Cos’è il body count e in che modo viene usato contro le donne? Spoiler, è (anche) colpa dei podcaster..

Cos'è il body count e in che modo viene usato contro le donne? Spoiler, è (anche) colpa dei podcaster

 

Al liceo, le ragazze si raccontavano a vicenda delle loro cotte, delle persone che avevano baciato, di quante persone avevano provato a baciarle. Tu 2, io 4, e tu? Si contavano sulle dita della mano, si faceva distinzione tra bacio a stampo e con la lingua, qualità e durata. Si leggeva sui periodici per teenagers come perfezionare la tecnica, come conquistare i coetanei. Non per giudizio o per competizione – non esplicitamente almeno – più per volontà di tenere il conto, di capire e capirsi, di avere l’illusione di tenere il conto. A quanti anni avete smesso di farlo? Speriamo prima dei 25. Adesso, direttamente dall’ideologia incel e dalla bocca dei podcaster, soprattutto di quelli uomini che sull’esempio di Andrew Tate parlano in un microfono della condizione dell’uomo moderno e dei nuovi equilibri tra i sessi secondo loro, l’espressione body count entra nel mainstream, viene discussa sui social a intervalli regolari. Cosa si intende per body count? Semplicemente il numero di persone con cui si è andati a letto. Niente di male, se non fosse che questo numero e questo concetto vengono impugnati contro le donne, per misurarne il valore.

Body count, significato e implicazioni

L’idea che, per le donne, avere tanti partner sia un motivo di perdita di valore non è una novità. Fin dalla sacralizzazione della verginità, le ragazze sono state abituate a dare un significato alto ai rapporti sessuali, molto più che i ragazzi. La prima volta deve essere importante, pensata, fondamentale per la nostra crescita. Perfetta, altrimenti abbiamo scelto la persona sbagliata ed è colpa nostra, e questa cosa ci avrà rovinato la vita. Zero pressione, no? Non troppo presto, non troppo tardi. Con dei parametri precisi, decisi per noi dalle forze della morale cattolica, del patriarcato e della misoginia. Per i ragazzi non è così, non lo è mai stato. Per loro la conquista è un vanto, qualcosa da sbandierare, e più si riesce a conquistare meglio è. Da questa mentalità, ancora tragicamente diffusa, arriva il parallelismo tra chiavi e serrature, in cui l’uomo è la chiave che apre tutte le porte e la donna, in maniera brutale, colei che permette a tutti di entrare. Da qui, da questa metafora cruda e popolare, arriva anche tutto il resto.

Lo slutshaming si rinnova: implicazioni e conseguenze

Adesso, mentre cerchiamo di superare queste idee con fatica, mentre solleviamo questioni all’attenzione dell’opinione pubblica, mentre cerchiamo finalmente e una volta per tutte di emanciparci, una loro rinascita sotterranea minaccia le adolescenti di oggi. Al tradizionale slutshaming, infatti, questi giovani podcaster arrabbiati, sui social e sulle piattaforme di ascolto, aggiungono una sorta di criterio per giudicarci tutte, per mettere in classifica la nostra capacità (secondo loro oggettiva) di essere future mogli, madri e compagne. Cos’altro dovremmo voler essere, dopotutto? I problemi con l’utilizzo di questa espressione sono tanti, e non stanno nell’espressione stessa, ma in quello che c’è dietro. Una concezione distorta ed errata del corpo delle donne e delle donne in generali come oggetti, usurabili, da cercare nuovi fiammanti, come automobili. L’idea piena di falle che il sesso sia – se fatto dalle donne, ma con chi lo fanno queste donne? – qualcosa di cui vergognarsi, che toglie valore a un essere umano, e non un atto di confidenza e chimica reciproca, una scelta da prendere insieme in quel momento. L’idea che una compagna di vita perfetta debba avere un body count bassissimo, andando un passo oltre, potrebbe giustificare uomini adulti alla ricerca di partner sempre più giovani perché (ai loro occhi) più pure e molto altro.

Lasciare indietro numeri e misurazioni

La questione è molto seria. Adolescenti sempre più giovani e vulnerabili vengono indottrinati da queste personalità del web, e a subirne le conseguenze non sono solo le loro coetanee, ma anche loro. Odiare isola, rende rabbiosi e violenti, scatena istinti che sarebbe meglio imparare a controllare. Cosa possiamo fare per questi ragazzi? Come al solito, non esiste soluzione univoca o semplice, una pillola da prendere due volte al giorno dopo i pasti. Con fatica e senza gettare la spugna bisogna partire dall’educazione, bandire dal discorso pubblico alcuni personaggi. Parlare di sesso in maniera onesta, senza nessun tipo di numero o misurazione quantitativa, senza competizione né vergogna. Insegnare alle ragazze ad essere sessualmente libere, ma anche a tutelarsi da queste persone, riconoscere i segni di queste correnti di pensiero dannose e limitanti, infine, non guasterebbe. Per un rapporto tra ragazzi e ragazze il più possibile sereno.

