Aiuto, si è ristretta l’intelligenza

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Aiuto, si è ristretta l’intelligenza

Ragazzi, si sta accorciando il Quoziente Intellettivo. L’intelligenza si restringe, il regresso colpisce le menti. E non si tratta di una tesi avanzata da reazionari antimoderni. Una denuncia di Cristophe Clavé ci ha messo la pulce nel cervello. “Il QI medio della popolazione mondiale era sempre aumentato – scrive lo studioso di strategie d’impresa- nell’ultimo ventennio è invece in diminuzione, a partire dai paesi più sviluppati”. Sono andato a indagare e ho avuto altre conferme. Per esempio la ricerca di due studiosi norvegesi, Brent Bratsberg e Ole Rogeberg, pubblicata dall’Accademia Nazionale delle Scienze sulla rivista Procedings, che in un arco temporale ampio di 40 anni e su un campione largo di 730 mila giovani confermano quella conclusione: si è invertito l’effetto Flynn, lo scienziato che conduceva studi sul Quoziente Intellettivo e ne vedeva lo sviluppo continuo nella popolazione nell’arco del ‘900. E invece, secondo i ricercatori è in atto da più di quattro decenni una regressione costante e crescente del QI. Fra i nati a metà degli anni ’70 e i ragazzi nati nel 1991 ci sono più di 5 punti di differenza. E cala ancora il Quoziente con i nati dopo il duemila. Studi analoghi compiuti negli Stati Uniti, in Germania e nel Regno Unito confermano il trend negativo. Cosa sta succedendo e soprattutto perché?

Tralascio le motivazioni genetiche, ambientali e alimentari; le ricerche ammettono che esse spiegano solo in parte il declino progressivo dell’intelligenza umana. Mi soffermo sul nostro sistema di vita, di relazione, di educazione, il rapporto con le tecnologie, a cominciare dalla prima, il linguaggio. Clavé insiste sull’impoverimento del linguaggio. È un dato accertato: oggi usiamo un lessico molto più povero del passato, con meno vocaboli; magari pratichiamo più lingue ma conosciamo meno la lingua madre. E al contrario del “volgare illustre” che auspicava Dante, usiamo un volgare plebeo, basic, sincopato, tecnico-commerciale, povero di tempi, modi e forme espressive.

Lo scarso lessico atrofizza l’intelligenza, che si esercita meno nella scelta dei vocaboli e dei tempi più appropriati. E ci facilitano i tutorial, i correttori automatici. Meno fatica, meno doveri, più liberi: ma la libertà qui coincide con l’impoverimento della mente. Strada facendo si capovolge in una maggiore malleabilità a essere veicolati dai regimi di sorveglianza, dai sistemi totalitari. Basta leggere 1984 di Orwell o Fahrenheit 451 di Bradbury per capire la sequenza tra parole ridotte e manipolazione, pensieri impoveriti e precotti, morte del senso critico.

Ma spingiamoci oltre. Noi viviamo in un mondo che ci sembra sempre più globale ed esteso, senza confini; eppure è un mondo da una parte sempre più ridotto e dall’altra sempre più delegato. Si spegne il confronto col pensiero e con la storia, con la religione e con la tradizione, con le differenze e le identità, tutto si riduce al solo presente globale vigente. Un mondo sempre più piccolo. I modelli vengono ridotti a un solo canone e quando diventa ideologico assume le vesti del politicamente corretto; il resto è vietato, cancellato. Non c’è passato, e di conseguenza non c’è futuro che non sia la continuazione infinita e uniforme del presente e delle sue prescrizioni. C’è una durata automatica, priva di possibili divergenze; non c’è possibilità di paragone con altri sistemi di idee e di vita. E l’idea stessa di educazione viene respinta a priori o distorta in corso d’opera.

E poi, una vita amministrata, sempre più mediata e surrogata dai mezzi di cui disponiamo, delegata alla potenza tecnologica e a un benessere preconfezionato; una vita che si cimenta sempre meno con l’imprevisto, le variazioni, le necessità che aguzzano l’ingegno. Nella vita artificiale e prefabbricata – lo denunciava già tanti anni Saul Bellow e faceva il paio con “la chiusura della mente americana” di cui scriveva Allan Bloom – l’intelligenza perde gli stimoli, agisce in automatico, deve solo apprendere le procedure, senza mai uscire dal programma e dall’unica via prescritta. Una mutazione letale per la mente.

Insomma l’intelligenza si accorcia perché si stanno restringendo i nostri mondi e le nostre possibilità anche se a prima vista si direbbe esattamente il contrario: meno originalità e più uniformità, schiacciati sul presente e sul Modello Unico di Vita, deprivati del pensiero, della cultura e dei saperi umanistici, sempre più “ammaestrati” e ridotti ai riflessi condizionati. Il mondo ci arriva comodamente a casa nostra, basta pagare.

