Un’estate lunga sei mesi. Senza più nessuna dolcezza, solo un ineluttabile disagio: come si sopravvive alla monostagione che va da aprile a ottobre?

Uno degli incipit che preferisco nella storia della letteratura l’ha scritto Roberto Calasso a 12 anni, e non è mai stato pubblicato. Calasso però ne ha poi parlato in Memè Scianca, un libriccino del 2021, e fa così: «L’estate la sentivo arrivare dal viale». Il viale sarebbe Spartaco Lavagnini, circonvallazione di Firenze, e all’epoca a cui si riferisce Calasso – l’immediato Dopoguerra – era uno stradone con il pavé al centro per i binari del tram 19, pochissime auto, tigli verdi e slanciati. L’estate che descrive il fondatore di Adelphi si avvicinava come una nave alla costa: lentamente, con emozione e una certa allegria. Ottant’anni dopo l’estate ci travolge come uno schiaffo in piena faccia. Alla prima settimana di aprile i termometri segnano trenta gradi, l’asfalto dei viale è già torrido, i cofani delle automobili scottano. Sudiamo. Un paio di anni fa uscì uno studio molto ripreso dai giornali che diceva: se non si fa niente per ridurre il cambiamento climatico, alla fine del secolo avremo un’estate lunga sei mesi. È il 2024 e l’estate pare iniziata ad aprile, quindi proseguirà a maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, chissà se anche ottobre, è possibile, è probabile. I sei mesi sono già qui, se consideriamo non solo i trenta, ma anche i venticinque gradi temperature estive. Questo, ovviamente, porta con sé una serie di conseguenze gravi che conosciamo bene: dall’ansia climatica alle disuguaglianze sociali acuite dal clima, dalle migrazioni climatiche ai sempre più frequenti dissesti idrogeologici. Ma anche una domanda più faceta che riempie gli aperitivi e le cene e le pause caffè e i pensieri interrogativi davanti allo specchio la mattina: come ci si adatta a un’estate di sei mesi?  C’è intanto un cambiamento nell’immaginazione, e ci penso rileggendo quella frase di Calasso: le primavere e le estati descritte nei romanzi, nei quadri e nei film soprattutto europei del Novecento erano dolci e attese, portavano leggerezza e una dote di maggiore libertà. Ce ne sono molte altre, semanticamente simili, che mi vengono in mente: quella di Arbasino nelle Piccole vacanze, quella di Cassola in Tempi memorabili, quella di Bassani nel Giardino dei Finzi-Contini. Sono primavere ed estati di giardini all’ombra e vestiti chiari, serate che rinfrescano, mattinate oziose in spiaggia e poi pomeriggi nelle camere riparate a riposare. Certe scene di Guadagnino, anche quelle incastonate in un passato dolce e sensuale, sembrano uscite proprio dai Finzi-Contini: «In certe sere di maggio, coi finestroni laterali spalancati dalla parte del sole al tramonto, a un dato punto ci si trovava immersi in una specie di nebbia d’oro».

In certe sere di maggio, a Milano nel duemilaventi e qualcosa, dopo aver letto l’ennesimo bollettino che annuncia: “L’ultimo aprile è stato il più caldo della storia umana”, le finestre se ne stanno invece chiuse, perché il termometro tocca già i trentadue gradi e non piove da settimane e la città puzza da far schifo. Nessuna nebbia d’oro, semmai una patina grigetta che contorna lo skyline di vetro. Accendo l’aria condizionata, guardo le piante rinsecchite sul balcone. Faccio la terza doccia del giorno. Devo uscire per una cena o un aperitivo con il giusto anticipo: in bicicletta me la devo prendere comoda, per non sudare anche tutta questa camicia. Le cene si scelgono nelle case provviste di freddo artificiale. A pranzo, i terrazzi sono ormai banditi, anche se avevamo passato l’autunno a sognare i pomeriggi a casa di tizio, immaginando scene, appunto, guadagninesche e oziose. Ma ci si può stare la sera, semmai, a terminare le notti che si sono trascinate nell’umidità.  Il caldo infiacchisce, camminare stanca: il mondo dell’estate perenne gira al contrario rispetto a quello precedente, non è un mondo di libertà ma di frustrazioni. Se prendere gli aperitivi diventa una sofferenza, allora gli uffici ben condizionati si trasformano in un posto di requie, ci si sta volentieri. Quel briciolo di sindacalismo che si era risvegliato, fatto di smart working o altri termini sul lavorare meno e più indipendentemente, si scioglie nella consapevolezza che stare al computer in case poco ventilate è forse peggio che farlo negli uffici a venti gradi. Due estati fa è capitato piovesse, finalmente, dopo mesi di siccità che aveva investito l’Europa intera: Instagram si era allora riempito di Stories di festeggiamenti, venti-trenta-quarantenni entusiasti che ballavano nella pioggia. Un altro ribaltamento: finisce così che siamo felici quando piove, e non in senso crepuscolare, come diceva una canzone dei Jesus & Mary Chain, ma proprio felici-felici. Perché l’arsura era insopportabile già da marzo, e perché abbiamo introiettato un certo senso di colpa climatico, come se le colpe dei padri, dei nonni, dei bisnonni e degli avi degli avi, dalla macchina a vapore in poi, ricadessero sulle nostre spalle. E poi, con la pioggia, ci si può almeno vestire in modo decente: altro importante elemento di disagio e dibattito da bar, in questa estate caldissima e lunghissima. Dal cappotto alla maglietta, senza passare da quelle dodici giacche da mezza stagione destinate a una reclusione putiniana nell’armadio, una boccata d’aria ogni tanto, e poi di nuovo un anno a riposare. Dureranno se non altro per sempre, passeranno e poi torneranno di moda come i cicli solari lunghi undici anni. È diventato pure difficile andarsene dalle città, perché non esiste più quella furbizia di andare ai laghi o al mare prima che scoppino le vacanze: ci si va appena possibile. La Liguria è invasa da Camogli a Sarzana ogni weekend da febbraio in poi (il Ponente non so, non frequento, ma immagino una situazione simile), i laghi anche, i cittadini hanno pure scoperto i fiumi, pur di lasciare i viali e i palazzi. Anche le città con vista sul mare sono invase: la spiaggetta di Boccadasse, a Genova, è diventata una specie di Ponte di Rialto per densità di instagrammatori, sembra una riproduzione dell’Italia in Miniatura, a vederla così piena. Anche gli odiatori dell’inverno, i fisici e le menti più evoluti per resistere a sudore e umidità, devono fare un passo indietro davanti all’estate semestrale. Non si può sopportare per centocinquanta giorni questa violenza costante. A Milano, gli alberelli dei piani di riforestazione urbana sono poco più alti di una persona, boccheggiano impotenti e smunti. Dove c’è il mare, l’acqua si scalda già a maggio come in una pozza poco profonda. Si guarda all’orizzonte con terrore, immaginando cieli color sabbia, scenari da Mad Max nei viali della circonvallazione, nuvole infuocate. Se non ci sono più le mezze stagioni, se la l’immaginario estivo è così mutato – altro che sahariane elegante da Finzi-Contini, semmai magliette iper traspiranti di multinazionali giapponesi, braghette corte, ahimè ciabatte – allora dovremmo trovare un altro nome a questa macro-stagione inevitabile, inespugnabile, in cui agonizzare. Estate ha un suono ancora troppo dolce, che ogni volta ci fa sperare possa andare meglio, possa tornare com’era stato. Non tornerà.