Priscilla Lucifora

Spogliati… nuda verità-

 

Spogliati
Spogliati tutta,
mostrami serena le rughe
le tue piaghe,
non temere
anch’io sono ferito
spaventato dalla vita.
Strappa con rabbia
i veli adornanti
e le maschere di ghiaccio
che occultano lividi,
mostrati fiera
nei tuoi lineamenti.
Quando sarai spoglia
come un albero d’autunno,
quando sarai nuda
ed indifesa come un bambino,
ti mostrerò le mie ricchezze
nascoste in un forziere di vetro .
Solo allora ti donerò sincero
tutta la mia fragilità
le mie insicurezze
le paure ancestrali
le impurità nascoste,
ti porgerò poi con amore,
sopra un vassoio di rose bianche
-la verginità della mia anima-

Ernesto Che Guevara

L’ultima risposta…

 

L’ultima risposta non è un racconto, come parrebbe dal titolo, bensì una lettera che Einstein scrisse alla figlia e attorno alla quale nacque pure un romanzo.

Quando esplicitai la teoria della relatività, furono in pochi a capire, e anche quello che ti rivelerò ora, affinché tu lo trasmetta all’umanità, si scontrerà con l’incomprensione e i pregiudizi del mondo. Ti chiedo, ciò nonostante, di custodirlo per tutto il tempo che sarà necessario, anni, decenni, fino a che la società avrà progredito quanto basta per comprendere ciò che ti dirò tra poco.
C’è una forza estremamente potente per la quale finora la scienza non ha trovato una spiegazione formale. È una forza che include e governa tutte le altre, e che inoltre soggiace a qualsiasi fenomeno che opera nell’universo e che ancora non abbiamo identificato. Questa forza universale è l’amore.
Tentando di delineare una teoria unificata dell’universo, gli scienziati dimenticarono la più invisibile e potente delle forze.
L’amore è luce, perché illumina chi lo dà e chi lo riceve. L’amore è gravità, perché fa sì che alcune persone si sentano attratte da altre. L’amore è potenza, perché moltiplica la parte migliore di noi, e permette che l’umanità non si estingua nel suo cieco egoismo. L’amore rivela e disvela. Per amore si vive e si muore. L’amore è Dio, e Dio è amore.
Questa forza spiega tutto e dà un senso enorme alla vita. Questa è la variabile che abbiamo a lungo tralasciato, forse perchè l’amore ci fa paura, dato che è l’unica energia dell’universo che l’essere umano non ha imparato a manovrare a suo piacimento.
Per porre in risalto l’amore, ho fatto una semplice sostituzione nella mia equazione più celebre. Se al posto di E = mc al quadrato accettiamo che l’energia per guarire il mondo può ottenersi attraverso l’amore moltiplicato per la velocità della luce al quadrato, arriveremo alla conclusione che l’amore è la forza più potente che esista, perché non ha limiti.
Dopo il nostro umano fallimento nell’utilizzo e nel controllo delle altre forze dell’universo, che si sono ribellate a noi, è necessario che impariamo ad alimentarci di un altro tipo di energia. Se vogliamo che la nostra specie sopravviva, se ci proponiamo di trovare un senso alla vita, se vogliamo salvare il mondo e ogni essere senziente che vi abita, l’amore è l’unica e l’ultima risposta.
Probabilmente ancora non siamo pronti a fabbricare una bomba d’amore, un congegno sufficientemente potente da distruggere l’odio, l’egoismo e l’avidità che devastano il pianeta. Tuttavia, ogni individuo porta dentro sé un piccolo ma potente generatore di amore la cui energia aspetta di essere liberata.
Quando impareremo a dare e ricevere questa energia universale, proveremo che l’amore vince tutto, tutto trascende e tutto può, perché l’amore è la quintessenza della vita.