Per dare una periodizzazione storica a questo declino potremmo dividerla in tre fasi. La prima, indicata dai ricercatori, parte dalla metà degli anni Settanta, quando gli effetti del benessere e delle comodità correlati alla contestazione globale hanno prodotto una prima tendenza involutiva della nostra intelligenza e un rigetto dell’educazione. La seconda degli ultimi vent’anni, con l’espansione prodigiosa del web, ha ulteriormente ridotto la sfera del pensare e parlare in relazione all’agire, inserendoci in procedure automatiche e puramente tecnologiche. I flussi informativi hanno sostituito i percorsi formativi.

La terza è ancora in corso: presto capiremo quali effetti avrà sulla nostra intelligenza e in particolare su quella dei ragazzi, la clausura planetaria per il lockdown, la scuola a distanza, l’interruzione di ogni forma di relazione civile, sociale, culturale, salvo quelle che arrivano dal video.

Insomma stiamo entrando a occhi bendati e orecchie tappate nell’era globale della stupidità. E non si notano in giro Grete che denuncino e mobilitino la gente per l’intelligenza in pericolo.

Marcello Veneziani , Panorama n. 15 (2021)

Così si curava l’uomo delle caverne: quelle piante preistoriche che ancora oggi servono a guarire..

La storia antichissima che lega mondo naturale, intuizione umana e magia raccontata nella mostra «Le piante e l’uomo» al Museo delle Civiltà di Roma.

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Fin dalla Preistoria, l’uomo ha avuto la necessità di trovare rimedi per curare ferite e malattie. In questo è stato guidato dalla sua facoltà istintiva a scoprire le proprietà utili, curative e alimentari delle piante, un po’ come gli animali.

La storia antichissima che lega mondo naturale, intuizione umana e magia è oggi raccontata dalla mostra «Le piante e l’uomo» curata da Paolo Maria Guarrera e allestita presso il Museo delle Civiltà (arti e tradizioni popolari) di Roma (dal 21 dicembre 2018, al 21 aprile 2019).

Uno dei problemi più importanti per l’uomo preistorico era individuare quali piante potessero essere commestibili e quali velenose. Per questo si osservavano gli animali e talvolta si somministrava loro le piante di cui si voleva vedere l’effetto.

«In quest’opera di “ricerca” delle proprietà vegetali» spiega il direttore del Museo, Filippo Maria Gambari – «le donne ricoprivano un ruolo di primo piano. Mentre infatti l’uomo si occupava della caccia, esse erano dedite alla raccolta di frutti ed erbe spontanei. Furono anche le prime a coltivare i semi dando poi avvio all’agricoltura. Questa loro attività faceva sì che nelle comunità nascesse e si affermasse la figura della “donna di medicina” che, di solito anziana, sopravvissuta a molti parti, ricopriva il ruolo di sciamana”.

Il fatto che per due milioni e mezzo di anni il mondo sia andato avanti con questa divisione dei compiti, è anche all’origine delle differenti abilità e propensioni tra il cervello maschile e quello femminile. Ancor oggi le donne possiedono dei recettori nueronali che consentono loro di distinguere meglio i colori e di individuare con più attenzione dettagli che all’uomo solitamente sfuggono.

Tra l’altro, quasi sempre l’attività di raccolta dei vegetali doveva essere condotta insieme ad altre incombenze, riguardanti la cura dei bambini e dell’abitazione, ecco perché si parla della famosa capacità “multitasking” della donna. Viceversa, il maschio grazie alla caccia, ha sviluppato una particolare capacità di concentrazione che gli consente di focalizzare tutta la propria attenzione su un solo obiettivo, escludendo tutto il resto, come poteva essere richiesto all’epoca, dalla ricerca di un odore, di una traccia della fuga di un animale.

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Consolida Maggiore

Grazie alle acute capacità di osservazione, le donne di medicina avevano quindi compreso come alcune erbe avessero il potere, ad esempio, di favorire la cicatrizzazione delle ferite. Tra queste, la Consolida Maggiore, come venne poi chiamata da Plinio il Vecchio. Questa pianta, ancora oggi, in certe zone viene usata dalla medicina popolare per le sue proprietà vulnerarie (guarisce le ferite); pare inoltre che stimoli la formazione del callo osseo in caso di fratture. Sembra che il sollievo e la guarigione siano dati da una sostanza chiamata allantoina, usata, in sintesi chimica, anche dall’industria farmaceutica per gli stessi scopi.

Si ricordi poi il Luppolo che ha delle proprietà antidolorifiche tanto che si dice che chi soffre di artrosi, tragga qualche giovamento dal bere birra.

Le proprietà vermifughe dell’aglio erano, poi, ben note. La parassitosi intestinale che oggi risulta appena un lieve e frequente inconveniente «scolastico», costituiva nei tempi arcaici una delle più diffuse cause di deperimento e morte dei bambini che, sempre a contatto con il terreno facilmente ingerivano uova di ossiuri e altri vermi.

Un altro rimedio usato nelle comunità preistoriche era il papavero, i cui semi venivano impiegati per facilitare il sonno. Dopotutto, da questa pianta si estrae l’oppio e se ne distilla la morfina.

