Sogniamo a occhi aperti, viviamo a occhi chiusi.

Abbiamo scambiato il giorno con la notte. Sogniamo a occhi aperti, viviamo a occhi chiusi. Non riusciamo a sognare e non riusciamo a vivere la realtà. Due osservazioni di segno opposto, ricorrenti e veritiere per descrivere la vita presente. La chiave per comprendere perché due verità così divergenti hanno un comune fondo di verità è nel loro campo d’applicazione: come succede ai lattanti, abbiamo scambiato il giorno con la notte. Ovvero applichiamo alla veglia le categorie del sogno e al sogno le categorie della veglia. Da un verso cresce la paura della vita e della realtà. Paura della violenza, dello straniero, del razzista, delle malattie, del contagio, del buio, dell’inquinamento. E paura di far figli, di perdere il tenore di vita, paura del futuro ma anche del passato. Allora si cerca rifugio nelle illusioni, nella mitologia secondaria o d’asporto, nel fumo, nelle trasgressioni, nella vacanza, nel video, nella cuffia, nei carrelli della spesa. Non è una novità aggrapparsi alle illusioni: cambiano i veicoli, gli oggetti usati, non gli effetti.

In un passato anche recente, le illusioni furono le utopie rivoluzionarie, le ideologie che promettevano paradisi in terra e società perfette. Le illusioni degli uni erano le paure degli altri, il terrore, la violenza. C’era chi bruciava i sogni dopo aver incendiato la realtà e chi faceva il contrario. I disagi, le violenze, le paure del presente sono passate con gli anni dalla sfera pubblica e storica alla sfera intima e privata, ma rivelano la stessa tendenza a scambiare il sogno con la veglia. Quando dovremmo vivere la realtà quotidiana alla luce del sole, fare i conti con ciò che siamo davvero, con il mondo concreto che ci circonda, con la nostra vita, i suoi limiti e le sue imperfezioni, ci rifugiamo nei desideri, inseguiamo chimere, viviamo di universi fittizi, mondi perfetti, società inesistenti, fughe nella realtà virtuale; incapaci di vivere, ci abbandoniamo ai sogni, compreso il sogno della merce. E quando invece dovremmo sognare, lasciare il campo alla libera immaginazione, all’incanto o all’irruzione del mito, allora ci barrichiamo nelle ferree leggi della ragione, nella contabilità, nella tecnica e nei bisogni materiali. Così l’amore è ridotto alla libido, la religione è ridotta a transfert nei cieli dei nostri bisogni e delle nostre paure, l’arte è ridotta all’audience e alle condizioni socio-economiche, le idee ai rapporti di produzione e consumo, la cultura al potere culturale. Ci snaturiamo quando dovremmo vivere secondo natura e ci aggrappiamo alla natura quando dovremmo liberare i sogni soprannaturali. Funzionano a pieno regime le fabbriche dei sogni, dalla fiction all’astrologia: Theodor Adorno in Stelle su misura analizzò questo trasloco nella veglia delle allucinazioni oniriche e delle psicosi notturne. L’inversione tra il giorno e la notte, tra il sogno e la veglia, trovò nel surrealismo e poi nel ’68 una formula di successo: l’immaginazione al potere. Il risultato fu rovesciare l’uomo, farlo camminare con la testa e pensare con i piedi, cioè con la praxis, ribaltando così il rapporto col cielo e la terra. I malesseri del presente – come i dolorosi furori del passato – hanno quella stessa matrice: sogniamo quando dovremmo vivere, viviamo quando dovremmo sognare. Dormienti di giorno, insonni di notte, apriamo gli occhi quando è buio, li chiudiamo quando c’è il sole. Pesanti nella leggerezza e leggeri nella gravità.

Gli psicanalisti, come Hethan Watters, raccontano cosa succede quando si perdono i sogni di notte e la realtà di giorno. È la chiave più giusta per spiegare la malattia occidentale: la pretesa di calcare il cielo con i piedi e di camminare con la testa. Così i nostri dei e i nostri miti sono pedestri, all’altezza delle nostre suole, o al più dell’inguine, e la nostra vita terrena si perde nel cervello, in quella tirannia dell’immaginazione sulla realtà, del cervello sulla vita concreta che Paul Celàn, prima di suicidarsi, chiamava psicocrazia. I miti caduti in terra si chiamano malattie. Viviamo bene in stato di sospensione e di incoscienza, da automi e fruitori dell’attimo. Quando viviamo male, i sogni si fanno incubi e la realtà si fa maledizione inflitta da altri. Così la vita diventa una confortevole patologia. La via d’uscita, facile a dirsi e ardua a realizzarsi, è restituire i sogni alla notte e la veglia al giorno, ridare il cielo agli dei e la terra agli uomini, ripristinando il duplice bisogno di miti e di realtà che ci rende uomini, mai scambiandoli di posto e di momento.