Albert Einstein   

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Se la sinistra si riduce a commentare la destra…

La segretaria del Pd Elly Schlein

 E davvero non si comprende cosa ci sia da gioire (a sinistra) se Elly Schlein, già in discussione di suo, non si impone come “sfidante” per forza propria ma perché “scelta” nel ruolo dalla presidente del Consiglio. Che l’ha invitata a candidarsi alle Europee, l’ha sfidata al duello televisivo, le ha sostanzialmente proposto di polarizzare, da subito, la lunga campagna elettorale, ovvero i prossimi sei mesi di chiacchiere (sempre meglio che governare): «Ho detto tutto», direbbe Peppino a Totò, perché da che mondo è mondo uno non si sceglie i leader che lo impensieriscono, ma si impensierisce solo quando si sente realmente sfidato. E allora questo racconta la trovata. Di una leader, Giorgia Meloni, che, sebbene sia venuta fuori in questo anno in tutta la sua modestia – tra un’incurabile ossessione complottista e una classe dirigente impresentabile – non si sente realmente minacciata (politicamente). Nemmeno quando, a favor di curva, fa un po’ di scena. E in fondo la minaccia non c’è visto che dall’altra parte sono gioiosamente impegnati ad assecondare il suo gioco: sempre schiacciati nella quotidianità, sempre di rimessa, come se all’opposizione ci fossero dei commentatori delle sue gesta (per quanto discutibili). E, quando non c’è una cronaca da commentare, c’è il sempreverde fantasma di Orban. La fa pure apparire una gigante agli occhi di chi l’ha votata sognando il “castigamatti”, così non si parla degli sbarchi fuori controllo. E’ perfetto: Giorgia Meloni, protagonista assoluta del commentificio nazionale che finisce per esaltarne il ruolo oltre le capacità, sceglie, per essere commentata, Elly Schlein, fragile interprete di un minoritarismo di segno opposto che non esce dalle Ztl. E, a sua volta, grazie alla cattedra gentilmente concessale, la ri-commenta, indossando i suoi abiti preferiti di “opposizione dell’opposizione”. E la preferisce a Giuseppe Conte che risulta meno gestibile: lei populista (con l’impiccio del governo), lui “populista e mezzo” con le mani libere e l’elettorato più contiguo. Vuoi mettere il balbettio quasi imbarazzato del Pd sull’Ucraina con uno che, fregandosene di Putin, ti risponde “i soldi delle armi metteteli sulla sanità”. E vuoi mettere uno che sull’immigrazione ha fatto i decreti sicurezza rispetto all’ “accogliamoli tutti”. Dal suo punto di vista Conte quantomeno ci prova a proporre un’altra idea, discutibile o meno è altro discorso. Populista, ma fa i conti col popolo. Mentre il limite del Pd, tutto politico, è quello di non incarnare, nell’iniziativa concreta, un altro racconto (popolare) che vada oltre i confini dei “moralmente indignati”: si contestano le frasi della favola melonicentrica, falsa e tranquillizzante, senza però mai riuscire a cambiare terreno, dall’opinione alla realtà, rovesciandole addosso, ad esempio, la crisi sociale (in buona compagnia del sindacato e del suo autunno tiepido). E se si gioca tra influencer Giorgia Meloni è la più forte di tutti.

Alessandro De Angelis                                                                                                                

L’epoca del trash in politica.

 