Vi era poi tutta una serie di foglie e muschi applicati come bendaggi, spesso in associazione con delle muffe particolari dall’azione antibiotica. Per quanto solo alla fine dell’800 il medico molisano Vincenzo Tiberio avesse studiato e dimostrato il potere antibiotico delle muffe – anticipando di 35 anni le scoperte di Fleming sulla penicillina – nella medicina popolare è sopravvissuto quest’uso per centinaia di migliaia di anni. Non a caso, un proverbio piemontese recita: «La ragazza che mangia il pan muffì, la vien più bella dì per dì (la ragazza che mangia il pane ammuffito diventa più bella di giorno in giorno)». Si era notato che mangiare il pane di segale muffito potesse portare, ad esempio, dei benefici a livello dermatologico. Anche nelle mummie egiziane sono state trovate tracce di questi antibiotici primordiali. Naturalmente, erano da preferirsi le muffe createsi su cereali o vegetali, non certo quelle che si formavano sulla carne, che, in quanto contenenti cadaverina, sono velenose.

Uno dei proto-farmaci più straordinari fu la corteccia del salice: essa è ricca di salicina, sostanza che svolge attività analgesiche, antinfiammatorie e antipiretiche tramite l’inibizione di un enzima responsabile dell’insorgenza di infiammazione, febbre e dolore. I nostri progenitori, specie quelli dell’Europa centro-settentrionale, erano soliti mettere a macerare nell’aceto di mele la grigia scorza di questo albero ottenendo una sorta di aspirina ante litteram, che è per l’appunto acido acetil-salicilico.

Per comprendere la messa a punto di questi rimedi, bisogna immaginare l’esperienza stratificata di decine di migliaia di generazioni che ha prodotto una forma «darwiniana» di sperimentazione che l’uomo moderno non può concepire.

Nella più completa ignoranza della chimica, l’uomo preistorico attribuiva tali proprietà alla magia, come è comprensibile.

Non a caso, le arpe dei Celti erano di legno di salice, che si riteneva fosse un materiale magico utile per collegarsi alle divinità apollinee del loro pantheon.

«A tal proposito, – spiega il direttore Gambari – sono significativi i tatuaggi che sono stati ritrovati sulla pelle dell’Uomo del Similaun, mummia risalente a 5000 anni fa, ritrovata sul ghiacciaio omonimo al confine tra Italia e Austria. L’analisi osteologica su Oetzy ha dimostrato che l’uomo soffriva di osteoartrosi. Proprio nei punti che dovevano essere dolenti per il soggetto, sono ancora visibili tatuaggi realizzati con magnetite, un materiale che per le sue proprietà poteva realmente dargli sollievo. Basti pensare a quanto oggi avviene con i cerotti magnetici studiati appositamente per lenire i sintomi di questa patologia. Tuttavia è probabile che l’Uomo del Similaun attribuisse la sua guarigione più ai simboli magici che non al materiale con cui era stata dipinta la sua pelle».

Di queste eredità magiche sopravvivono ancor oggi alcuni lacerti. Ad esempio, l’usanza di baciarsi sotto al vischio a Capodanno, deriva dalla credenza antichissima per cui questa pianta, crescendo sugli alberi morti, fosse capace di rigenerare e donare nuova vita.

Anche le fiabe in cui la principessa bacia il rospo e lo fa diventare principe derivano dai reali effetti allucinogeni che l’essudato della pelle del rospo produce. Da sempre ritenuto animale magico, non è infrequente trovarlo nelle tombe antiche e, immancabilmente, nei ricettari stregoneschi.

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La palma della curiosità spetta però alla leggenda secondo cui Babbo natale viaggia su una slitta volante trainata da renne. Questo si spiega con il fatto che, ancora in area celtica, gli sciamani fossero soliti assumere, durante la festività di Yule, coincidente col solstizio d’inverno, delle sostanze psicotrope che facilitassero i loro contatti col divino. Tra queste, vi era l’urina di renna: il cervide, cibandosi del fungo Amanita muscaria – velenoso per l’uomo – ne filtrava e concentrava con l’urina il solo alcaloide allucinogeno (il muscimolo) eliminando la tossicità del fungo.

Fra le allucinazioni più frequenti durante questo rito vi era quella appunto in cui le renne cominciavano a volare tutt’ intorno, anche perché gli stessi quadrupedi, sotto l’effetto dell’Amanita, sono soliti darsi a galoppate e corse pazze senza scopo apparente.

Andrea Cionci-da La STAMPA

Quei binari del treno di Lenin che rovesciarono la Storia

Quei binari del treno di Lenin …

Domenico Quirico ha ripercorso le ultime tappe del viaggio che il leader russo grazie all’aiuto della Germania, fece nel 1917 per guidare la rivoluzione bolscevica

L’arrivo di Lenin alla «Stazione Finlandia» di San Pietroburgo il 13 aprile del 1917

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Ah! il treno non è certo quello, quello su cui viaggiò Lenin nel 1917. Adesso il convoglio che fa servizio tra la Finlandia e Pietroburgo si chiama «Allegro», sì, in italiano, con bella parola presa dalla musica: l’unica cosa, in fondo, in cui siamo ancora universali.