MV, Alla luce del mito

sogni

I vaccini anti covid 19-

Non si rendono conto dell’autogol, o è pura impudenza arrogante, ben sapendo di avere a che fare con masse de-neuronizzate?

Il sistema immunitario naturale ha come una “memoria”: si ricorda per un bel po’ dei virus che ha affrontato. Metterla giù così è come dire che (a) il cd. vaccino non è un vaccino, cioè una prevenzione che “istruisce” il sistema immunitario ma è una terapia che lo sostituisce. Peccato che, come tutti i farmaci, qualche ora o giorno dopo viene eliminato facendo la pipì; oppure (b) stan dicendo che il covid è una influenza, ogni variante fa storia a sé, quindi i cd. vaccini servono a proteggerci … dal virus del passato. Decidetevi.

vaccino

 

Regalo di Natale…

 

solstizio

Stanley Roy Badmin_____Solstizio

Vi è qualcosa nello spirito umano, che sopravviverà  e prevarrà; vi è una minuscola ma brillante luce che brucia nel cuore dell’uomo alla quale non importerà mai nulla di quanto buio stia diventando il mondo, scriveva più o meno così Lev Tolstoj da qualche parte, non ricordo dove… Questa frase mi è tornata in mente questa mattina quando mio figlio si è avvicinato e ,facendomi gli auguri di Natale mi ha stretta forte e mi ha baciata. Mi ha la sciata ammutolita col regalo più bello, che mai potessi desiderare, di valore inestimabile, alla faccia di ogni regola anti covid, il buio profondo del nostro tempo, che ci ha tolto tutto…

Gli scarponi di sempre…

Quando si sta per partire per la montagna è l’ora di cominciare a preparare i vecchi scarponi. E’ un momento speciale e il primo pensiero preoccupa sempre: ricordare dove li abbiamo riposti. A volte è passato molto tempo dall’ultima volta che li abbiamo indossati e questo fa che a volte ci sia bisogno di una piccola manutenzione, che poi altro non è che una bella ingrassatura per rammollire  un po’il cuoio, indurito dal tempo.
Anche se non si ha in programma una scalata,lo scarpone è l’unica calzatura che ci permette di muoverci per strade impervie, sconnesse, sassose o innevate con maggior confort e sicurezza. La certezza è sempre la stessa: i vecchi scarponi si adattano perfettamente al piede, si abituano immediatamente al nostro passo, seguono le esigenze del nostro cammino. Li abbiamo abbandonati per scarpe più eleganti, più nuove, forse più belle e appariscenti e più alla moda, ma… quanti sforzi e pene prima che si adattino al nostro piede!
Non ci conoscono, non sono abituate alla nostra maniera di percorrere i sentieri, non sono affidabili. E poi ci vuol tempo prima che siano perfettamente a posto richiedendo attenzione, delicate nei loro materiali tecnologici, mentre il vecchio scarpone è un’altra cosa.
E che dire delle scarpe acquistate via internet, stupende nella foto che ci ha catturato , per cui le abbiamo volute a tutti i costi dopo complicate misurazioni dei nostri piedi fatti bene, fatti male, perchè si sa che ognuno ha la sua magagna . Stupende ma che non abbiamo nemmeno avuto l’occasione di provare. Quando arrivano a casa spesso sono una delusione: un bel pacchetto ,un bell’involucro, ma indossarle è un problema.
La pelle è dura come cartone e forse lo è , si disfano subito, non hanno la resistenza dei cari vecchi scarponi.

Facile, forse scontato: gli scarponi come metafora dei vecchi amici e dell’amicizia.

scarponi

Al fuoco della TV…

 

Telegiornale

Stando nel cerchio d’ombra
come selvaggi intorno al fuoco
bonariamente entra in famiglia
qualche immagine di sterminio.
Così ogni sera si teorizza
la violenza della storia.