Dall’inizio dell’anno l’evento politico più importante che ha diviso media, politici, opposizione e governo, è un pistolino che ha sparato, inteso sia come arma che come persona. Se n’è parlato per giorni. L’episodio in sé non meriterebbe commento se non si inserisse in una lunga scia di dibattiti, talk show, conferenze stampa, interventi parlamentari e dichiarazioni su risvolti banali, episodi trascurabili, pettegolezzi, parole rubate o commenti filtrati nei social, piccole stupidità di piccoli esponenti politici elevati a categoria della politica, spie di una condizione generale, prove di chissà quale svolta autoritaria. Ogni caso privato, individuale e singolare, viene elevato a paradigma ed esempio rappresentativo. Disastro nazionale fu considerato per esempio la fermata straordinaria di un treno per consentire a un ministro di partecipare a una manifestazione pubblica. Minima sciocchezza a cui è stato dato Massimo Rilievo, quasi fosse il segno di un’epoca e la nascita di un regime.  Mi rifiuto di inseguire questa miserabile contabilità e di partecipare a quei dibattiti sul nulla; osservo che siamo entrati nell’età politica del trash. Il trash inteso come immondizia, avanzi indecenti della politica e della comunicazione.  Qualche anno fa serpeggiava il kitsch, il cattivo gusto, su cui scrissero mirabili pamphlet Hermann Broch e Gillo Dorfles; e di cui si occupò pure Milan Kundera. Eravamo ancora in uno stadio estetico, seppur deteriore; il trash è il passo ancora più in basso, nel volgare e nel banale. Il trash tracima e trascina verso il basso anche coloro che non ne sono veicoli. Diego Fusaro ha scritto un libro efficace intitolandolo Sinistrash (ed. Piemme), cogliendo in pieno da studioso di sinistra la deriva trascista della sinistra. Non è per cavalleria ma sento il dovere di aggiungere che il dominio del trash è in realtà trasversale: siamo nell’età politica del trash. E il tenore di quei dibattiti prima accennati ne è la spia. Non c’è solo la sinistrash o la destrash ma c’è anche il trash-show, gradino ulteriore del talk show; c’è la comunicazione trash, che copre i vuoti lasciati dalla cultura, dalle idee, dalle analisi. Ci sono gli influencer trash, anche se dettano le mode, e si potrebbe a lungo continua . Il trash è il rifiuto organico di quel che un tempo erano i temi e i valori politici. Anche del comunismo e del fascismo restano solo i cassonetti del trash o se volete le loro parodie; trash per esempio è l’Anpi senza fascismo e senza partigiani veri; è come se a destra rifondassero oggi l’opera nazionale combattenti e reduci, in assenza di guerre e milizie al fronte. Cinquant’anni fa Pasolini giudicava l’antifascismo postumo come “ingenuo o stupido, pretestuoso e in malafede; perché dà battaglia o finge di dar battaglia a un fenomeno morto e sepolto”, “un antifascismo di tutto comodo e riposo”. Per Fusaro la sinistrash ha abbandonato la sua identità sociale e socialista, la sua critica al capitalismo e la sua difesa dei deboli, dei poveri, del popolo, per diventare fucsia, arcobaleno; insegue le nuove soggettività, tra migranti, verdi, lgbt; ravana tra gli avanzi del sessantotto libertario e permissivo, su sesso, droga e narcisismo; dimentica il noi comunitario e ogni prospettiva ideale; mette il rossetto a Che Guevara, diventa il braccio politico del capitalismo e del pensiero unico. Si trincera dietro un morto sepolto, il fascismo, che eleva a nemico assoluto; segue nella sua demofobia il neoliberismo e ne diventa la guardia bianca o il maggiordomo. Analisi da condividere, soprattutto in tempo della cappa. Pochi si rendono conto della deriva a sinistra; tra questi Fusaro cita Luca Ricolfi, Federico Rampini e pochi altri, e altri rari casi cita sul versante destro. Nel passato si richiama a Pierpaolo Pasolini e a Costanzo Preve, ma anche ad Augusto del Noce e più di recente ad Alain de Benoist.   Pochi anche tra coloro che mantengono uno spirito critico su posizioni liberali; tra i rari casi è giusto citare Dino Cofrancesco che nel suo recente Per un liberalismo comunitario (ed. La Vela) critica l’individualismo liberista che giudica “l’identitarismo il peccato mortale del nostro tempo” e dissente dall’”assolutismo etico” che ispira la cancel culture nel nome del neoilluminismo, applicando l’inaccettabile “principio della retroattività in fatto di morale”. Cofrancesco oppone all’uguaglianza il pluralismo delle differenze, e avverte: il conservatorismo negato riemerge in forme barbariche. Notevole anche un’osservazione che andrebbe approfondita: “le destre hanno perso la partita in occidente, non in altre parti del mondo”.  Secondo Fusaro la sinistra è passata da Marx a Nietzsche; in realtà sembra passata, insieme con la sua epoca, all’ultimo uomo nietzscheano, abdicando verso il transumano nella prospettiva dell’intelligenza artificiale. Ma l’orizzonte, lo ripetiamo, è epocale e non solo riservato alla sinistra; anche se il woke, il politically correct e la cancel culture albergano in prevalenza a sinistra. Nelle società autoritarie, notava Spengler citato da Fusaro, “non era permesso a nessuno di pensare liberamente; ora sarebbe permesso ma nessuno ne è più capace”, pensa ciò che viene prescritto di pensare. Il trash è liberista in economia, centrista in politica e di sinistra in tema di costume e ideologia. Esecra il populismo, detesta la sovranità, rigetta ogni fedeltà identitaria, disconosce ogni tradizione e ogni legame naturale e sociale. Non riconosce più eroi, santi o grandi ma venera solo le vittime, o presunte tali, fino a fondare una religione del vittimismo universale, di genere e di categoria (vittimista a suo modo è anche la destra).  Fusaro confida in una “nuova connessione sentimentale” con le masse nazionali-popolari e non disdegna l’ipotesi di un populismo socialista. Lui è giovane e ha il diritto e il dovere di confidare nella storia ventura. Lo stadio trash, però, non è reversibile, è difficile immaginare che i rifiuti possano tornare integri e vivi; si può aspirare al più al compostaggio… Ma la storia, la vita, il mondo riservano sorprese, l’uomo a volte è imprevedibile. E talvolta nei rifiuti si ritrova pure un neonato abbandonato…

Marcello Veneziani 

 

Anche la befana non può….da che mondo è mondo.