 

Non ci sono più le colonne di fumo che salivano al cielo come scale senza fine e scottavano le nubi di inverno con nuvole bollenti di vapore, non prorompono i fischietti dei manovratori e i rochi sibili delle locomotive. Alla fine del viaggio, laggiù, a mille verste, allora c’era la Russia scompigliata torbida strisciante saltante miserabile, con l’enorme macina della Rivoluzione già in moto. Oggi ci attende la Russia di Putin, capitalista, apparentemente monolitica e soddisfatta. Indecifrabile, un po’ come il suo capo, all’inizio, quando lo dicevano uomo senza volto.

Tetra, quasi senza neve ma con blocchi di scuro fango ghiacciato, la Finlandia mi accoglie con la sua luce di sempre, artica, un cielo che pare intriso di neon e di ghiaccio, che dà alla testa. Per mezzo secolo questa è stata periferia di Europa e i rapporti con l’ingombrante, diffidente vicino comunista non erano certo agiati e ovvi. «Finlandizzazione» si diceva, ad indicare un metodo politico e ideologico per sopravvivere, improntato a una quieta reticenza: indipendenti, sì, ma con giudizio, senza mai infrangere le ferree regole di una autocensura dabbene. E mi viene in mente che la parola rischia di tornar di moda, trent’anni dopo, per soccorrere altri vicini di nuovo in affanno: la Ucraina, i baltici, la Polonia chissà… Gli imperi purtroppo non dimenticano.

Cento anni! Cento anni dalla Rivoluzione: tanti. Forse troppi per rivivere quell’anno in cui gli uomini vissero più che non altri in un secolo intero. Anzi: le due Rivoluzioni, quella di febbraio che fu vera e popolare insurrezione. Le mani dello zar sullo Stato erano già aggranchite ma la Storia dice le cose senza fretta, perché non trova subito la parola necessaria. E poi Ottobre, che fu invece un golpe dei bolscevichi e di Lenin, e che cambiò il mondo. Come si fa a restituire nelle parole, quel senso che nelle strade di San Pietroburgo tutto fermentava, cresceva al magico lievito della esistenza, e la Storia avanzava a larghe ondate senza sapere dove come un vento silenzioso attraverso le terra e le città e i corpi, abbracciando tutto quello che incontrava sulla sua strada? L’insurrezione sembrava una poesia di Block. L’aria la trasportava sulla Neva leggera come il polline e dura come il piombo e quei semi cadevano nei solchi e nelle teste dando alle cose già aria di primavera, produceva insieme fiori e proiettili. E poi… Che ne resta oggi? Quando coloro che vorrebbero celebrarla sono sconfitti, e gli altri, i vincitori, preferirebbero dimenticarla… Eppure questo è, più di altri, un anniversario obbligatorio. Perché ci obbliga a rispondere alla domanda: dove sta il confine tra ciò che è lecito e ciò che è illecito fare in nome del fine che giustifica i mezzi. Il crimine contro l’umanità non inizia con la condanna staliniana di vari milioni di innocenti ma con la condanna già nel 1917 del primo individuo innocente. Se si comincia a usare la vita umana come un capitale di investimento subito si spalanca un abisso senza fondo. Il terribile tranello delle Rivoluzioni. Nei tempi di fanatismi non più ideologici ma religiosi rispondere è vitale.

Per questo ho deciso, ingenuamente, di arrivare a San Pietroburgo non in aereo ma con il treno: come Lui, l’esule di Zurigo, impaniato fino ad allora nel ciarpame quotidiano di quella Svizzera filistea e rancida, nei dibattiti sterili del «club dei birilli». Via, finito tutto questo, finalmente! si parte per la Russia con il plotone di moglie, amante, attendenti bolscevichi. Approfittando della strategia volpina della Germania che li vuole usare come un bacillo per atterrare il nemico russo.

Sì, voglio scendere come fece Lenin alla stazione Finlandia quando Pietroburgo era appena stata risciacquata dalla piena della rivoluzione. Illusione, forse: cercare di far rivivere il passato come se sfregassi sui vetri.

Provo a immaginare quell’uomo terribile, febbrile, impaziente che vede scorrere, in quel vagone che la leggenda descrive piombato e invece era teatro di incontri e trattative ambigue, le stazioni e i Paesi: la Germania, la Svezia neutrale e poi la Finlandia che era già Russia, sotto la finzione di un granducato satellite. Aveva appena annunciato, un Lenin rassegnato, ai fedelissimi che il mondo nuovo sarebbe venuto per un’altra generazione: noi non vivremo le battaglie della rivoluzione nascente… E invece! Era un regalo della storia una guerra così!

Non assomigliava davvero ai vecchi rivoluzionari russi, imbevuti di idealismo, parolai. La sua energia era l’odio. Il partito che aveva inventato doveva essere votato alla guerra totale, allo sterminio fisico del nemico di classe, un darwinismo implacabile, animale che avrebbe assicurato la vittoria. Odio e bugie: i due fattori più importanti della educazione politica subiti dagli uomini del ventesimo secolo. E di quello che è appena iniziato.