 

Questa poesia potrebbe essere stata scritta oggi. Invece risale al 1962, agli albori della televisione in Italia. È di Nelo Risi, poeta e regista milanese, fratello del regista Dino. Evidentemente quello dei mass media è un problema che si poneva anche allora. Il televisore visto come un totem, come il fuoco sacro adorato dalle tribù animiste, attorno al quale allo stesso modo si raduna la famiglia. Ecco, a ben guardare, la differenza con il 1962 è nella composizione familiare: ormai la disgregazione dei nuclei sembra essere la regola, allora poteva essere l’eccezione.
Ma la televisione è rimasta lo stesso totem, lo stesso mostro che ci propina immagini di sterminio – se allora potevano essere lotte per l’indipendenza, prodromi della guerra del Vietnam, o terribili incidenti, come lo schianto ferroviario di Voghera, oggi alterna agli eccidi dei migranti in mare,nei campi dei profughi diventate prigioni, le immagini degli sbarchi continui sulle nostre  coste ,le uccisioni di donne, che quasi sempre vengono derubricate a femminicidi, le stragi che si compiono all’interno delle mura familiari, oppure nelle strade del mondo-Le violenze di maniaci delle armi, della polizia su gente di colore per le strade americane, traffici di droghe, violenze transomofobiche  sono all’attenzione dei telegiornali dopo i bollettini quotidiani, ripetuti all’infinito da mane a sera sulla pandemia  Covid 19, che ogni giorno ci viene presentata con una nuova variante sempre più contagiosa, come fosse quella destinata a sterminare la civiltà dell’uomo. E intanto, insieme alle false notizie sulla ripresa economica, questo terrorismo sulla Covid  continua a frenare i consumi, bloccare il turismo, il futuro del nostro paese  .i Insomma i telegiornali avrebbero bisogno di una moderazione e di qualche notizia positiva e non fanno che confermare il teorema di Nelo Risi. Solo che allora forse si poteva stare più tranquilli in quel salotto attorno alla televisione: era la “violenza della storia” a formularsi, a srotolarsi sul tappeto. Ora è la violenza “tout court”, subdola e strisciante, e sembra che i giornalisti amino sguazzarci, come in un pantano.

 

rai TG

Ho trovato l’amicizia tra i filosofi…

Ma erano i filosofi che soddisfacevano quel bisogno che si celava da qualche parte nella mia testa confusa: immergendomi nei loro eccessi e nel loro farraginoso vocabolario, spesso mi incantavano, saltavano fuori con affermazioni azzardate infiammate che mi sembravano verità assoluta o maledettamente vicine alla verità assoluta, e questo tipo di sicurezza era quello che cercavo per la vita di ogni giorno, che assomigliava molto di più a un pezzo di cartone. Quei tizi erano dei grandi, mi hanno fatto sopportare giorni come rasoi e notti piene di ratti; mentre le donne tiravano sul prezzo come banditrici venute dall’inferno. I miei fratelli, i filosofi, loro mi parlavano come nessun altro per strada o in giro aveva fatto mai; riempivano un vuoto immenso. Che bravi ragazzi, oh, davvero dei bravi ragazzi!

Charles Bukowski

 

Quattro passi tra le nuvole…

Chissà perchè si dice”avere la testa fra le nuvole”? Forse perchè non sappiano dove le nuvole inizino e dove abbiano fine, per cui perdersi fra le nubi significa essere altrove, oltre la realtà. A volte questo succede inconsciamente, a volte con la volontà di soffermarsi su di loro, sulle loro infinite forme, spessori e trasparenze, quella loro imprevedibilità che da sempre affascina gli uomini. Moltissimi ne hanno scritto fin dai tempi antichi, vedi Aristofane,tra i Greci, Shakespeare, studiosi, poeti e semplici ammiratori di nubi, come lo sono io,che mi diletto con un cielo di nuvole,come fosse un gioco,
Quante forme hanno le nuvole? Infinite. Le nuvole sono instabili, mutevoli e cangianti. Più prosaicamente per un meteorologo una nube è un insieme di minuscole particelle d’acqua o di ghiaccio, così numerose da risultare visibili. Le goccioline sono grandi pochi micron fino a raggiungere i 100 micro.
Il mistero sta nell’aspetto dell’acqua lassù rispetto a quella quaggiù: perché il composto d’idrogeno e ossigeno ha una forma così diversa dal liquido versato nei nostri bicchieri? Semplice: l’aspetto bianco e opaco dipende dal fatto che l’acqua ,distribuita in una enorme quantità di goccioline infinitamente piccole riflettono la luce in tutte le direzioni così da dare al loro aggregato un aspetto diffuso e lattiginoso. Lassù abitano gli dèi. Dio è rappresentato spesso seduto su una nuvola ,ma anche Zeus è nuvoloso; il dio del cielo e della pioggia, creatore delle nuvole, seduce le donne avvolgendole con una nube come appare nel meraviglioso quadro di Correggio, grande pittore di nuvole: Giove e Io (1531).