Davide Coppo

 

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Carnera, il gigante buono e la memoria cattiva…

La cittadina di Sequals, poco più di duemila abitanti nella provincia di Pordenone, è conosciuta in Italia e non solo perché ha dato i natali al mitico pugile e gigante Primo Carnera. E ora che avevano pensato di dedicargli lo stadio, il paese natale si divide in favorevoli e contrari, perché lui, il Gigante buono di Sequals, è stato un mito fascista.

Carnera era un povero friulano e diventò il simbolo dell’Italia fascista e la rappresentazione fisica della sua mania di grandezza. In Carnera l’Italia trovò un triplice riscatto: dei poveri emigrati italiani nel mondo, essendo anch’egli emigrato in Francia e poi famoso negli Stati Uniti; il riscatto del piccolo italiano, visto come rachitico, debole, vigliacco e di bassa statura, secondo uno stereotipo del tempo, rispetto ai giganti americani e agli atleti negri; e infine il riscatto della provincia profonda e contadina rispetto alle metropoli e alle città industriali. Ma Carnera incarnò soprattutto il mito del gigante buono, dell’uomo più forte del mondo ma anche tenero e generoso; l’eroe che porta in alto nel mondo il tricolore e l’orgoglio di essere italiani. Carnera era diventato da poco campione del mondo di pesi massimi, nel 1933, e i suoi detrattori al sud lo paragonavano in negativo a Garibaldi. “Sono tutti trucchi. Carnera ha vinto perché era d’accordo prima. E’ proprio una specie di Garibaldi. La storia non cambia. Sui vostri libri di storia vi insegnano un mucchio di frottole, la verità è un’altra”. E’ un passo di “Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi e la dice lunga sul mito di Carnera e le sue ombre, i suoi fan e u suoi detrattori, una specie di eroe dei due mondi in ambito sportivo. Un eroe che debordò dallo sport nel cinema, diventando attore in tredici film, ma anche nei fumetti e nella pubblicità. E un campione di virilità che celebrava il gallismo fascista. Carnera fu usato anche ironicamente, per contrasto: memorabile fu la sua accoppiata con il piccoletto Renato Rascel. Carnera era un modello fatto su misura per un regime che esaltava la virtù terapeutica e catartica dello sport e dei cazzotti, celebrati dal futurismo, come nel memorabile pugno di Boccioni realizzato da Balla, nel cui movimento si esprimeva plasticamente la Esse della storia in marcia. Del resto anche la propaganda per demolire il fascismo usò poi il penoso declino di Carnera per dimostrare, come il titolo di un famoso film degli anni 50 con Humphrey Bogart, che Carnera fosse “Un gigante d’argilla”, come l’Italia fascista. Il fascismo usò Carnera e poi lo accantonò quando diventò uno sconfitto; il duce lo esibì dal balcone di piazza Venezia ma non apparve al suo fianco, per non sembrare al suo cospetto un nano.  L’Italia fascista fu attraversata da miti sportivi largamente popolari e valorizzati dal regime: da Girardengo, che inaugurò l’epoca degli eroi a pedali, dalle trasvolate atlantiche di Balbo alle imprese automobilistiche di Tazio Nuvolari dalla Nazionale di Pozzo, Piola e Meazza alle dinastie calcistiche dei Ferraris e dei Caligaris, da Ondina Valla fino a Carnera.