Questa piccola, antica stazione di Helsinki ha imprevedibile quiete e paesane assonanze russe. Non solo architettoniche. Le vecchie porte di legno sono presidiate da una donna che propone icone e libri sacri. Sul legno qualcuno ha inciso una scritta: musulmani fuori!

Il treno, russo, è modernissimo, di lusso. Solo che marcia alla tranquilla velocità dei «direttissimi» della mia infanzia. Come se la modernità si fosse fermata a mezzo, il futuro fosse rimasto in sospeso. E anche in questo assomiglia alla Russia di oggi.

I viaggiatori sembrano usciti da tempi gorbacioviani, tempi di penuria: carichi cioè di involti, pacchi e borsoni, che immagino frutto di giudiziose incursioni consumistiche nei centri commerciali finlandesi. A più basso costo rispetto a quelli putiniani? Difficile crederlo, con la svalutazione del rublo e l’inflazione.

Il treno si muove. Con poca neve i luoghi, la campagna finlandese, assumono un’aria tetra e inaccostabile. Ci lasciamo dietro le stazioni: Tikkurila, Lathi, Kuovola… Tutte deserte di uomini, scale mobili ferme e vuote, nei parcheggi auto che sembrano relitti di una immemorabile glaciazione.

Nel mio vagone una ragazza russa interrompe furibonde liti telefoniche con il fidanzato solo per bere lattine e lattine di birra. Una coppia matura, amanti moderatamente espliciti, prepara le giornate di San Pietroburgo.

Vainnikala è l’ultima stazione finlandese. Ecco la frontiera, e la russa Vyborg. Siamo già alle permanenti conseguenze della Rivoluzione. Fino al 1940 Vyborg era finlandese, l’arraffò Stalin con una guerra brutale e il consenso dell’alleato Hitler. Violenza che è risultata indifferente alla dissoluzione dell’Urss, ai revisionismi di bandiere e frontiere.

Adesso la ferrovia è un binario tra due alti e fitti reticolati come se fosse entrata in una gabbia. Sul treno salgono truccatissime poliziotte russe per i controlli: congegni elettronici moderni e vecchi tamponi. La ragazza, già abbastanza ubriaca, viene prelevata e sparisce con loro…

Accanto a me viaggia un professore universitario, torna da un convegno in Finlandia. Parliamo di Pasternak, il Grande Muto della letteratura russa: noi che abbiamo vissuto la seconda rivoluzione quella capitalistica degli Anni Novanta assomigliamo molto ai personaggi di «Zivago»: «Anche noi come nel ’17 abbiamo vissuto in fondo cose che accadono una volta sola nella storia dell’umanità, la fine degli zar, la caduta del comunismo, poteri infrangibili, eterni. Alla Russia di nuovo era stato strappato via il tetto e, di colpo, ci siamo trovati allo scoperto sotto il cielo. E’ stato terribile, ogni volta. Guardi: sulla rivoluzione non troverà pareri unanimi, il tema è controverso».

L’uomo dell’Est europeo costretto a cercare di sopravvivere alla storia piuttosto che compierla. Che entrati nel ventunesimo secolo può insegnarci molte cose perché come lui siamo rimasti soli in senso etico. Ci ha abbandonato il Dio universale, i nostri miti universali e ci ha abbandonato anche la verità universale. Cento anni dopo la caduta del palazzo d’inverno al posto della speranza del futuro hanno avuto il sopravvento le frustrazioni per gli errori del passato storico, i sentimenti del nazionalismo ferito e la collera del rancore. Ha ragione il professore: dobbiamo pensare a una rivoluzione lunga che inizia nel 1905 e si compie forse oggi nel fragile termidoro dell’età putiniana.

Ecco: stazione Finlandia, sgualcita, mediocre, provinciale come allora, simile a una sosta ferroviaria a Faenza o Voghera. Arrivo per caso alle ventitré, come allora. Era in ritardo Lenin. Festeggiavano già la vittoria i giovani soldati che non volevano andare al fronte, gli operai delle Putilov che avevano conosciuto nello stesso momento alfabeto e rivoluzione. Esultavano i contadini che si erano spartiti onestamente le vacche del padrone e che temevano la resurrezione dalla tomba dei vecchi poliziotti. L’ex zar, ingenuo, spaccava legna e attendeva che «i bambini» (erano in età da marito!) guarissero dal morbillo per andare in esilio. E invece c’era, come destino, la cantina insanguinata di Ipatiev, laggiù a Ekaterinburg. Che restava da fare? Ma Lenin sapeva: che le Rivoluzioni le vincono non gli ingenui, gli eroi che le fanno sulle barricate, ma gli Altri, chi arriva dopo e ha idee e volontà. Verità amara e sempre valida come insegnano le primavere di Tunisi e del Cairo.