Zeus e io,

Nuvole o nubi? non si sa con esattezza, pare che la Scienza sia per nubi, mentre i comuni mortali si smarriscono prevalentemente nelle nuvole. La storia dei nomi delle nuvole comincia con Aristotele e arriva a uno sconosciuto meteorologo dilettante, Luke Howard. Una sera del 1802 in un umido stanzone londinese usato come laboratorio questo trentenne espose la sua nomenclatura delle nuvole-nubi: semplici: Cirrus, Cumulus, Stratus; intermedie: Cirrus-cumulus, Cirrostratus; modificate: Cumulus-stratus; Cumulo-cirro-stratus. Oggi si parla di Cumulus, Cumuloninbus, Stratus e Stratocumulus per le nubi basse; Altocumulus, Altostratus e Nimbostratus per quelle medie; Cirrus, Cirrocumulus e Cirrostratus per le nuvole alte. Sono il genere, poi ci sono le specie e altre varietà come le “nuvole accessorie”, che introducono altri dettagli classificatori. Ma l’impianto resta quello impostato dal quacquero inglese quella sera, dall’uomo a cui Goethe dedicò una lirica appassionata Ma come si formano le nubi? Con la salita di aria per il riscaldamento solare, ma anche per il sopraggiungere in alto di masse d’aria provenienti da direzioni diverse. Le nuvole sono il risultato di una macchina termica che funziona in modi vari e che rende la Terra vivibile. Sappiamo molto delle nuvole, ma non ancora tutto, e soprattutto, nonostante vari tentativi, non siamo in grado di produrle. Come era giunto Howard a definire quelle che Aristotele chiamava le “meteore” – “quel che sta in alto nell’aria” – secolarizzando in un colpo solo i cieli sulle nostre teste? Notando quanto fossero volubili, quindi ponendole come masse dinamiche e infine ,prendendo atto che esse passano da uno stato all’altro attraverso forme intermedie molto labili e poi dando loro un nome. La scienza della previsione, considerata a lungo la scienza della delusione, ha acquistato sempre più veridicità, grazie alla moderna tecnologia di misurazioni perfette. Cade la pioggia, la neve, un mondo di vapore che svanisce davanti ai nostri occhi. Una volta scomparse non senza lasciare i segni della propria effimera esistenza, parrebbe naturale considerarle semplici forme del cielo prive di un significato preciso. E invece no, perché sono le nuvole che ci fanno sognare . La poetessa Wislawa Szymborska ha scritto:

Non gravate dalla memoria di nulla,

si librano senza sforzo sui fatti. Ma quali testimoni di alcunché

si disperdono all’istante da tutte le parti”.

nuvole

Quanto pesa il cuore…

Ho imparato a pesare il cuore della gente con le mani. Duecentoventi grammi. Trecento. Trecentodieci. Ho imparato a pesare il cuore della gente con le mani, e raramente sbaglio. Le metto a cuppetiello, come con la frittura di paranza. Ci faccio una conca, una bacinella, un secchiello per bambini. Al posto delle mani ho due piatti di bilancia, una stadera da fruttaiuolo che non mente. Sottraggo la tara al peso lordo e misuro le persone al netto di chi sono.

Ho sentito, con le mani, cuori pesanti di piombo di malinconie. Altri, invece, erano leggeri, erano piume d’uccello, erano soffioni. Mi sono piaciuti tutti e due, e mi sono sentita un po’ piombo e un po’ soffione pure io, mentre mi pesavo il cuore con le mani a cuppetiello, dosando l’amarezza di certe assenze e, di altre assenze, la liberazione.

Il cuore è un muscolo che risponde alla legge di compensazione, ai vasi comunicanti, a sacco vuoto e sacco pieno. I cuori più grevi sono quelli stipati di rimpianti, come gli scaffali delle dispense alimentari. Li riconosco al tocco, mi basta poco, nun ce vo’ niente. Hanno dentro una tristezza diversa dalla tristezza dei rimorsi, che è più rabbiosa, incattivita ma vibrante. Il cordoglio dei rimpianti, invece, delle cose che non abbiamo osato per paura, delle persone che abbiamo perduto per inazione, per pavidità o inettitudine, è un sentimento apatico, depresso, insonnolito. Come quando non hai voglia di far nulla e ti accomodi sul letto pigramente, aspettando che il tempo passi, che qualcosa accada e ti travolga. La tristezza dei rimpianti è una tristezza che si è arresa e non reagisce. È un morto che cammina.