La Befana

Viene viene la Befana
vien dai monti a notte fonda.
Come è stanca! La circonda
neve, gelo e tramontana.
Viene viene la Befana.

Ha le mani al petto in croce,
e la neve è il suo mantello
ed il gelo il suo pannello
ed il vento la sua voce.
Ha le mani al petto in croce.

E s’accosta piano piano
alla villa, al casolare,
a guardare, ad ascoltare
or più presso or più lontano.
Piano piano, piano piano.

Che c’è dentro questa villa?
uno stropiccìo leggiero.
Tutto è cheto, tutto è nero.
Un lumino passa e brilla.
Che c’è dentro questa villa?
Guarda e guarda…tre lettini
con tre bimbi a nanna, buoni.

Guarda e guarda…ai capitoni
c’è tre calze lunghe e fini.
Oh! tre calze e tre lettini.
Il lumino brilla e scende,
e ne scricchiolan le scale;
il lumino brilla e sale,
e ne palpitan le tende.

Chi mai sale? chi mai scende?
Co’ suoi doni mamma è scesa,
sale con il suo sorriso.
Il lumino le arde in viso
come lampada di chiesa.
Co’ suoi doni mamma è scesa.

La Befana alla finestra
sente e vede, e s’allontana.
Passa con la tramontana,
passa per la via maestra,
trema ogni uscio, ogni finestra.
E che c’è nel casolare?
Un sospiro lungo e fioco.
Qualche lucciola di fuoco
brilla ancor nel focolare.
Ma che c’è nel casolare?

Guarda e guarda… tre strapunti
con tre bimbi a nanna, buoni.
Tra la cenere e i carboni
c’è tre zoccoli consunti.
Oh! tre scarpe e tre strapunti…
E la mamma veglia e fila
sospirando e singhiozzando,
e rimira a quando a quando
oh! quei tre zoccoli in fila…
veglia e piange, piange e fila.

La Befana vede e sente;
fugge al monte, ch’è l’aurora.
Quella mamma piange ancora
su quei bimbi senza niente.
La Befana vede e sente.
La Befana sta sul monte.

Ciò che vede è ciò che vide:
c’è chi piange e c’è chi ride;
essa ha nuvoli alla fronte,
mentre sta sul bianco monte.

Giovanni Pascoli

Befana-

Beati, beati, beati….

 

Beate le persone che hanno la capacità di trascinarti in cose folli, che da solo non faresti mai, ma poi farai senza problemi. Viva i pazzi, i fuori di testa, quelli che quando diluvia escono per urlare sotto la pioggia e lavano via tutto quello che li tormenta .
Quelli che gridano un “ti amo” con la stessa energia positiva di un “va***”. Viva i romantici che ancora credono che le stelle siano ancor più belle se guardate con qualcuno di speciale, sdraiati per terra, abbracciati com passionalità. Beati i sognatori, quei pochi che ancora esistono e sono capaci di contagiarti ogni poro della pelle facendoti vedere quanto bello sia il mondo se percorso con le persone giuste e ti insegnano a riconoscere quali siano queste persone. Infatti sono poche e preziose quanto il loro modo di guardare la vita. Per loro infatti la vita non è altro che una serie si attimi da vivere tutti col sorriso, avvolti dalla fragranza che più ci piace e il miglior sapore sulle labbra.

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Ieri commemorazione speciale,ma…A che serve la Rai.

 