Lo aspettavano, quella sera, soldati schierati e una banda che suonava in mancanza di meglio la Marsigliese! Lo portarono per le riverenze e i saluti della «delegazione» nella saletta riservata dello zar, su un’autoblinda improvvisò un comizio fustigando i suoi che già civettavano con i nemici di classe, i menscevichi, i liberali. La sua statua ciclopica oggi sembra continuare quel comizio all’infinito, con gesto perentorio, a indicare il mare e i radiosi destini.

Esco sulla piazza, i lampioni hanno sulla neve accecanti riflessi da sala chirurgica. So che accanto, a cento metri, c’è un luogo che bisogna vedere subito: se non si vuole dimenticare che il dio ha fallito. Sì, bisogna affacciarsi sul vuoto glaciale della necessità storica, dei Grandi Fini e delle soluzioni finali. Sul lungo fiume, accanto alla stazione, incombe lugubremente silenziosa una gigantesca costruzione di mattoni rossi, piccole finestre irte di grate, una altissima ciminiera come di fornace lancia fumo verso il cielo e divide le quattro ali che divergono e gli danno il nome. Sono «le croci», la prigione delle croci. Qui passarono i primi deportati degli inverni terribili del ’17 e del ’18: era un’epoca che non teneva conto degli uomini ma imponeva ciò che voleva lei. Si nominavano già commissari con poteri illimitati, uomini dalla volontà di ferro, con nere giubbe di cuoio, armati di leggi di terrore e di rivoltelle «nagant».

Davano la caccia ai controrivoluzionari, sembravano non dormire mai. Accanto al muro del carcere un giardino è pieno di giochi per bambini. Dall’altro lato della Neva Pietroburgo brilla ancora di luci. La città che fu la rivoluzione (Mosca le venne dietro) ed è la città di Putin, dove è nato e ha costruito la sua carriera. Una città dove la vita sembrava impossibile fra stagioni con venti ore di luce e notti con venti ore di buio, inverni che tolgono il respiro e abortiscono in primavere palpitanti, città che di questa impossibilità ha tutti i segni e i deliri e gli incubi. E’ piombata, per l’ennesima volta, in un’altra vita, vede una umanità che non riconosce per sua nessuna delle forme per cui crebbe la città e vi cammina come attraversando per errore la scena di un teatro. E chi vi giunge, straniero, ha l’impressione di trovarsi in un mondo passato e questo passato sia la sua vita stessa.

Sì, il 2017 che si annuncia di grandi sconvolgimenti, in un tempo in cui il sentimento dominante è un senso di impotente disorientamento, può iniziare qui, da una città e da un anniversario. Dove si è schiantato l’ultimo pilastro dell’ottimismo ottocentesco troncando la corsa all’ultima utopia dell’umanità. Il viaggio di Lenin ci insegna che nessun bilancio teorico delle perdite e dei vantaggi di una rivoluzione potrà cambiare il fatto che in pratica essa si rivela improduttiva. Le rivoluzioni si mantengono al potere proprio perché cessano di esser rivoluzioni, dopo il febbraio arriva sempre un ottobre. E dobbiamo accettare, noi uomini del ventunesimo secolo, che non esista una strada facile e poco costosa per l’utopia.

Shu Lam, ricercatrice di 25 anni, scopre un modo per sconfiggere i super batteri senza ricorrere agli antibiotici

I superbugs, batteri che hanno sviluppato una resistenza agli antibiotici, sono da sempre un grattacapo per gli scienziati, oltre che una minaccia per la salute degli esseri umani .Ma Shu Lam, una giovane ricercatrice di 25 anni, dottoranda alla University of Melbourne in Australia, potrebbe aver trovato finalmente il modo di combatterli senza ricorrere agli antibiotici stessi. La sua ricerca, pubblicata sulla rivista Nature Microbiology, a detta degli esperti, “potrebbe cambiare il volto della medicina moderna”.

Il nuovo approccio è stato testato soltanto sui topi, ma potrebbe avere effetti positivi anche sull’uomo. Shu Lam ha sviluppato un polimero in grado di uccidere sei diversi ceppi di batteri resistenti ai farmaci, senza ricorrere agli antibiotici, ma semplicemente facendo a pezzi la loro parete cellulare.

“Abbiamo scoperto che questo tipo di polimeri è in grado di individuare e prendere di mira i batteri e di ucciderli in diversi modi”, ha spiegato al Telegraph. “Un metodo consiste nello spazzare via la loro parete cellulare – ha aggiunto -. Ciò crea un forte stress nei batteri e può indurli anche a distruggersi da soli”.

I batteri resistenti agli antibiotici uccidono circa 700mila persone ogni anno. Entro il 2050, secondo uno studio recente, saranno almeno 10 milioni gli esseri umani uccisi da questi “superbugs”. La soluzione offerta da Shu Lam è interessante, ma non è di certo definitiva: la sperimentazione , portata avanti solo sui topi , dovrà capire come reagiranno le altre specie. Inoltre, i polimeri si sono dimostrati efficaci su sei ceppi di batteri resistenti ai farmaci e su un tipo di super batterio, quindi bisognerà continuare ad indagare. Al momento le macromolecole messe a punto dalla ricercatrice sono riuscite ad individuare e a distruggere i loro obiettivi e, generazione dopo generazione, i “superbugs” non hanno sviluppato resistenza ai polimeri. A Shu Lam, intanto, va il merito di aver percorso una nuova strada e di aver provato a combatterli non con un antibiotico innovativo ma con un metodo alternativo.