I cuori più leggeri, invece, i cuori-soffione, i cuori-piume d’uccello, li peso con una mano sola e tanto basta. Sono spumosi, sembrano friabili, mi ricordano la schiuma di sapone che si infrange quando l’hai montata a neve nella vasca; ci hai fatto dentro l’amore che profuma di nudo, l’amore che inarca i reni, quello che urla il piacere a bocca piena e ventre teso, quello che non si aspetta niente e sente tutto, sente il doppio. L’amore che ti fa femmina, l’amore che ti fa uomo.
I cuori più belli sono un poco e un poco. Un poco pesanti e un poco leggeri. Un poco zavorra e un poco spuma. Hanno dentro il peso e la leggerezza, l’arrivo e la partenza, lo scatto di chi fugge e l’immanenza di chi resta. Al gioco di sacco vuoto e sacco pieno loro sono sacco mezzo, non per quella storia dei grigi, della diplomazia di chi non si schiera, di chi non parteggia. No. Al gioco di sacco vuoto e sacco pieno loro sono sacco mezzo perché la vita li ha spaccati in due, li ha divisi. Ci ha messo sotto la leggerezza dei soffioni, delle piume d’uccello e della spuma, e sopra la pesantezza del piombo delle malinconie. La prima regge la seconda e non le permette di cadere; la seconda resta in equilibrio sulla prima e non la schiaccia. È una legge fisica sbilenca, sovversiva; è una logica oltreumana ca sùlo ’o core pò capì.

Centocinquanta grammi, grazie. A me ne bastano duecento, prego. Io abbondo, ne voglio trecento. Metto il cuore della gente nel cuppetiello delle mani e faccio su e giù. Molleggio a mezz’aria e poi sputo la sentenza: cuore soffione, cuore piombo, cuore sacco mezzo.

Non lo dico e non lo lascio intendere ma, da lì in avanti, io ti ho pesato.

(Antonia Storace, dal libro Frumento e papaveri)

peso del cuore

La tecnologia che mi piace…

Avanti a tutta tecnologia, avanti a tutto digitale, avanti a realtà virtuale, avanti di corsa, sempre più di corsa, il tempo è denaro, ,sempre più denaro è il fine di tutto questo percorso, che coinvolge ormai la vita di tutti noi. Per chi è nato in questa epoca credo che difficilmente qualche scoperta farà rimanere a bocca aperta  qualcuno, a meno che  la scoperta fosse quella dell’immortalità. Per chi, come me, ascoltava da bambina la radio a galena, passato ormai il periodo dello stupore , è subentrato quel sentimento che si chiama noia. Strano, vi chiederete, perchè noia in questo mondo cosi rapido, così continuamente nuovo? Si, noia, perchè per ottenere tutto questo basta la connessione, ossia una sedia , una postazione PC, un collegamento Internet, il più veloce possibile, aggiungiamo uno smart  Phone ed il gioco è pronto. Qualche clic sui tasti del computer oppure leggeri sfioramenti allo schermo del PC o del telefono per trovarmi immersa dove voglio, nel commercio mondiale, nella politica, in una guerra oppure in un disastro naturale dovunque nel mondo, senza muovermi dal mio tavolo… che noia  vivere la vita così rapidamente , immersi dovunque si voglia essere, costantemente ,giorno dopo giorno, settimane, mesi, anni… respirando aria climatizzata tutto l’anno, quando il mondo lento di un tempo ci regalava sole, pioggia, freddo ed afa, fatica ,ma soprattutto la voglia di andare, di programmare, di elaborare pensieri. Anche i pensieri si elaborano con la tecnologia, a noi basta imparare l’uso della strumentazione- E i bambini non giocano più nei cortili, per le strade, giocano sul divano  con play-station,  sempre più  sofisticate ,collegati; i ragazzini si scrivono parole d’amore su What’s app, fanno l’amore su Skype e quando si incontrano per fare coppia, pensano già a come sarà quando sarà finita.
Ebbene il mondo virtuale non mi attira più di tanto, mi piace come gioco, un simpatico passatempo per tenere la mente allenata, per continuare a ricordare, per imparare quello che , alla mia età, in altri tempi mi sarebbe stato impossibile e poi osservare quante cose meravigliose la tecnologia digitale permette di fare nel mondo dell’arte. Oggi non c’è museo o mostra d’arte che non offra confronti interattivi tra le opere esposte. Possiamo così osservare molte cose curiose e questo mi piace, mi piace tanto.
Al Getty  Museum è esposta questa opera di Dou, periodo tra il 1655_ 1659, che rappresenta “Studioso di archeologia , con candela”.
Ebbene, guardate quanta carica di vita la tecnica gif riesce a dare a questa bellissima riproduzione fotografica.