La consacrazione di questi miti era negli Stati Uniti. Là, nel mondo nuovo, tra gli emigrati italiani, sotto i grattacieli, ogni successo di Balbo, Nuvolari o Carnera diventava non solo la celebrazione del primato italiano nel mondo; ma anche motivo di orgoglio per gli italiani emigrati, che finalmente non erano più visti come subalterni, affamati e camerieri, né come mafiosi, mariuoli e imbroglioni. Vedere il tricolore issato sui palchi americani e sui podi internazionali e l’inno nazionale suonato all’estero in segno di vittoria, erano un risarcimento morale e sentimentale con ricaduta sulla vita pratica degli italiani e sulla loro considerazione all’estero. Dovremmo ricordarlo in questi giorni olimpionici quando risuona l’inno di Mameli a ogni successo sportivo italiano. Diventare un Carnera divenne un modo di dire per indicare l’alta statura, la corporatura muscolosa, la forza fisica e la mascolinità. Fu anche un po’ fenomeno da baraccone, Carnera, come la donna cannone; ma vi era qualcosa di bonario nel gigante di Sequals, come ha mostrato poi la sua vita; un campione d’animo gentile, se si considera la sua filantropia e la sua passione per la lirica e per Dante. Perfino la sua bruttezza lo faceva apparire un Frankenstein del bene, un Eroe, un Gigante, un Superdotato dall’animo buono.  Le sue foto tra gentiluomini americani ben vestiti che gli arrivavano all’ombelico, e le sue grandi mani sulle loro spalle in un gesto di protezione indicava anche quanto fosse sovrastante la sua persona. Così diventò il simbolo della megalomania nazionale. Carnera in contrapposizione ai colletti bianchi e agli impiegati, rappresentava il culto del corpo, la forza esuberante e il tratto antiborghese che il fascismo accentuò negli anni trenta. Perfino il mito dell’ impero è la proiezione gigantesca del nazionalismo. Ma nella mania di grandezza l’Italia era accomunata nel mito moderno degli States, dove tutto è gigantesco, dai grattacieli alle vie, dalle auto ai marciapiedi, dalle vetrine agli spazi sconfinati. Il fascismo fu un regime con velleità macroscopica. Di quel sogno Carnera fu il testimonial vivente, in muscoli e statura.

I regimi passano, il mito di Carnera invece resta, con il riscatto degli italiani nel mondo e il suo primato sportivo. Che facciamo, cancelliamo le strade dedicate a Marconi, Pirandello, Mascagni e cento altri grandi perché furono fascisti? La solita, stupida storia. Carnera il gigante tra i pigmei astiosi del presente.

 Marcello Veneziani  

Sacra o no, la libertà di coscienza non è più così ovvia in questo mondo..

 

Un concetto dato per scontato e condiviso troppo in fretta. Mentre per Kant la libertà era ancora la ragione d’essere della vita morale, a noi sembra essere diventata quella dell’indifferenza.

Il concetto di libertà di coscienza sembrerebbe tra i più ovvi e condivisi. “In coscienza sento di doverti dire questo”, “In coscienza sento di dover fare quest’altro”, “In coscienza non so che cosa fare” sono tante espressioni di uso comune, nelle quali l’appello alla coscienza rappresenta una sorta di ultima istanza rispetto alla quale il nostro interlocutore può dissentire, cercare di farci cambiare idea, ma alla fine deve chinare il capo, a meno che non voglia farci violenza. Questa la sostanza della libertà di coscienza. Basta però grattare un poco la patina di scontata familiarità che ricopre tale concetto per rendersi conto dei problemi che nasconde e che lo fanno diventare addirittura una vera e propria sfida.  Il fatto, a esempio, che una scelta venga compiuta “in coscienza” non vuol dire che si tratti di una scelta giusta. In coscienza ci si può anche sbagliare. L’inferno, si dice, è lastricato di buone intenzioni. Esiste insomma un criterio del giusto che non risiede soltanto nella nostra coscienza. E tuttavia dobbiamo anche sottolineare che nessuna azione giusta può avvenire “contro coscienza”. Di qui la responsabilità, non saprei come dirlo altrimenti, che ciascuno di noi ha di “farsi una coscienza”, una coscienza alla quale rispondere, per essere una persona veramente autonoma, uscita dallo stato di minorità di cui parlava Kant.  Per molti versi è strano, ma almeno fino a una ventina d’anni fa i diversi dizionari filosofici e politologici in circolazione non contenevano nessuna voce dedicata alla “libertà di coscienza”. Eppure il concetto l’avrebbe senz’altro meritata, considerato che la posta che con esso viene messa in gioco è niente meno che il riconoscimento dell’inviolabile dignità della coscienza dell’uomo, quindi della sua libertà di essere e di agire secondo ciò che egli ritiene il proprio dovere. Come si legge al n. 16 della Gaudium et Spes, “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria”.  Non so se gli uomini d’oggi, nel sacrario della loro coscienza, si trovino veramente “soli con Dio” o non piuttosto in una sorta di abisso senza fondo; in ogni caso mi pare che il brano appena citato contenga in nuce il senso più impegnativo del problema di cui stiamo parlando. Se la coscienza è il “sacrario dell’uomo”, allora niente che violi questo sacrario può essere detto buono o giusto. Di passaggio vorrei richiamare come la fonte di tutti i nostri diritti sia da cercare in ultimo in questa riconosciuta “sacralità” della coscienza. È qui che si misura l’inviolabile dignità, l’irripetibile unicità, la trascendenza di ciascuno di noi, diciamo pure, la nostra irriducibilità alle condizioni biologiche o socio-culturali della nostra esistenza. Tuttavia da questa “sacralità” non possiamo affatto dedurre ciò che mi sembra stia diventando una sorta di luogo comune del nostro tempo, e cioè che si possa considerare buono o giusto tutto ciò che viene fatto o pensato “in coscienza”. La coscienza, infatti, per stare alla citazione di cui sopra, non soltanto può non sentire più la “voce” di Dio, ma, lasciata a se stessa, non abituata a coltivarsi, può anche ridursi a mero riflesso dei nostri istinti e dei nostri desideri. Altro che “norma suprema dell’agire morale” come avrebbe voluto Kant. Siamo liberi di scegliere soltanto se ammettiamo che ci siano princìpi che oggettivamente dovremmo scegliere, altrimenti la coscienza diventa il luogo dell’arbitrio, il piano in cui tutte le prese di posizione si equivalgono. L’idea stessa di norma morale implica non a caso un legame, una validità non soltanto per me, bensì universale, o quanto meno condivisa da una pluralità di uomini, da una comunità. Per questo è importante l’educazione, l’educazione a coltivare la propria coscienza e quella delle generazioni più giovani, a tenerne aperto il senso critico nei confronti di se stessi prima di tutto e poi anche degli altri. Ci piaccia o meno, ognuno di noi nasce in un determinato contesto socio-culturale, è figlio di un determinato tempo, deve fare i conti con i valori della comunità in cui nasce e vive: ecco l’elemento eteronomo con cui non possiamo non confrontarci in vista della nostra autonomia morale. Una libertà di coscienza declinata soggettivisticamente, a propulsione interna, come se gli altri non esistessero, è destinata allo scacco e alla solitudine. Come ebbe a dire Roger Scruton, “il diavolo ha un solo messaggio, che non c’è alcuna persona plurale… Promettendo di liberare l’io, il diavolo stabilisce un mondo nel quale niente se non l’io esiste”.

