Dal Rinascimento al Denascimento perdiamo la natura e l’umanità.

 

Che fine ha fatto l’ordine naturale e che ne è dell’uomo al centro dell’universo? Prevale nel nostro tempo la percezione di vivere nel Caos, più che all’interno di un Ordine; è in corso una guerra mondiale contro la Natura, e l’Uomo non è più al centro del mondo ma è un terminale periferico dei suoi strumenti e dei suoi prodotti. Andiamo con ordine e ripartiamo dagli inizi della modernità. Per rappresentare l’uomo rinascimentale immaginiamo due assi che s’incrociano: uno va dalla natura alla scienza e l’altro dall’arte alla magia. Al centro dei due assi è l’uomo, concepito nel Rinascimento come homo faber, artefice della sua fortuna. Egli è al centro dell’universo, Marsilio Ficino lo definisce “copula mundi”; Pico della Mirandola lo ritiene fabbro del suo destino, libero di scegliere se diventare angelo immortale o bestia mortale. Quello fu il momento irripetibile in cui l’uomo si sentì creatura e insieme creatore, figlio di Dio e padre del mondo, apice dell’ordine naturale, proteso verso l’ordine soprannaturale. Fu il tempo magico e breve, in equilibrio perfetto e precario, in cui l’uomo, misura di tutte le cose, diventò centro dell’universo; ma la svolta antropocentrica non era ancora situata fuori dal regno di Dio e dal regno della Natura, era dentro quel doppio solco.

Quel sogno fu rappresentato da artisti e scienziati, pensatori e alchimisti, e trovò in Ulisse Aldrovandi il grande scopritore e classificatore della natura. Nel cuore del cinquecento, Aldrovandi si mosse tra l’osservazione scientifica e l’immaginazione artistica, e generò quella visione del mondo in cui la scoperta dell’ordine naturale si affaccia sul sogno di oltrepassarlo. A quei reperti, a quella collezione, il Centro Arti e Scienze Marino Golinelli di Bologna dedica una mostra, arricchita anche da opere d’arte di autori contemporanei e da materiali e spunti provenienti dall’agenzia spaziale europea, dalla ricerca sulle neuroscienze e l’Intelligenza Artificiale. Perché il progetto non è solo quello di portare alla luce l’opera del grande naturalista bolognese, ma di andare oltre il tempo e lo spazio, e capire cosa ne è oggi del progetto umano rinascimentale e dell’ordine naturale a cui si riferiva. Come sono cambiate da allora a oggi la scienza, l’arte e la tecnologia, cosa hanno prodotto nel mondo e come hanno modificato il posto dell’uomo? Hanno spodestato l’uomo, che non è più al centro dell’universo; e hanno liquidato l’idea stessa di un ordine naturale e che nel suo contesto sia situata la natura umana, coi suoi limiti invalicabili, le sue differenze sessuali. Siamo entrati nell’epoca inversa del Rinascimento, ossia nel Denascimento.

L’idea stessa di natura è stata sostituita dalla definizione più asettica di ambiente, che si può riferire tanto al mondo naturale quanto al mondo costruito dall’uomo. Ambiente è un bosco come una fabbrica, una stanza come un fiume. Il rigetto metafisico della natura è il rifiuto della realtà che precede l’uomo, del mondo che non abbiamo fatto e voluto noi, ma in cui siamo immessi dalla nascita. Natura vuol dire creato, e l’uomo creatura; vuol dire legge naturale, ordine naturale.

