essere schiavo di un piacere malato e sofferente chi si affanna a fermare la felicità e a incoronarla come regina della vita sua. Magari fossero epicurei, i cercatori di felicità; sono gaudenti ma infelici, famelici di gioia ma disperati. La felicità sparisce appena è desiderata, arriva inattesa, è ospite volatile e latitante. Gioie e dolori dolgono entrambi, ma in tempi diversi; prima o poi si sconta la felicità. Gli autunni e gli inverni vengono per farci pagare le primavere e le estati.

La tristezza nasce dalla perdita, la felicità invece sorge dal perdersi. La tristezza genera tesori quando diventa arte della sconfitta, e rielaborando la perdita raggiunge radiose benché sofferte glorie. (…)

I nostri padri pensavano che la felicità fosse un bene pubblico, anche quella più intima e privata; ora siamo caduti nell’opposto e crediamo che la felicità sia solo un bene privato. In realtà la felicità non ha natura pubblica o privata; ma è un’armonia, un breve collimare tra vivere e volere. Più che intima è interiore, la felicità, più che esteriore è estroversa. Ci sono infelicità che passano dalla vita pubblica e altre dalla vita privata. La felicità non è una condizione ma una carezza, è il convergere fugace di clima, sospensione e gesti, di solitudine beata o combaciante compagnia. La felicità si fa vedere solo un attimo, e non si lascia agguantare, semmai ti agguanta; ma appena sei cosciente, svanisce. Non è un programma di vita ma un fuori programma; figuriamoci se può risiedere negli oggetti. La felicità fiorisce selvatica nel giardino della dimenticanza. Perciò penso, Seneca, che mente chi dice: sono felice. Perché la felicità è attesa o ricordo, sogno o amnesia. Chi si dice felice in quel momento in cui lo dice, non lo è, sta solo ricordando o pregustando, o peggio sta solo recitando un ruolo, simula uno stato che ha conosciuto in passato o che aspetta in futuro, professa una speranza e mima la gioia per propiziarne l’avvento. Quando sei cosciente non è presente, quando è presente non sei cosciente. La felicità ha il cuore aperto ma gli occhi chiusi. Ha il passo rapido e le mani lievi. Hai ragione tu, o Seneca, a dire che i giorni più felici della vita per primi fuggono ai miseri mortali. Perché la felicità è volatile e vola in fretta, l’umanità è terrestre e cammina lentamente.

E tuttavia, Seneca, si dice spesso che agli animi nobili si addice piuttosto la malinconia, perché il pensiero si nutre di mancanza, di tristezza e a volte si innalza e si purifica nel dolore. E’ delle nature più pensose la nostalgia del vivere e l’acuta percezione del morire, e il loro sposalizio genera il pensiero filosofico e la poesia. Ma ti chiedo, Maestro, come è possibile desiderare la felicità e riconoscere l’austera bellezza del suo contrario. È umano cercare la felicità, è nobile ospitare la malinconia. Personalmente amo più la prima e ammiro più la seconda, e in fondo non so rinunciare ad ambedue perché ambedue recano doni: i doni della felicità si gustano appena sbocciati, i doni della malinconia si gustano quando sfioriscono. Perché la malinconia è fertile ma ha la sua gravidanza e le sue doglie; la felicità si annuncia già col profumo e riempie gli occhi. La malinconia è un ponte tra passato e futuro, la felicità è la pienezza del presente.

La vita perfetta del saggio è destreggiarsi tra i frutti dolci dell’una e i frutti agri dell’altra, sapendo che sarebbe impossibile vivere solo degli uni o degli altri, o pretendere dagli uni quel che ci danno gli altri. Le nature più inclini alla malinconia sanno cogliere con più gioiosa pienezza il gusto della felicità, è come se la loro profondità ne amplifichi il sapore e l’odore. Chi conosce la tristezza sa più apprezzare la felicità. Il saggio tuttavia si imbarca sulla malinconia come sulla felicità per attraversare il fiume della vita. La saggezza è quel che resta di ambedue, una volta guadato il fiume. La vita autentica è sulla riva ulteriore, al di là della felicità e della tristezza. Non so se ha ragione chi esorta ad essere “in tristitia hilaris in hilaritate tristis”; ma so che la previsione dell’una tempera il godimento o la sofferenza dell’altra, evitando di smarrirsi nei postumi dell’allegria o della tristezza, e le rende entrambe ancelle e non signore del nostro animo.

Resta tuttavia vero, e correggimi se sbaglio, che la felicità è un lievito di follìa, mentre la tristezza si accompagna al senno. C’è qualcosa di infantile nella felicità e di senile nel senno, la perfezione sarebbe gustare l’infanzia con la saggezza di un anziano e le energie di un ragazzo; ma è impossibile. Di quella follia abbiamo tuttavia bisogno se sa esser lieve e breve; e su quel senno si fonda l’umanità, a patto che sorvegli ma non sopprima il nostro umanissimo piacere di vivere.

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MV, Vivere non basta, Lettere a Seneca sulla felicità (Mondadori, 2011)