Bollingen (Svizzera) 27 settembre 1913 – Quando Carl Gustav Jung piangeva prima di diventare se stesso

Mi è piaciuto molto quest ‘articolo. Ci viene raccontato un momento della vita di Jung, dove questo medico scienziato, al quale si deve la nascita della psicanalisi, insieme a Freud, ci viene presentato con tutte le debolezze, le paure, le angoscie degli uomini. Evidentemente i suoi tormenti l’hanno aiutato in quegli studi, che oggi sono a disposizione di chiunque abbisogni di aiuto nel conoscere se stesso . L’autore è Cesare Catà, blogger di HP.

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Perché, nella modesta casa canonica a Kleinhüningen, dove suo marito è pastore, Emilie Preiswerk, sposata Jung, volga improvvisamente lo sguardo altrove dai suoi ricami e scoppi a piangere a dirotto, in un qualsiasi martedì pomeriggio del 1880, non è chiaro; anzi, al suo bimbo di cinque anni, Carl Gustav – che è l’unico in tutto il cosmo ad accorgersi dello zampillo assurdo di quelle lacrime – si scatena un terrore dentro al cuore quando la vede. Il bambino guarda la madre intensamente, senza dire niente, indagando con i piccoli occhi chiari la stanza, per capire cosa sia successo, chi le abbia fatto così male. Ma non c’è nulla: nessuno. Non ha radice, quel dolore. C’è solo un vasto silenzio nell’aria, che detona in un’eco di ansie mute. Quando Emilie riconosce la paura negli occhi del figlio, si asciuga le lacrime con il grande fazzoletto rosa che tiene sempre in tasca e gli sorride, come a dirgli: “non è niente, mamma sta bene”. Anche Carl Gustav sorride, d’istinto, di rimando, ma il terrore provato gli resta dentro. Quel terrore che non capiva il soffrire della creatura che più amava. Torna ai suoi giochi solitari con un’angoscia nuova.

Anche se è un medico, un filosofo, impegnato a Burghozli in uno dei maggiori centri di cura psichiatrica svizzera, lo sguardo di Carl Gustav Jung, alla fine dell’estate del 1904, non è molto diverso quando una diciannovenne strillante, di nome Sabine Spielrein, varca le porte del sanatorio. Geme, ride, urla come se fosse penetrata da lame, si lamenta e dice cose apparentemente senza senso. Il dottor Jung la prende in cura.

Seduta nella stanza bianca, contorta da ondate di tic che le sfigurano il volto, il dottore la percepisce piena di un’energia che non comprende appieno. È come se le sue strilla provenissero da una camera di tortura chiusa dentro la sua mente, di cui si è perduta la chiave. Ora lui vuole ritrovare quella chiave.

Poche settimane prima, nel suo taccuino, Jung aveva scritto di un immaginario caso clinico denominato “Sabine S.”. Ed ora, eccola lì: Sabine Spielrein. Sembrerebbe una incredibile coincidenza. Ma il giovane dottore non crede nelle coincidenze. Crede che le cose accadano dispiegandosi dalla nostra anima, come segni di un libro che dobbiamo imparare a decifrare. Crede che tutto accada con significato. Se ora quella donna è lì, è perché il destino gli sta parlando: Carl Gustav Jung ne è certo. Lo dice anche a sua moglie Emma; e le confida che, stavolta, vuole abbandonare le cure inefficaci della psichiatria contemporanea, per sperimentare un nuovo metodo, creato da un suo collega viennese, un tipo che lui non ha mai visto, che alcuni considerano un genio, altri un ciarlatano. Un tipo di nome Sigmund Freud. Quello che Jung non racconta a sua moglie è il fremito alle gambe che sente quando Sabine lo guarda, nei suoi rari sprazzi di lucidità non assediata da incubi. La trova bellissima come una tempesta. In lei, intravede pianeti perduti della propria interiorità. Come se Sabine fosse venuta a lui, per indicargli chi potrebbe ancora essere. Come se lei, mentre lui la cura, lo stesse curando.

I risultati medici sono straordinari: nel 1911, Sabine Spielrein somiglia alla ginnasiale promettente che era stata. Sembra uscita dall’inferno in cui era piombata durante le sue crisi, sembra avere un’armatura nuova. Si laurea brillantemente in medicina, vuole diventare psicanalista. Jung l’ha curata. L’ha curata con il metodo di Freud.