Rispetto alla visione rinascimentale, c’è stata una doppia trasmutazione: madre natura è sostituita dalla maternità surrogata dell’ambiente; e l’homo faber è sostituito dalla tecnica e dai suoi prodotti; mediante l’intelligenza artificiale, il predominio hi-tech, la dipendenza dalle “macchine”. E’ l’inversione dei mezzi e dei fini: il regno dei fini che è il regno dell’uomo, cede il posto al regno dei mezzi, che tendono via via ad assumere sovranità tramite lo scettro dell’economia, la bacchetta magica della tecnologia, il trono dell’automazione. L’uomo è l’assistente del suo robot, non più “l’utilizzatore finale” della tecnologia ma il terminale periferico dei suoi stessi strumenti e del suo procedere senza scopo, tra segni privi di senso, algoritmi privi di significato. Lo snaturamento del mondo coincide con la sua disumanizzazione. A prefigurare questo scenario, ma in chiave positiva, è Elémire Zolla in Uscite dal mondo.

In verità questo processo era già in nuce nel Rinascimento, soprattutto nel suo versante magico, alchemico e prometeico, in certe rappresentazioni divine dell’uomo e nel sogno stesso di scienziati e naturalisti come Aldrovandi. Dapprima si affida alla facoltà immaginativa dell’artista; anzi l’artista-scienziato si fa prima scopritore, poi inventore, infine demiurgo. Strada facendo cresce il mondo artificiale sul mondo naturale, ma è ancora il mondo fabbricato dall’uomo che potenzia e prolunga le sue mani, la sua vista, la sua natura, tramite gli strumenti meccanici e non solo, in un succedersi esaltante di invenzioni e di perfezionamenti progressivi.

La parabola dei mezzi cresce, la parabola dei fini decresce: l’automazione finisce col rendere automatici i processi, non più dipendenti da finalità e volontà umane. Così accade il paradosso che l’uomo modifica la natura ma è modificato dalla tecnica, riduce l’influenza della natura ma subisce l’influenza della tecnica; un trasferimento progressivo di sovranità fra vasi comunicanti. Così perveniamo all’odierna alienazione: dal superuomo al transumano, dal potenziamento dell’umanità all’abdicazione della libertà, dell’intelligenza critica e della dignità umana. La MegaMacchina va per conto suo, spariscono la storia, la creatività, il pensiero, l’umanità. Parafrasando Goya, la morte dell’arte e il sogno della tecnoscienza possono produrre mostri.

Ma è proprio impossibile immaginare deviazioni di percorso, cambi di destinazione? Il futuro non è la copia conforme del presente. L’avvenire, come l’uovo di Pasqua, serba sorprese.

MV

Elon Musk, come un dio laico, ha in mente la creazione di un mondo nuovo, in cui un’unica intelligenza collettiva rappresenterà l’umanità.

 

Il Brano in lettura è tratto dal libro di Fabio Chiusi “L’uomo che vuole risolvere il futuro. Critica ideologica di Elon Musk”, edito da Bollati Boringhieri (134 pagine, 12 euro)

A Elon Musk chiediamo quello che chiediamo a un dio. Salvaci, diciamo all’uomo che è stato capace di diventare il più ricco del mondo. Mostraci la Via, liberaci dal male. Perché è una notte fonda, là fuori, buia e piena di terrori. Pandemie, guerre, catastrofi climatiche, crisi sociali ed economiche: c’è un senso greve di fine, di apocalisse, di disperazione, nel mondo. E allora illuminaci, salvatore! Illumina la notte, gli diciamo, devoti e insieme attoniti, nel mistero; rischiarala con la luce della verità.

È una religione laica, quella nell’imprenditore di Tesla e SpaceX, NeuraLink e ora anche Twitter, che al sacro ha sostituito la ragione, e ai comandamenti le leggi di natura. Ma che sempre come religione si configura. Le sue verità non sono rivelate dal Verbo, ma dal metodo scientifico; le sue profezie sono probabilistiche, ma ugualmente imperscrutabili; e il suo paradiso è terrestre, ma non meno paradisiaco. Musk non moltiplica pani e pesci, e tuttavia annuncia comunque un futuro di benessere e felicità infiniti, dove miseria, malattia, scarsità, perfino il lavoro non saranno altro che ricordi di un’epoca passata di barbarie e irrazionalità; errori di un’umanità nella sua adolescenza, destinata a redimersi con la tecnologia e l’ingegno, per poi godere una lunghissima, beata maturità. A patto che si rispettino i dogmi del “muskismo”. A patto che l’umanità tutta ragioni e si comporti come una unica, enorme intelligenza collettiva intenta esclusivamente a massimizzare il bene aggregato del massimo numero di esseri umani, presenti e futuri.