Per Kant la libertà era ancora la ratio essendi della vita morale; per noi sembra essere diventata la ratio essendi dell’indifferenza: posso scegliere in un modo, ma anche diversamente; non c’è alcun ideale di vita morale condiviso che mi guidi nelle scelte che faccio. La prima persona plurale “noi” sembra essere scomparsa dal vocabolario. Siamo ripiegati narcisisticamente sul nostro io. In questo modo la nostra coscienza svapora, sempre più impotente, oltretutto, di fronte alle molteplici forme di “noi” oppressivo sempre in agguato nella storia.

Sergio Belardinelli __da__IL FOGLIO

 

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Nessuno si scandalizza degli indù per Kamala, quando l’induismo è la religione più discriminatoria.

Nel tempio indù del paese avito della vicepresidente Usa si prega per la sua elezione alla presidenza. Nessun turbamento, perché a Hollywood, Bel Air, Beverly Hills non si perde tempo a studiare le caste, antico impasto di classismo e razzismo.

Non si guardi alla pagliuzza razzista nell’occhio di Donald, si guardi alla trave razzista nell’occhio di Kamala. Nel tempio indù del paese avito della vicepresidente Usa si prega per la sua elezione alla presidenza. Sono notizie che non turbano nessuno. Evidentemente nessuno sa che l’induismo è la religione più discriminatoria del pianeta, grazie al sistema delle caste, antico impasto di classismo e razzismo. Di sicuro non lo sa Beyoncé, kamaliana come quasi tutta la casta del pop. A Hollywood, Bel Air, Beverly Hills nessuno perde tempo a studiare le “Leggi di Manu”, feroce testo sacro indù: “Un bramino può costringere un sudra a compiere un lavoro servile perché è creato dal creatore per essere lo schiavo di un bramino” (libro VIII, verso 413). Chiaramente quella dei bramini è la prima casta, quella dei sudra l’ultima… In India le caste più alte sono più ricche e chiare (discendenti degli invasori ariani), le caste più basse sono più povere e scure (discendenti dei dravidi invasi). Poi ci sono i fuori casta, i più disgraziati di tutti: 250 milioni di paria che nelle zone rurali sono ancora intoccabili, vittime di una sorta di apartheid. Fosse davvero antirazzista Kamala Harris direbbe ai sacerdoti induisti di lasciar perdere, di non coinvolgerla nei loro riti, ma è una democratica, e i voti razzisti servono.

Camillo Langone__da__Il Foglio

 

Kamala

Impressionismo in rosa: le grandes dames che hanno immortalato Parigi…

 

“Ho avuto grandi maestri, da cui ho preso il meglio, ovvero i loro insegnamenti, i loro esempi. Ho trovato me stessa, ho creato me stessa e ho detto ciò che avevo da dire”.

Suzanne Valadon

Pittrici, modelle, compagne. Donne che hanno contribuito all’elaborazione di quel linguaggio pittorico che, a fine Ottocento, prese il nome di Impressionismo. Donne spesso sottovalutate dalla critica ma che, per passione, ebbero il coraggio di farsi strada tra lo scandalo dei benpensanti e in un mondo che, fino a quel momento, era rimasto appannaggio esclusivo degli uomini.

Le opere di queste donne entrano nelle case, indagano l’inesplorato universo femminile, il loro ruolo di madri, di mogli, di sorelle. Spesso vengono ritratte mentre vegliano una culla, mentre sono intente a cucire o a intonare melodie con un pianoforte, mentre passeggiano in compagnia di piccoli cagnolini o delle proprie creature, mentre cacciano farfalle in prati verdi oppure compiono i quotidiani gesti di fronte ad uno specchio. Si pettinano, si cospargono il volto di belletti, si spogliano con una sensualità delicata e mai volgare. Ma, chi sono queste pittrici donne? Tra i nomi più importanti vanno ricordati Suzanne Valadon, Marie Bracquemond e quelle che il giornalista e critico francese Gustave Geoffroy, definì “les trois grandes dames de l’Impressionnisme”: Berthe Morisot, Eva Gonzalès e Mary Cassatt.