E, proprio per raccontargli di questo straordinario successo clinico, Jung lo incontra. I due parlano incessantemente, dal pranzo al thé, alla cena, al whiskey, per quattordici ore. Sarà un dialogo che durerà anni, un corpo a corpo tra due menti straordinarie. Freud avrebbe riconosciuto nel giovane Jung il suo delfino, il suo erede; e lui, a sua volta, avrebbe trovato in Freud il proprio maestro. Prima della rottura insanabile tra i due, che avrebbe diviso in due anche la psicanalisi. Perché Jung era convinto che dovessero esserci altri cardini nell’universo, oltre la libido; che la sessualità non potesse spiegare tutta la mente umana, perché la psiche è piena di miti che le preesistono, che noi siamo chiamati a riconoscere; che la cura psicanalitica non consiste soltanto nel mostrare al paziente i traumi del suo passato, ma le sue potenzialità future. Ogni sintomo ha a che fare con un destino irrisolto. Si guarisce davvero solo quando comprendiamo chi siamo. L’inconscio è un fattore collettivo, in cui l’essere umano si trova ad abitare. Ma Freud era quanto mai distante dalla direzione che Jung, a pochi anni dal loro incontro folgorante, voleva imprimere alla psicanalisi.

La spaccatura tra loro è fortissima; lascia poche tracce dell’entusiasmo con il quale Jung aveva raccontato a Freud di quel caso clinico “zero”, di quella giovane ebrea russa dalla straordinaria intelligenza, nei progressi della quale il metodo freudiano poteva riconoscere la sua efficacia. Ciò che Jung, allora, non disse a Freud, fu come quella ragazza l’avesse rapito nel profondo; come lui, medico, avesse ceduto a una passione brutale e irrefrenabile. Lei fu ammaliata selvaggiamente da Jung, che le appariva divino come un eroe wagneriano, moderno Sigfrido che si univa a lei, bruna semitica, suo opposto alchemico, per la realizzazione di un’assoluta crasi mistica. Anche Jung rispose alle voci di quel richiamo erotico, karmico, atavico, esplorando i più reconditi confini della mente, quelli che si possono sfiorare solo quando si è completamente posseduti dall’amore.

Di tutto questo, Jung, a Freud, non avrebbe detto mai nulla. Ma quando la moglie di Jung si accorse di quanto stava accadendo, spedì una lettera anonima alla madre di Sabine denunciando il fatto. Lo scandalo fu pubblico, e raggiunse Freud. Che dapprima difese il suo allievo, per poi deprecarne gli atti, dopo il loro distacco.

Lei, guarita e innamorata, ora sognava una vita con il suo Sigfrido. Ma le ore delle giornate scarnificano la sostanza dei miti, e Jung tornò dalla moglie. Tornò dalla moglie come un uomo che avesse affrontato una catabasi; era un eroe sconfitto che, attraverso gli occhi di lei, aveva compreso quali abissi di terribilità si portava dentro. Tornava dalla moglie come un uomo distrutto. Cadde in una depressione profonda, per riprendersi dalla quale sarebbero occorsi anni. Ma da cui sarebbe riemerso come il più carismatico e geniale psicanalista del suo tempo.

Sabine, novella Arianna sedotta e abbandonata, intessé per il suo Jung-Teseo le nere vele del castigo. Seguì Freud e il suo metodo, rifiutando quello di Jung, e divenendo una delle più brillanti psicanaliste del Novecento, rivoluzionaria pedagogista, pioniera del metodo freudiano in Russia. Quegli orrori che aveva conosciuto da ragazza e da cui era evasa attraverso il supplizio dell’amore paradisiaco per il Dottor Jung, ora erano vinti. Ma il suo non era un destino di quiete. Dopo essersi legata in un matrimonio turbolento con il medico russo Pavel Šeftel’, da cui avrebbe avuto due figlie, dovette vedere i suoi tre fratelli ammazzati dalle purghe staliniane. Per poi morire lei stessa, insieme alle sue bambine, nel massacro di prigionieri ebrei perpetrato dai Nazisti nell’agosto del ’41.

Anni prima, il ventisettesimo giorno di settembre del 1913, mentre l’Europa stava per essere squartata dalla più grande delle guerre, e una terribile guerra interiore fustigava l’anima di Jung, perso e deragliato nella sua devastazione psichica – lei tornò a trovarlo. In uno strano pomeriggio di sole. Ora lei era un’amata donna incinta, un medico, una libera pensatrice. Sabine sembrava divenuta se stessa, mentre il dottor Jung pareva perduto nella lunga notte dei propri incubi. Ora, è come se i ruoli si fossero invertiti. Il dottore è paziente. Ma lei non può curarlo. Sono stati troppo vicini, perché ora possano essere altro che abissalmente distanti. Lei lo guarda intensamente. Lui scoppia in un pianto irrefrenabile, invincibile. Apparentemente, non ha radice quel dolore. Ma Sabine sa che non è così. Lei comprende esattamente la natura di quel pianto. Ne sa la scaturigine. Perché ha amato, ha sofferto come lui. Insieme a lui. Jung si toglie gli occhiali. Si mette il volto tra le mani. Sabine gli carezza dolcemente la nuca. Lui si tira su, con gli occhi chiari gonfi di lacrime. Lei lo bacia lungamente sulle labbra, e lo lascia solo di fronte al grande, silente lago della sua casa. In compagnia dei suoi incubi peggiori, nel suo inferno. È tremendo diventare se stesso.