Anche la fede, infatti, è richiesta. Una fede militante, che si traduce nell’obbedienza di precisi precetti morali e rivoluzionarie scelte politiche, nell’adesione a una propria teoria della storia e della conoscenza. Perché chi trasgredisce i suoi comandamenti, ammonisce l’imprenditore-dio, non mette a repentaglio soltanto il suo futuro, ma quello dell’umanità intera. Perché è ora che bisogna credere: domani potrebbe essere tardi. Una Intelligenza Artificiale superintelligente potrebbe – quasi certamente potrà, dice Musk – superare l’umano e, per errore o diletto, annientarci ora e per sempre. O forse potrebbe essere la stupidità umana a mettere fine alla storia, questa volta per davvero. Una qualche sua perversione ideologica, una qualche conseguenza del suo agire senza considerare le conseguenze di lunghissimo termine delle proprie azioni. Qualunque sia la causa, la diagnosi è certa: è ora, che c’è bisogno di salvarci. Ora che i “rischi esistenziali” minacciano la fine della civiltà umana si impone la necessità di un salvatore.

Anche la religione del muskismo ha le sue apocalissi, dunque. Solo che non recano ad alcun giudizio universale: l’universo, direbbe Musk con il suo idolo e guida Douglas Adams, ha già da sempre giudicato; è già la risposta. Tutto ciò che possiamo fare è cercare le domande giuste, porle, e tentare di meglio avvicinarci alla sua comprensione – oppure estinguerci, sparire nel silenzio di un cosmo che potrebbe essere vuoto, senza di noi, privo della “luce della coscienza” che Musk vorrebbe, con la sua vita e le sue opere, estendere il più possibile, sulla Terra e nello spazio. Siamo noi, insomma, l’apocalisse. E solo a noi spetta il compito di evitarla.

Si potrebbe obiettare che il paragone tra un dio e un uomo, per quanto ricco e potente, sia fuorviante e ideologico. Che certo, Musk con un tweet può indirizzare i mercati e stravolgere le regole del dicibile, ma i miracoli ancora non gli competono. O ancora, che la sua religione prevede una nutrita schiera di miscredenti, che tendono a dipingerlo come un Satana, più che come un Cristo dell’era dell’Intelligenza Artificiale. E che dunque se di fede si tratta è quella di una setta, al più. A parte gli iniziati, non tocca nessuno. […] Ma il culto di Musk è tutt’altro che una setta. È, al contrario, espressione di una fede più ampia e strisciante nella nostra società iper-informatizzata, di cui Musk è solo la manifestazione più nitida: quella nel soluzionismo tecnologico. Intuita come tratto caratteristico della contemporaneità dallo scienziato politico Evgeny Morozov già un decennio fa, consiste in una incrollabile fede nel potere salvifico della tecnologia, e più di preciso nella capacità della scienza e della tecnica di risolvere da sé problemi sociali, politici, economici complessi.

Non importa quanto le sfide poste dalla realtà siano imbevute di storia, discriminazione, violenza. Importa la loro riduzione a risposta computabile, quantificabile, algoritmica. Quello che importa, insomma, è la loro riduzione scientifico-matematica, il loro essere sostanzialmente problemi di calcolo, di efficienza. Musk è elevato a rango di divinità perché incarna meglio di ogni altro questo mito soluzionista, che sta al fondamento dell’innovazione secondo Silicon Valley e insieme della nostra stessa idea di progresso. Perché gli ha dato un volto irriverente e affascinante. E perché, contrariamente alla maggioranza dei soluzionisti, qualche soluzione l’ha prodotta davvero.