La televisione compie oggi settant’anni ma nel celebrare il suo compleanno si omettono due dettagli storici non da poco. Il primo è che l’anniversario più importante di quest’anno, almeno come data, non è il settantennale della tv ma il centenario della radio, da cui nacque la Rai. La radio è la madre della tv, è l’incipit delle trasmissioni nell’etere. Il battesimo ufficiale della radio fu il 6 ottobre del 1924, in epoca fascista, l’emittente fu l’unione radiofonica italiana che poi assunse il nome famoso dell’Eiar. Che fu, si, altoparlante del regime fascista e della sua propaganda ma fu anche mezzo formidabile di informazione, istruzione e modernizzazione di massa. Arrivò perfino nelle campagne, fu il primo massiccio tentativo di includere i contadini nell’informazione, il loro passaggio dalla natura alla cronaca, dal tempo meteo al tempo storico.  Il secondo dettaglio trascurato dai tele-celebratori è che il 3 gennaio del 1954, andarono in onda i segnali e gli annunci ufficiali della Rai-tv ma le prime trasmissioni televisive risalgono in realtà al 1939, dopo un decennio di esperimenti. La Tv nacque in seno all’Eiar, sotto il regime fascista. Se non ci fosse stata la guerra, la tv si sarebbe diffusa un decennio prima, magari con l’esposizione universale del 1942 e avrebbe presumibilmente seguito nel tono e nell’ispirazione il modello di nazionalizzazione e mobilitazione delle masse che aveva assunto la sua sorella maggiore, la radio, nata e cresciuta sotto il regime fascista. Ma non solo: a inaugurare la televisione, nel 1939, non fu un ministro della cultura, dell’educazione o della pubblica istruzione, un Bottai, un Gentile o un Biggini, ma addirittura Achille Starace, il segretario del Partito nazionale fascista. Proprio lui, l’inventore delle veline, ma in un senso assai diverso da quello televisivo recente, famoso per i suoi ginnici salti nel cerchio di fuoco e per la devozione cieca e assoluta nei confronti del Duce, fino alla morte. Fu lui che compì il primo salto nel quadrato magico della scatola luminosa e tenne a battesimo il mezzo televisivo alle soglie del conflitto mondiale. Fu pure allestita una sala a Villa Torlonia, residenza del duce e della sua famiglia, per  seguire i primi programmi sperimentali. Mussolini vedeva la tv prima che apparisse Mike Bongiorno. Le cose non nascono mai dal nulla, ma sono figlie di altre situazioni e di altri contesti.

Ristabilita la verità storica, di solito omessa per ridicoli motivi di omertà storica e ottusa partigianeria, poniamoci la domanda per eccellenza: qual è il bilancio complessivo che si può fare della televisione, ovvero qual è il segno dell’influenza che ha esercitato sugli italiani, come singoli e come popolo, e sulle istituzioni? Si potrebbe dire che la storia della televisione sia divisa in due parti, che in linea di massima coincidono con le due metà del suo secolo di vita: nella prima parte la radio-televisione è stata soprattutto un mezzo di promozione popolare e di elevazione di massa, nella seconda parte è stata soprattutto un mezzo di peggioramento e involgarimento dei gusti di massa e dei modelli di vita. Da mezzo evolutivo a industria per il peggioramento della specie… Il punto di svolta coincise con due fattori emersi negli anni settanta: da una parte l’avvento della tv commerciale e dunque della concorrenza, che pure di solito migliora i prodotti ma nel caso della tv ha prodotto una gara al ribasso della qualità e della mission; dall’altra parte la tv controllata dal potere politico si fa lottizzazione, e questo da un verso garantisce un maggior pluralismo dell’informazione ma dall’altro abbassa il livello della televisione all’interesse dei partiti e della loro propaganda, dei loro impresari e dei loro emissari. La gara della quantità ha ucciso la qualità, la gara dei consumi si è abbattuta sui costumi.  Si può davvero sostenere che per cinquant’anni almeno la tv ha, si, uniformato gusti, conformato stili di vita, banalizzato saperi, ma ha alfabetizzato il paese in modo capillare e massiccio, ha unificato davvero l’Italia, ha consentito il passaggio alla lingua italiana di larghe aree del sapere, ha dato istruzione primaria più della scuola, ha intrattenuto, divertito, avvicinato la gente alla cultura e ai fatti del giorno. E dunque la sua impronta può dirsi complessivamente positiva.  Ma dalla fine degli anni settanta, la tv ha cominciato a invertire il suo ruolo, la propaganda e la promozione pubblicitaria hanno prevalso sulla tv che informa, traduce la cultura in visione popolare e fa crescere il livello del paese. L’imperativo degli ascolti, dello share e dell’audience, ha ulteriormente abbassato la soglia della qualità e il senso della sua missione. Detto questo, non si vuol concludere alla Pasolini che la tv vada abolita o spenta; resta una struttura primaria per un paese, uno spazio pubblico, una piazza essenziale di confronto, connessione e integrazione. Ed esercita una funzione comunque utile, se non insostituibile, anche nell’equilibrio delle fonti d’informazione, tra media, social, carta stampata. L’abbrutimento avviene quando la tv diventa il solo mezzo d’informazione e di intrattenimento, la sola finestra sul mondo, e sostituisce la lettura, l’incontro di persona e altre forme di in/formazione. Bisogna saperla dosare, e usare spirito critico. Il suo limite rispetto a internet è noto: non è interattiva, l’utente è spettatore e non attore. Ma la tv, soprattutto se è pubblica, ha il dovere di aiutare un paese e un popolo a crescere sul piano civile e culturale. Chi sostiene che la tv non debba coltivare propositi educativi o comunitari perché altrimenti diventa una tv etica e pedagogica, sottilmente autoritaria e prescrittiva, non si rende conto che senza un progetto educativo e comunitario, gli utenti e soprattutto i minori non vengono lasciati liberi ma in balia di altre agenzie diseducative. Peraltro ognuno è libero di fare zapping nel vasto arcipelago delle offerte televisive. Se la gara è solo tra chi fa più ascolti coi giochini, il trash, le tele-risse denominate talk show, si ritiri lo Stato e si lascino in campo i privati. Ne guadagnerebbero la dignità, l’intelligenza e il mercato. Alla Rai spetta il compito di sfatare il pregiudizio che culturale e popolare, formativo e ricreativo, siano incompatibili. Ma quel pregiudizio si è insediato da decenni nella testa della signora che oggi compie settant’anni, e sua madre cento.