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Berthe Morisot nacque a Bourges (Cher) nel 1841. Trasferitasi a Parisi nel 1852, cominciò a seguire insieme alle sorelle dei corsi di disegno. A tal proposito, riportiamo le parole non molto entusiastiche di Edouard Manet che, in una lettera indirizzata all’amico Latour, la descrive in questo modo: “La pittrice Berthe Morisot è deliziosa. Peccato che non sia un uomo! In ogni caso potrebbe, come donna, servire la causa dell’arte sposando un accademico: richiede moltissima devozione”. Manet, che a quanto pare pensava che le donne non avrebbero mai potuto fare altro, si sbagliava di grosso. Berthe, che non sposò un accademico ma il fratello di Manet (lo scrittore Eugène), divenne uno dei massimi esponenti del movimento e contribuì a rinnovare quella pittura fatta di luce, di colore e di scene prese a prestito dal quotidiano. la sua casa si trasformò in un luogo di ritrovo per musicisti, pittori e letterati, tra cui Sthéphane Mallarmé, Émile Zola e Pierre-Auguste Renoir. Le sue ricerche in ambito artistico furono interrotte solo dalla morte, sopraggiunta prematuramente nel 1895. Influenzata inizialmente da Corot, Berthe Morisot si avvicinò progressivamente allo stile impressionista grazie all’amicizia con Manet. Dipinse soprattutto figure femminili, bambini e scene familiari. Il suo tratto è sciolto, immediato, spontaneo. Adoperò soprattutto il colore bianco, ma la sua tavolozza fu ricca anche di colori vivaci e accesi e, per ottenere un effetto di luminosa trasparenza, usava spesso unire i colori a olio con gli acquerelli. I suoi personaggi sono indagati psicologicamente e prevale sempre un profondo scavo interiore. Traspaiono sentimenti come la malinconia, la dedizione, la pacatezza. Il letterato Gustave Geffroy 1855-1926 descrive così i suo dipinti: “Nei quadri di Mme Berthe Morisot le forme sono sempre vaghe, ma una strana vita le anima. L’artista ha trovato il modo di fissare sulla tela i riflessi cangianti e le luminescenze che compaiono sulle cose e nell’aria che le avvolge … il rosa, il verde pallido, la luce vagamente dorata, cantano con un’armonia indescrivibile. Nessuno ha mai rappresentato l’impressionismo con un talento più raffinato di questo e con un’autorevolezza maggiore di quella di Mme Morisot”.

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Eva Gonzalès era allieva e modella di Manet. bella, vivace, intraprendente, dotata di una sensibilità e di un talento straordinario da permetterle di affrontare tutti i trabocchetti tecnici tesi dalla pittura era figlia di Emmanuel Gonzalés, celebre romanziere spagnolo naturalizzato francese. Nata in Francia nel 1849, fin da piccola respirò il profumo dell’arte. La sua casa era infatti frequentata da giornalisti e intellettuali. La sua formazione artistica ebbe inizio, nel 1865, sotto la guida di Charles Chaplin, un ritrattista che teneva dei corsi di pittura per donne. Nel 1869, venne accolta nello studio parigino di Edouard Manet, dove, suscitando la gelosia di Berthe Morisot, divenne allieva e modella del grande pittore. Le sue opere si caratterizzano per le tinte fresche e diafane. Scelse di adottare le sottili morbidezze del pastello e le sue figure conservano un fascino d’altri tempi. Il giorno del funerale di Manet, morto all’età di 51 anni, a causa di un’atassia locomotoria, Eva era disperata. Non si sa se venne colta da qualche funesto presagio, mentre tra le lacrime, intrecciava una coroncina di fiori, da poggiare sul corpo senza vita del suo maestro. Si sa solo che, da li a meno di una settimana, lo raggiunse. Eva, morì, infatti, prematuramente ed inaspettatamente, nel 1883, a soli 34 anni, per un’embolia causata da un parto.

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L’americana Mary Cassatt nacque in Pennsylvania, da una famiglia benestante che considerava i viaggi come parte fondamentale della formazione. Trascorse dunque cinque anni in Europa, viaggiano tra Londra, Parigi e Berlino. I genitori, timorosi che la figlia potesse entrare in contatto con idee di tipo femminista, non appoggiarono mai la decisione di Mary di diventare pittrice. Nonostante ciò, la giovane si iscrive dapprima all’Academy of The Fine Arts, ma poi decide di proseguire gli studi da sola. Superando le obiezioni del padre, nel 1866 si trasferisce a Parigi, accompagnata dalla madre e da alcune amiche di famiglia. Per i primi mesi prese lezioni private dal celebre pittore accademico Jean-Léon Gerôme, per poi legarsi verso la fine dell’anno all’atelier di Charles Chaplin (contemporaneamente ad Eva Gonzalès) e, dal 1868, anche al circolo di Thomas Couture (tra le altre cose, primo insegnante di Manet circa quindici anni prima). In quello stesso anno, influenzata dall’arte di Courbet e Couture, la sua opera Un suonatore di mandolino (1868) fu accettata al Salon. Per il momento, Mary rimase indenne al crescente fervore del mondo artistico parigino per l’affiorare dell’Impressionismo ed insieme alla sua amica Elizabeth Jane Gardner, anch’essa promettente pittrice emergente, continuò a dipingere in modo assolutamente accademico, presentando con regolarità i suoi quadri al Salon. L’avvicinamento all’Impressionismo avvenne negli anni Settanta, grazie all’amicizia con Berthe Morisot e all’incontro con Edgar Degas. Cassatt ammira il maestro, i cui pastelli l’hanno profondamente colpita quando li ha visti nel 1875 nella vetrina di un gallerista. In seguito ricorderà: “Ero solita schiacciare il naso contro quella vetrina e assorbirne tutto quello che potevo della sua arte. Questo ha cambiato la mia vita. In quel momento ho visto l’arte come volevo che fosse”. Degas esercita una notevole influenza su Mary, che diventa molto abile nell’uso dei pastelli, finendo per realizzare molti dei suoi lavori più importanti con questa tecnica. Nonostante tali influenze, lo stile pittorico di Mary Cassatt subì diversi mutamenti. Nel 1910 compie un viaggio a Parigi e resta colpita dalla bellezza delle antichità. Colta da una crisi creativa, probabilmente a causa della stanchezza del viaggio, a proposito dell’arte egizia dirà: “Ho lottato contro di lei, ma mi ha conquistato, è senza dubbio la più grande forma d’arte che il passato ci abbia lasciato… come possono le mie deboli mani dipingere l’effetto che ha avuto su di me”. Morì nel 1926.

Laura Corchia__ Restaurars

Quando ci si sente vuoti…

 

“Mamma Norma, cosa faccio se sento un grande vuoto nel mio cuore?”