Copyright 2023 Bollati Boringhieri editore

 

eln Musk

 

Per alcuni l’intelligenza artificiale è il massimo, per me è un pericoloso nemico dell’intelligenza umana.

Non abbiate timore dell’intelligenza artificiale, ci rassicura il filosofo Maurizio Ferraris dalle colonne del Corriere della sera. Il bersaglio non esplicitato siamo noi conservatori, ritenuti apocalittici, antitecnologici, un po’ heideggeriani e tanto stupidi. “Temere che una macchina possa prendere il potere – replica Ferraris – agitare lo spettro della intelligenza artificiale onnipotente, è soltanto rivelare una nativa mancanza di intelligenza naturale. ”. Dietro il Genio Imbecille, ci saremmo dunque, noi stupidi senza talento .Insomma, ci sono domande, sensibilità, ambiti in cui nessuna macchina potrà mai sostituire l’uomo. Le macchine tendono a portare via lavoro agli uomini? “Niente di male, se un lavoro può essere automatizzato in genere è indegno di un umano”. Semmai, conclude Ferraris, concentriamoci su questi problemi e lasciamo perdere tutti i timori e le vane fantasie sul Golem che prenderà il potere.
Rassicurati come uomini e mortificati come dementi sul fatto che le macchine ruberanno il posto agli umani ma non prenderanno mai il potere, ci resta però la preoccupazione. Nessuno pensa che un bel giorno l’Intelligenza artificiale farà un colpo di Stato o instaurerà un regime schiavista e totalitario. Non amiamo i film di fantascienza, non siamo rimasti all’infanzia delle fiabe e non crediamo all’orco cattivo. Ma più sensatamente osserviamo la realtà presente nel suo contesto. Dunque, da una parte l’Intelligenza Artificiale viene impiegata in ambiti diversi e anche inquietanti; ad esempio per generare, come denuncia il filosofo Byong-Chul Han in Infocrazia, un regime di sorveglianza; trasformandosi da Intelligenza in Intelligence. Dall’altra, ci spiegano, ad esempio Cingolani e Metta, ai vertici dell’Istituto Tecnologico, che in virtù dell’intelligenza artificiale avremo “robot in grado di comunicare tra loro e con gli umani, usando lo stesso linguaggio (verbale e gestuale), capaci di comprendere le situazioni fondamentali e persino di prendere piccole decisioni”, possedendo tra i loro requisiti “autonomia”, capacità di “cooperazione”, “socialità”, sorveglianza, sostegno, guida “compagnia, addestramento, educazione e training” e “sostituzione degli umani in ambienti ostili o per lavori gravosi”.(Umani e umanoidi. Vivere con i robot, Il Mulino). Grazie all’intelligenza artificiale e all’uso delle cellule staminali, ci spiegano Lovelock e Boncinelli arriveremo all’autogeneratività, fino a costruire ”organismi perfettamente efficienti”; siamo ben oltre l’eugenetica. Orizzonti sposati dal filosofo Salvatore Natoli, nel suo recente libro Il posto dell’uomo nel mondo (Feltrinelli), che nota “l’estensione del dominio dell’artificiale sulle regioni della mente” fino “a modificare gli schemi cognitivi”.
Non è l’Intelligenza artificiale in sé che ci spaventa ma l’umana idiozia, il delirio di onnipotenza tecnologica, che ne è complice entusiasta. Qual è il pericolo dell’intelligenza artificiale? La sostituzione del mondo reale, delle identità e della natura, con una grande bolla in cui sparisce la realtà e tutto ciò che la costituisce: la storia, il pensiero, la vita, la presenza, i corpi, la natura per entrare in questo universo virtuale e funzionale. Ne è un segnale, ad esempio, il metaverso, come nota il filosofo Eugenio Mazzarella (Contro metaverso).
Ma tutto quel che abbiamo fin qui detto potrebbe rientrare nel rischio consapevole dell’avventura umana, nella scommessa dell’intelligenza umana, nella capacità di cavalcare la tigre della tecnica. Ma se consideriamo il contesto in cui avviene questa scommessa, allora lo spirito critico nei confronti dell’Intelligenza Artificiale esonda nell’angoscia. La crescita rapida ed espansiva dell’Intelligenza Artificiale coincide infatti con la decrescita altrettanto rapida ed espansiva dell’Intelligenza umana, delle sue connessioni vitali e mentali con la storia, con la tradizione, con il linguaggio, con la capacità di progettare il futuro e governare i cambiamenti, la regressione del pensiero, oltre che della religione, col declino dell’arte e l’atrofizzazione progressiva, come una paralisi, delle facoltà naturali, socievoli e intellettuali dell’uomo e con un calo progressivo e allarmante del Quoziente Intellettivo. Si realizza appieno quel “dislivello prometeico”, di cui scriveva Gunther Anders ne l’Uomo è antiquato: ossia cresce la tecnica e decresce la cultura, cresce l’artificiale e sparisce il naturale, cresce il robot e declina l’uomo. Si ingigantisce cioè la forbice tra tecnica e sapere, il mondo artificiale si espande mentre si contrae la nostra capacità di conoscerlo, di capirlo e dunque di governare gli effetti.
Il pericolo, caro Ferraris, non è dunque il golpe delle macchine, l’autogoverno dell’Intelligenza Artificiale; ma la complice stupidità umana unita all’infatuazione per le macchine, alla perdita dell’umanità e al fatalismo tecnologico secondo cui non si può fermare o frenare né cambiare il corso. Se il procedere è automatico e inarrestabile, non c’è più libertà, intelligenza e dignità umana. Non è l’Intelligenza Artificiale in sé il pericolo ma la disumanizzazione radicale che si attua tramite essa. È una preoccupazione stupida? Se lo è preferisco restare uno stupido umano, anziché un idiota servitore e collaborazionista del robot..