Marcello Veneziani

Avete il cuore chiuso?

Essere scollegati dal qui è ora porta come conseguenza l’essere scollegati dal cuore. Ma anche dal corpo. Come ben sappiamo il piacere passa anche nel corpo sotto forma di sensazione  . Quindi se c’è una frattura tra corpo e mente, non senti l’amore, anche se qualcuno lo condivide con te.  Non vuol dire che tu non lo abbia, ma semplicemente che non riesci a sentirlo. Non riesci né a dare né a ricevere. È come se chiudessi le persiane e dicessi che non c’è luce dando la colpa al sole. Il cuore è chiuso e con un cuore chiuso, l’amore non entra e non esce E, ovviamente, non sentendo niente uno cosa fa? Semplice, chiede agli altri di amarlo. Ma dimentica un fatto importante :Un cuore chiuso non è nemmeno in grado di percepire l’amore che gli viene donato. Questo è il paradosso. Infatti, se il tuo cuore è chiuso, potrebbe venire anche il padre eterno e condividere tutto il suo amore con te, potrebbe colmare tutte le tue aspettative, potrebbe darti tutte le attenzioni che desideri, e tu?Tu non lo sentiresti comunque…Non riusciresti a riconoscerlo quell’amore, perché non sai cos’è, non l’hai mai sperimentato .E continueresti a chiedere, continueresti a soffermarti su ciò che non hai ricevuto, continueresti ad avere dubbi che ti ami davvero. Ma se non proviamo realmente amore né per noi stessi nè per gli altri, cosa proviamo allora? Proviamo solo emozioni. Appunto  .Ecco perché bramiamo emozioni travolgenti e attenzioni assidue…Ecco perché abbiamo così bisogno di stimoli emotivi e sensoriali intensi. Per sentire qualcosa. Perché non siamo in amore. Più non senti la tua anima, più chiederai agli altri di provocarti emozioni per farti sentire vivo. Questo è il fatto. Quando il cuore è chiuso e siamo tagliati fuori dall’amore, non rimane che da viverci quelle forti emozioni che subentrano quando ci accorgiamo che qualcuno  è interessato a noi. Questo bisogno cronico di eccitazione, di farti travolgere dalla passione o semplicemente di sentirti al sicuro con qualcuno che si prende cura di te, con qualcuno che c’è è direttamente proporzionale a quanto il tuo cuore è chiuso e non riesci a percepire amore in te stesso e per te stesso. Osserva che, in una coppia, quando uno si lamenta che l’altro non gli dà abbastanza attenzioni, non lo fa stare bene, gli sta dicendo: “Tu non mi generi abbastanza emozioni, abbastanza piacere”. Sta cercando solo quello, sta cercando qualcuno che gli provochi emozioni. Solo chi è “sordo” ti chiede di “urlare” perché non sente niente. Dunque, se hai bisogno che qualcuno ti faccia stare bene in una relazione significa che non c’è amore. Vivi attraverso quella persona, vivi in reazione. Nelle reazioni meccaniche emotive. Stai usando una persona per stare bene ed essere felice. E questo significa… sì, che tu stai male. Mi chiedo cosa porti, esattamente, nella relazione in questo caso. Cosa condividiamo se chiediamo e basta? Andiamo in cerca di un collegamento esterno con le altre persone, essendo scollegati dentro. Ma prima di tutto, si deve essere collegati dentro, poi, ci si può collegare fuori.  .Vorrei che ti fermassi a osservare come  ci si sente dopo che hai  prosciugato la tua energia per ammaliare, eccitare e stupire continuamente; per riuscire ad apparire sempre più interessante agli occhi degli altri, perché poi quell’interesse va mantenuto.   Con il cuore chiuso, uno si sente riconosciuto e confermato solo quando riesce a strappare dell’energia-attenzione a qualcuno, usando tutti i trucchi che conosce .A muoverlo sono i suoi bisogni irrisolti che non gli concedono mai delle tregue, mai un attimo di riposo,  che pretendono di essere soddisfatti e subito. Troppe volte la nostra vita non è che un lungo lamento, una continua gara tra  coloro che cercano di ottenere la maggior quantità di attenzione possibile, fino alla fine. E che cosa non si farebbe, pur di non dover affrontare e risolvere una volta per tutte, la nostra paura della solitudine, soprattutto se combinata con un profondo senso d’inadeguatezza…  tuttavia  non sarà certamente l’attenzione altrui ad aprirci il cuore. Non è cosi che funziona. Smettiamo di chiedere attenzione, riconoscimento e approvazione agli altri e iniziamo  a rivolgere quel po’ di attenzione che abbiamo su noi stessi, al nostro interno, risvegliando così il cuore e tutto l’amore sepolto che si è sempre trovato lì…nel centro del cuore spirituale di ognuno di noi. Il viaggio è dentro. Poi fuori, una volta risvegliato il cuore.   Tutte le emozioni in una condizione di “sonno” e di “frammentazione interiore”, diventano veleno per l’anima. Ti legano i polsi, quando l’amore ti farebbe crescere le ali.