“Figlio mio, il vuoto non è un momento perso. Sentirsi vuoti è persino incoraggiante”

“È il segnale che all’improvviso ti dice quanto avevi bisogno di uno spazio per te stesso. È il momento in cui rispondi alla chiamata per mettere in ordine le tue cose e il tempo per cambiare”

“Sentire un vuoto nel cuore è come toccare il fondo, ma è solo una parte di un processo di autoguarigione. È per questo che non è un momento in cui si perde tempo, tutt’altro”

“In ogni caso, come parte di ogni altro processo della vita, il fatto di “sentirsi vuoti” si presenta fino a un certo periodo di tempo, cioè alla fine è solo un’esperienza temporanea”

“Questa è l’altra faccia della medaglia. Sentirsi male, sopraffatti, in conflitto con i propri sentimenti, con ciò che abbiamo e con ciò che sta arrivando. Non ti fa venire voglia di fare niente e perdi un po’ il gusto per certe cose semplici della vita. Questa sensazione angustia l’anima, la rimpicciolisce, la affligge e questo si sente anche nel petto e nella pancia. Tutto questo è ascoltare il corpo e stare con se stessi nel silenzio. Questo messaggio ci dice quanto abbiamo bisogno di tornare a noi stessi, quanto dobbiamo riconoscere le nostre forze e anche scaricare gli eccessi. In fondo, è una chiamata alla nostra stessa anima”

“Figlio mio, niente aiuta meglio che uscire all’aria aperta, meglio se sei solo. Prova a camminare su un sentiero che porta a un bosco, o un sentiero che costeggia una montagna o un lago. Noterai che la mente si schiarisce man mano che ti assimili gli odori e il calore solare tipici della terra di montagna. Madre Terra è una grande alleata e sembra addirittura ascoltare senza giudicare tutti i tuoi pensieri”

“Cammina quanto ti serve, riposati quando il tuo corpo te lo chiede. Respira l’aria umida della terra o la brezza di una cascata. Siediti e rifletti finché non senti di aver identificato come sei arrivato a questo momento. Quindi medita e cerca di svuotare la mente fino quasi al punto di assoluto relax”

“Sentire il vuoto nel cuore è grave quando la circostanza non viene affrontata in tempo. È una crepa che deve essere sanata con parole dolci, con il tempo di attesa, con pazienza, con il contatto con le altre forze alleate. Il vuoto è più intenso quando risucchia energia sana come se fosse un buco nero che digerisce tutto senza riciclare nulla”

“Figlio mio, approfitta del vuoto che senti per svuotare ancora di più la tua stessa vita, cioè per purificarti, disintossicarti dal mondo, dalle relazioni, dagli eccessi e dai rumori interiori. È tempo di ascoltarti. Per arrendersi al proprio spazio sacro, è tempo di riconoscere quanto dipendiamo dall’apprezzamento e dall’approvazione degli altri, è tempo di liberarsi e affermare quanto meritiamo di essere autonomi”

“Poi, torna alla civiltà e al comfort solo dopo aver compreso il messaggio. Quando torni, benedici e sii grato per ogni esperienza vissuta. Potresti sentirti ancora vuoto nel tuo cuore, ma la prospettiva della soluzione ora sarà diversa e ancora più ampia”

“È giunto il momento di riempire gli spazi vuoti di dolce energia, di acqua cristallina, di profumo di fiori, di canto degli uccelli, di fruscio di foglie cadute, di profumo di terra umida. Ma soprattutto di pensieri ottimisti, con nuovi impegni, con animi carichi del proprio respiro, la cui propria anima è ascoltata e curata”

Arnaldo Quispe –

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La vita gratis…

 