MV

Se si vuole vivere 20 anni in più e soprattutto godendo di una migliore salute, non bisogna fare colazione prima delle…

 

Tutti vogliono vivere più a lungo, ma sono in pochi quelli che fanno davvero qualcosa per modificare il proprio stile di vita affinché ciò possa avvenire davvero. Il segreto di tutto può essere l’orario della prima colazione… Che andrebbe spostato ad un momento diverso da quello a cui tutti pensiamo… Non appena svegli, dunque. Ma allora quando?

Partiamo dal principio e andiamo con ordine. A quanto pare, l’orario perfetto per fare la colazione sono le 11 del mattino. Si tratta di un momento della giornata che, scelto per il pasto più importante della nostra quotidianità, può far sì che si possa vivere anche fino a venti anni in più. Ma quali sono i motivi di questa “miracolosità”?

In realtà, quello delle 11.00 del mattino è un orario che, secondo la dottoressa Julia Jones (neuroscienziata e autrice del libro F-Bomb Longevity Made Easy, nel quale studia diversi aspetti delle abitudini quotidiane non solo alimentari legate alla longevità), aggiunge un paio di decenni alla durata della nostra vita.

Il trucco, secondo la scienziata, è quello di far stare il nostro corpo a digiuno per 16 ore, tra le quali vanno comprese quelle notturne. Poi, solo nelle otto ore rimanenti, andrebbero consumati gli altri pasti.

Il motivo, a parer suo, è l’estrema quantità di cibo che ciascuno di noi ingerisce durante il giorno, oltre al cosnumo di una miriade di “cose sbagliate”. Al contrario, andrebbe dato un po’ di riposo all’apparato digerente, in modo da permettere una pulizia cellulare più efficace.