Roberto Potocniak

 

cuore chiuso

I conti in amore si fanno con chi si ama…

 

È il 31 dicembre. Ci risiamo. Ancora poche ore, e poi si parte per un nuovo anno. E allora è difficile evitare di mettersi lì e di fare la lista di tutto quello che si è fatto o non si è realizzato, di ciò che si sarebbe voluto compiere o di ciò che ci si era impegnati a non fare mai più. È il momento dei bilanci e della resa dei conti, delle recriminazioni e dell’insoddisfazione. Quanto amore ti ho dato? Quanto ne ho ricevuto? Chi ha vinto, questa volta, la partita? Addiziono e moltiplico, come se stessi facendo i conti delle bollette già pagate e di quelle che, invece, restano ancora da saldare, sebbene stia provando a fare un bilancio dei sentimenti e, quando si parla dell’affetto e dell’amore, le addizioni e le moltiplicazioni non servono a nulla. Ma è più forte di me, non riesco a non farlo, nonostante quello che dico, ripeto, scrivo, spiego. Addiziono e moltiplico incolonnando i numeri l’uno sotto l’altro, in fila, per non fare errori con il riporto. Mentre ripasso mentalmente la proprietà associativa e quella distributiva, proprio come facevo da bambina. E quella commutativa? Ah sì, certo, c’è pure quella! Bene. Ora posso continuare. Peccato che non appena arrivino le sottrazioni tutto diventi più complicato. Vale anche qui la proprietà invariantiva? penso. Subito prima di obiettarmi: ma come si fa a sottrarre la tenerezza e la pazienza? Come faccio a calcolare il “resto” se in una relazione d’amore, così come in ogni relazione affettiva, i conti non possono tornare, la regola del do ut des non può applicarsi, si dà sistematicamente ciò che non si ha a chi vorrebbe molto probabilmente tutt’altro rispetto a ciò che proviamo a dargli (o a darle)? E allora, dopo aver passato qualche minuto a contraddirmi, mi blocco. E prima di ribattere indispettita a me stessa che, anche se i conti con l’amore non tornano mai, ci deve almeno essere un “resto positivo”, conto fino a tre e respiro forte. Ma sì, penso. Che mi prende? Che può mai voler dire addizionare e sottrarre in amore? Che senso può mai avere la lista delle cose fatte o non fatte, promesse o dimenticate, sperate o volute? Nessuno. Non ha senso ed è inutile. Almeno tanto quanto passare il tempo a chiedersi cosa sarebbe potuto succedere se si fosse nati in un’altra famiglia o in un’altra parte del mondo. L’amore non c’entra niente con quello che si fa (o non si fa), si dice (o non si dice). Quando si ama, in fondo, il “resto” c’è sempre. Anche semplicemente perché resta tutto ciò che si è condiviso e con-vissuto, rifiutato o cercato insieme. Pure quando si cerca invano di dare all’altra persona quello che non si ha, e lei magari vorrebbe tutt’altro. L’unica cosa che conta, d’altronde, è provare ad attraversare insieme i vuoti che ci si porta dentro, cercando di fare la pace con le proprie fragilità, le proprie fratture e le proprie contraddizioni. Allora facciamolo pure questo bilancio del 2023 appena trascorso. Ma “con” le persone che amiamo e non “contro” di loro. Per iniziare da domani il nuovo anno, e farlo ancora una volta insieme alle persone care.

Michela Marzano

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