I ricordi dormono accanto a noi. A volte è bello svegliarli e svegliarsi con loro. Si apre un mondo che credevi di non conoscere, invece ci vivevi dentro, e allora ti appariva naturale, come l’acqua che scorre e l’aria che respiri. La nostalgia non è una malattia ma un dono, la sua malinconia è un guscio che protegge un frutto gioioso.
Ci vorrebbe davvero una clinica dei ricordi, come scrive Georgi Gosdopinov nel suo romanzo Cronorifugio, dove la gente va a riprendersi i ricordi smarriti nel tempo o nella testa delle persone. Se dovessi scegliere il decennio preferito in cui rivivere, come succede ai popoli nel romanzo di Gosdopinov, sceglierei senza esitazioni il primo che vissi. Perché il più antico, il più lontano vissuto, il più diverso da oggi, avvolto nel mitico alone dell’infanzia quando non sai dove finisce la realtà e dove comincia la favola, tramite la fantasia. Risale a un’epoca primitiva, ancora senza tv ed elettrodomestici, usati da poco e da pochi pionieri. La chiave per aprire quel cassetto favoloso, oltre l’incanto della vita vista con gli occhi magici dell’infanzia – la scoperta primigenia delle cose, il fascino della prima volta di tutto, il piacere di scoprirsi al mondo e di conquistare ogni giorno un pezzo di vita e di conoscenza – è l’apriti sesamo di quel tempo magico, quel luogo, quel mondo che non c’è più: la vita gratis.
È la vita a portata di mano, all’aperto, senza prezzo e senza pretese, semplice e generosa, gratuita, dove tutto è accessibile a tutti: il ristoro delle fontane, il riposo delle panchine, il giardino pubblico, i frutti appesi agli alberi, i carrubi offerti dai rami ai viandanti, il ruscello in cui ti lavi e lavi i tuoi panni, i giochi fatti con ciò che hai a disposizione, senza arnesi, più la fantasia di un regola o di un oggetto che facilmente costruisci con le tue mani; e poi il mare libero, come i boschi e la campagna. Hai sete? Non vai al bar ma bevi alla fontana, e anche a casa non compri l’acqua minerale ma attingi dalle pompe e dai ruscelli. Le fontane d’estate erano ritrovi affollati, gente che beve, che riempie brocche, che si lava i piedi, dove ai bambini si dà fretta nei loro trastulli d’acqua per far bere gli adulti. Hai fame per uno spuntino? Stacchi un frutto dall’albero e lo mangi; finché è un frutto puoi anche staccarlo da un albero che appartiene a qualcuno, non lo stai saccheggiando, non è un peccato. Anzi, lo sarebbe il contrario, non dare da bere agli assetati e da mangiare agli affamati, come ci insegnavano. Vuoi riposarti? Non c’è bisogno di ordinare qualcosa a un tavolo, ti siedi alla panchina, come ancora fanno, soprattutto i vecchi al paese e aspetti, aspetti che passi il tempo, il caldo, la stanchezza. Da vecchi, il tempo è lungo e la vita è breve; il contrario dei giovani, a cui le ore corrono in fretta ma gli anni davanti sono tanti.
Vuoi farti un bagno? Niente stabilimento balneare, con lettini e ombrelloni, niente cabine, pedalò o gommoni, ma spiaggia libera con bagno libero, a volte senza costume o con le mutande di casa; e se hai caldo ti rituffi o trovi l’ombra di una grotta, la cavità di uno scoglio, o un albero vicino a riva. Tutto appare più semplice. E al mare corpi magri, non obesi né sottoposti a dieta, non rifatti, ritoccati, siliconati, palestrati, senza tatuaggi, creme, lampade, telefonini. Poi si passa la sera con lo struscio, il piacere è l’incontro, lo scambio di parole, la battuta. Basta poco per vivere. Gratis.
I bambini che giocano con niente tra strade e spiazzi, il massimo è rimediare un pallone. Il resto solo giochi di fantasia: la campana, i quattro angoli, nascondino, mago o libero, la piramide, il ciuccio, fiori e frutti, più mimica e indovinelli; giochi d’inventiva e abilità che non prevedono attrezzi.
Questa era la vita gratis, in uso soprattutto nella provincia, in particolare a sud, ma in fondo tutto il mondo è paese. E non era un secolo fa. Si poteva vivere senza soldi e senza limiti d’accesso, con poche pretese. Si campava d’aria, di terra, d’acqua, d’amicizia, espedienti e fantasia. Poi, è vero, c’erano i benestanti e i bisognosi, le proprietà private, i muri di recinzione, i privilegi, l’abbondanza e la penuria, le criature scalze; i mendicanti erano del posto.
La vita gratis era un mondo che sembrava fresco di creazione, appena sfornato da Madre Natura o dal Padreterno; ancora giovane, un po’ bambino, ingenuo nei suoi piccoli desideri, facili d’appagare.
Era bella la vita gratis, e lo dici con un sospiro, ma chissà se lo pensi davvero. Era una vita povera, ancora cruda, difficile nella sua facilità, aspra nella sua dolcezza; una vita che non riusciremmo più a vivere, perché abbiamo bisogno di troppe cose che prima non avevamo e perciò erano allora superflue; ma ora non sappiamo farne a meno. La nostalgia è dolceamara perché sai che quel mondo non può tornare e non ha senso affannarsi a restaurarlo. Tutta la sua poesia, la sua bellezza, è in quella irrimediabile lontananza; l’incanto di una perdita che non si recupera. Non si torna bambini, tuttavia è bello ritrovare lo spirito e lo stupore delle origini, pur sapendo che il tempo è passato ed è impossibile retrocedere. Ma il tempo, lo dice pure Gosdopinov, sembra rettilineo invece è circolare; alle curve rallenta, ci sono i tornanti. E la vita perfetta sa ricongiungere la fine all’inizio. In fondo, gratis vuol dire per grazia, e il proverbio antico aggiungeva et amore dei. La vita gratis, la grazia di essere al mondo…

 Marcello Veneziani

 Grazie a  Marcello Veneziani,scrittore, giornalista, filosofo, che seguo da tantissimi anni. Leggerla per me è , fin dalla prima volta, pane quotidiano, che nutre il mio spirito, la mia mente. I suoi scritti mi fanno una meravigliosa compagnia, grazie infinite per ogni sua parola, in cui spessissimo mi ritrovo,e sono felice che molte persone visitino questo mio blog, dove da tempo ho preso abitudine di condividere quanto di suo  mi piace avere a portata di rilettura.. Ancora grazie di cuore e tutta la mia stima. GSB

L’anticonformismo dei vecchi ,e il cambio della guardia del punk italiano…

Si pensa che la contestazione sia un fenomeno giovanile, ma contro il confinamento ci sono rimaste la canzoni di Van Morrison e Eric Clapton: altro che Sfera Ebbasta e Achille Lauro.

morris

La pandemia ha dimostrato che gli italiani se ne fregano di chiese e musei  .Ci salveranno i vecchi leoni? Van Morrison, classe 1945, ha scritto alcune canzoni contro il confinamento: una l’ha cantata lui e si intitola appunto “No more lockdown”, un’altra, “Stand and deliver”, l’ha suonata e cantata Eric Clapton, sempre classe 1945. Chi gliel’ha fatto fare? Credo sapessero che sarebbero stati sommersi dalle critiche, com’è puntualmente avvenuto. Si noti che i due dissidenti rappresentano il gotha musicale del Regno Unito, e non solo musicale (Morrison è Sir). Fra i nostri veterani, canzoni del genere oggi chi potrebbe cantarle? Gianni Morandi? Al Bano? Non scherziamo. Forse i giovani? Comunemente si pensa che anticonformismo e contestazione siano fenomeni giovanili… Analizziamoli, questi giovani. Sfera Ebbasta,  canta: “Ho cambiato un’altra tipa mentre pensavo a te, eh, eh”. Mentre nel nuovo video di Achille Lauro si può sentire: “Questa tipa va alla grande, ma ama il glande”. No, costoro non mi sembrano interessati ai princìpi giuridici come invece Eric Clapton (“Magna Carta, Bill of Rights / The Constitution, what’s it worth?”). Non ci resta che Enrico Ruggeri.