Questo regime alimentare, che altro non è che quello noto come digiuno intermittente, comporterebbe quindi la possibilità di vivere più a lungo e più in salute, riducendo il rischio di sviluppare alcune malattie cardovascolari o quelle legate all’obesità, come il diabete e l’apnea del sonno. Il fatto di essere meno predisposti allo sviluppo di patologie anche gravi, quindi, sarebbe vantaggioso per la salute generale del nostro corpo, facendoci guadagnare anni di vita…

colazione1

Che cos’è un corallo? Il fascino delle barriere coralline, un patrimonio da difendere con la massima cura.

 

Che sarà mai un corallo, che alcuni hanno visto, altri vedranno mai,se non trasformato in gioiello, forse antico, poichè, dovunque nel mondo, è proibita la raccolta? Sarà un animale, un vegetale, un minerale ? Nonostante la loro apparenza sia quella di una pianta, attualmente i coralli sono animali. Le colonie corallifere sono costituite da centinaia di migliaia di minuscole creature chiamate polipi, i quali hanno tentacoli ,che usano per catturare il cibo dall’acqua. Questi polipi nascondono uno scheletro duro di calcare. Molti coralli , inoltre, sono anche contenitori di un’alga chiamata zooxanthellae. la quale produce cibo e ossigeno per i coralli attraverso la fotosintesi. Queste zooxanthellae sono anche delegate a colorare i coralli coi più sgargianti colori.

Se si guarda attentamente questa immagine molto da vicino si possono vedere i singoli polipetti su questo corallo azzurro , fotografato nel Santuario marino americano di Samoa Island.

corallo azzurro di Samoa

I giovani nella nuova era…

 

I ragazzi di oggi sono gia abbastanza diversi dai loro genitori, famiglie poco unite, affetti indecifrabili, vita senza valori e punti di riferimento molto scarsi, ma il gran numero di bambini che nasceranno avrà conoscenze approfondite di elettronica, conoscerà la potenza energetica dell’atomo per poterla sfruttare a beneficio proprio, cosi come molte forme di energia. Essi cresceranno tra scienziati, ingegneri, intelligenze artificiali, robot, sicuramente perderanno molte prerogative derivanti da riflessioni spirituali, etiche ed emozionali. Le nuove generazioni vivranno in una nuova era, che avrà la forza di distruggere la civiltà a meno che non tralascino l’insegnamento delle leggi spirituali e continuino a seguirle.

i giovani e il futuro1

L’identità di genere nasce (anche) in famiglia.L’identità di genere ha basi biologiche o culturali? La scienza è divisa, ma su un punto sono tutti d’accordo: gli stereotipi che la alimentano sono un prodotto culturale.

L'identità di genere nasce (anche) in famiglia

La differenza di genere tra maschio e femmina ha una base biologica o culturale? La questione è antica e ancora oggi molto dibattuta. Come riporta il NewScientist in un suo articolo, nel 2017 fecero scalpore le dichiarazioni di un ingegnere di Google, James Damore, secondo cui nel campo tecnologico lavorano più uomini che donne per una ragione biologica.

SIAMO FATTI COSÌ. L’idea di Damore partiva da una premessa: gli uomini hanno una propensione maggiore a raggiungere i vertici del comando e per riuscirci sono diposti a svolgere anche lavori stressanti. Le donne, invece, per loro natura reggono meno lo stress, quindi si autoescludono dagli ambiti più competitivi. Per qualcuno, la questione avrebbe anche una base scientifica: il testosterone agirebbe infatti sullo sviluppo cerebrale del feto maschile fin dal concepimento.

stereotipi di genere, gender, transgender, genetica, biologia, cultura

 

Su questo punto però la scienza non ha una posizione unanime. Tra il cervello di un uomo e quello di una donna ci sono infatti differenze strutturali, ma un ampio studio – condotto su 1.400 cervelli umani – conclude che ciò non basta a dimostrare l’esistenza di un cervello maschile e di uno femminile.

NATURA VS CULTURA. La cultura gioca un ruolo importante nel plasmare il nostro cervello e il nostro comportamento. Per dimostrare come gli eventi dell’infanzia possono condizionarci, due studiose – Shannon Davis della George Mason University (Virginia) e Barbara Risman dell’Università dell’Illinois (Chicago) – hanno analizzato i dati raccolti in California per gli studi sulla salute e lo sviluppo dell’infanzia negli ultimi 50 anni.

I risultati hanno mostrato che se i livelli di ormone prenatale, compreso il testosterone, incidono sulla percezione della propria identità di genere, le esperienze infantili – il fatto di dover indossare certi vestiti o dover giocare con le bambole, ad esempio – condizionano ancora di più.

LUOGHI COMUNI. La cultura inoltre è influenzata dagli stereotipi. Nel 2007, uno studio su 80 bambini di 3 e 4 anni ha mostrato che i padri tendono ad essere più preoccupati per i comportamenti spericolati delle figlie che per quello dei figli. Queste preoccupazioni – come conferma un altro studio su bambini di 3 anni – sono recepite e interiorizzate dai bambini.

stereotipi di genere, gender, transgender, genetica, biologia, cultura

 

Probabilmente è proprio questo il punto: se è difficile dire se le differenze di genere hanno una base biologica o culturale, è invece certo che gli stereotipi sono un prodotto della nostra società e in quanto tali possono essere modificati. Se vogliamo metterli in discussione, però, la prima cosa da fare è ragionare proprio sugli imprinting che abbiamo ricevuto nelle prime fasi della nostra infanzia e sull’educazione che diamo oggi ai nostri figli.

 da Focus     

Ma perché siamo nati senza pelo e ci siamo dovuti coprire?

 

La scoperta in Marocco di una caverna dove si confezionavano capi di pelle conferma l’idea che l’uomo iniziò a vestirsi molto indietro nella preistoria.

L’uomo si veste da almeno 170 mila anni, indicano gli studi genetici sui pidocchi dei vestiti: risale infatti a quel periodo la specializzazione di un contingente di pidocchi della testa che trovò più conveniente migrare nei vestiti per infestare da lì la pelle degli umani. Ora però ci sono prove più dirette: le analisi del Max Planck Institute su ossa di animali e strumenti risalenti a 120 mila anni fa, trovati nella grotta di Contrebandiers, sulla costa atlantica del Marocco, hanno permesso di ricostruire le attività di una pellicceria (e pelletteria). Non di trovare la “merce”, che non poteva conservarsi tanto a lungo, ma gli attrezzi e le ossa fossili degli animali scuoiati. Il fatto che in quella regione non facesse tanto freddo indica che da un pezzo l’umanità aveva iniziato a vestirsi, e che forse gli abiti erano già caratteri distintivi delle diverse comunità, per forma o anche per tipo di animale utilizzato. In particolare, le prove che nella caverna vi fosse una pelletteria derivano da strumenti in osso fabbricati in modo da fungere da raschiatoi con terminali rotondi per non bucare le pelli. I resti di animali – volpe del deserto, gatto selvatico e sciacallo dorato – mostrano sulle ossa delle zampe, di mandibole e mascelle segni di tagli che manifestano l’intenzione di scuoiarli preservando l’integrità delle pelli, come facevano gli indiani d’America e i cacciatori di pellicce bianchi del Canada.
L’archeologa Hemily Hallet, prima firmataria dello studio apparso su Science, ha raccontato di avere esaminato 62 utensili in osso, fra cui bulini e altri a forma di spatola. Un dente di capodoglio serviva da percussore, cioè a scheggiare per ottenere gli utensili da pellicceria desiderati. Questo ritrovamento riconduce ai raschiatoi di pietra di tanti siti del Paleolitico, a indicare che la concia delle pelli non doveva solo riguardare la fabbricazione di stuoie, sacche per trasporto, contenitori per acqua e cibo, ma in modo particolare il vestiario. Tanto più utile all’uomo di Neanderthal, che non sarebbe durato oltre 250 mila anni nell’Europa glaciale senza pellicce. I suoi denti incisivi vengono spesso trovati consumati, segno che, come gli Inuit dell’Artico, conciava le pelli usando anche la bocca. Il vestiario deve poi essere stato decisivo per l’Homo sapiens, proveniente dall’Africa, nella sua diffusione in Siberia e in Nord Europa.

L’uomo è uno dei pochissimi, fra le oltre 5 mila specie di mammiferi, a non avere pelo o quasi, assieme ai cetacei e a una talpa, l’eterocefalo glabro.È l’unico senza pelo fra i primati. Come i cetacei e le lontre, è fra i pochi a poter trattenere il respiro volontariamente. Occorre ricordare che se il colore della pelle è un adattamento locale, la mancanza di pelo è un carattere universale, frutto quindi di una mutazione molto antica. Tutto ciò ha fatto ipotizzare che nell’evoluzione umana ci sia stato un periodo acquatico: cioè si stava spesso a bagno in cerca di molluschi, crostacei e pesci. Di questa parentesi risalente forse a 5 milioni di anni fa se ne parlò in un libro dell’antropologa inglese Elaine Morgan e ne fu promotore negli anni ’20 Gioacchino Sera, antropologo all’università di Napoli. Più di recente, ritrovamenti di ominini fossili presso i grandi laghi africani, che un tempo avevano sulle loro rive fitte foreste, e la scoperta che l’Africa orientale fu interessata, 5 milioni di anni fa, da una trasgressione marina, hanno insidiato la teoria della savana e convinto l’antropologo sudafricano Phillip Tobias a rilanciare l’idea di un passato acquatico dell’uomo. Se la teoria della savana dice che i nostri antenati divennero bipedi per meglio guardarsi in giro dall’alto della stazione eretta, quella acquatica la reputa un adattamento per guadare i corsi d’acqua (anche le scimmie al guado si alzano su due arti) e utile persino per nuotare. Secondo questa teoria, grazie alla pesca in apnea impararono a controllare volontariamente la respirazione, potendo poi permettere a noi di parlare modulando il respiro. Come le foche e i delfini, noi umani abbiamo il grasso sottocutaneo, di cui nessuna scimmia dispone. Che permette ancora oggi ai bambini di avere sufficienti energie per sviluppare un grande cervello.

illustrazione-uomo-acquatico_1

 

 

Perché oggi abbiamo così paura ad amare? Ci risponde il grande sociologo polacco con il libro “Amore liquido: sulla fragilità dei legami affettivi”.

 

Molti intellettuali si rifiutano oggi di parlare di amore, considerandolo un tema poco impegnativo, anche se in fondo interessa tutti pur nei modi più svariati, nonostante ognuno di noi non possa negare il bisogno di affetto profondo. Di recente sui Rai 3 Zigmund Bauman, in un documentario” La Teoria svedese dell’amore”, il teorico della società fluida, ha detto: “Non è vero che la felicità significhi una vita senza problemi. La vita felice viene dal superamento dei problemi, dal risolvere le difficoltà. Bisogna affrontare le sfide, fare del proprio meglio. Si raggiunge la felicità quando ci si rende conto di riuscire a controllare le sfide poste dal fato, ci si sente persi se aumentano le comodità” Perciò è necessaria la nostra capacità di combattere, di fare scelte, lottare per essere più vicini alla felicità, ma questa lotta non si può combattere da soli. Di qui il bisogno di accettare sempre l’amore perchè il segreto sta nel condividere la vita , nel rispetto della libertà completa dell’altro- libertà che è cosa ben diversa dalla indipendenza, la quale annulla la capacità di condivisione e ” porta a una vita vuota, priva di senso, e a una completa assoluta inimmaginabile noia”.

imagesliqidità