ruggeri

Cambio della guardia per quanto riguarda il punk italiano, o il rock italiano, o come vogliamo chiamarlo. Giovanni Lindo Ferretti ha fatto salire Andrea Scanzi sul palco dei suoi concerti e io l’ho messo in pausa. Enrico Ruggeri ha pubblicato “40 vite (senza fermarmi mai)” (La nave di Teseo) e io ho ricominciato ad ascoltare i Decibel. Di Ruggeri ammiro innanzitutto la coerenza: dal ventenne bowiano al sessantenne dannunziano (cercatevi “Il volo su Vienna”, video girato giustamente al Vittoriale) c’è la costante dell’ammirazione dell’eroismo. In chiave più estetica che bellica, direi. Poi com’è noto il cantautore milanese scrisse “Il mare d’inverno” che non era punk, che non era rock, che era molto di più: un nuovo sguardo. Per la mia visione dell’Adriatico, che è il mare di entrambi, decisivo quanto le fotografie di Luigi Ghirri. Tornando al repertorio dei Decibel ho scoperto, meglio tardi che mai, intrecciarsi al filone eroico un filone esplicitamente aristocratico. Bastino i titoli: “Contessa”, “Lettere dal Duca” e “Vivo da re”, capolavoro imperituro e programma esistenziale di noi rocker monarchici. Viva il re, viva Ruggeri!

Camillo Langone__da__IL FOGLIO

La staffetta…

Prendetela per un’insolazione estiva, un delirio d’agosto, la ricerca di una zona d’ombra in tanto sole. Ma se sono veri alcuni indizi, alcuni retroscena, alcuni segnali degli ultimi giorni, il Quartier Generale sta confezionando un pacco per Giorgia Meloni e il suo governo. Intendo per Quartier Generale il potere sovrastante ai governi nazionali, quello che decide in ultima istanza e corregge, laddove è possibile, gli esiti elettorali e l’agire politico. È un potere che genericamente definiamo tecnocratico o meglio buro-tecnocratico  ma di fatto cammina su due zampe: quella economico-finanziaria e quella militare, che con qualche approssimazione possiamo ricondurre al Mercato, tramite la Banca Centrale Europea, e all’apparato militare della Nato e al Patto Atlantico. La rete dei poteri intermedi e sovranazionali, dei mediatori e dei funzionari è vasta sicché non è chiara la catena di comando.

Se abbiamo ben compreso, il pacco prevede qualcosa come una staffetta a Palazzo Chigi. Si, staffetta è il termine giusto e non solo perché siamo in tempi d’Olimpiadi. Chi corre nella staffetta non può andarsene per conto suo, deve seguire il percorso prestabilito e consegnare il testimone al successore. Dopo una crisi, sul tipo di quelle provocate dalle spread, già accadute in Italia e altrove, ci sarebbe un cambio della guardia a Palazzo Chigi. Esce Meloni entra Schlein, con larghe alleanze e ampi sostegni, regia politica di Matteo Renzi nel ruolo ormai consolidato di malefico scazzamuriello; ma regia transpolitica di Autori Vari del Quartier Generale, più concorso esterno di collaudate figure jolly e faccendieri nostrani. Pressioni in questo senso raggiungerebbero pure Forza Italia e il mite Tajani. Ignara precorritrice di questa politica trans è la ricca ereditiera Francesca Pascale che ha dichiarato di sognare un governo berlusconiani-dem a guida Schlein, in modo da sistemare non certo l’Italia ma almeno la sua biografia…

Un tassello utile sarà la battaglia sulle tre regioni in cui si vota – Liguria, Emilia-Romagna e Umbria – per dare la parvenza di un vento elettorale cambiato a favore della sinistra.
Sulla caduta della Meloni dopo le Europee e comunque nel corso del terzo anno di governo, scommette dall’inizio Renzi; di recente anche Cacciari in un’intervista al Corriere della sera si è sbilanciato in questo senso, dicendo che bastano due pomeriggi ai mercati per rovesciare con un golpetto finanziario (diciamo noi) il governo in carica. Convinzione condivisa anche al governo, da cui la prudenza.
Qual è la ratio della svolta? Si potrebbe dire che nonostante le numerose prove di lealtà e di adesione al Quartier Generale, sussistono sulla Meloni riserve, accresciute dal mancato sostegno all’elezione di Ursula Von Der Leyen, lo scontro per il controllo del comando Nato nel sud Europa, le visite a Roma da Mattarella e i vertici parigini appena la Meloni è volata a Pechino; la sua amicizia malvista con Marine Le Pen e con Orbàn, i suoi tentativi di una politica estera relativamente autonoma, da ultimo con il viaggio in Cina. E sopratutto il timore che l’Italia meloniana-salviniana possa diventare domani la sponda euro-mediterranea di Trump, bestia nera dell’Establishment.
In realtà, dietro le ragioni contingenti c’è un nodo strutturale: i governi nazionali, quando non possono essere affidati direttamente al personale della Casa – tecnici, maggiordomi o affini – devono allinearsi nelle scelte di fondo, e non possono pretendere di sottrarsi ai cicli sempre più brevi di durata loro consentita, per evitare che con la permanenza lunga al governo azzardino una parvenza di sovranità nazionale, politica e popolare e di autonomia decisionale. Il ciclo previsto da tempo non supera il triennio. Fatti questo mezzo giro ma poi devi riportare la staffetta qui. Brevi governi di passaggio, in modo che ben si comprenda quali sono i poteri veri e permanenti e quelli fittizi e transitori, e ben si rispecchino gli interessi forti (economici, finanziari, militari, geo-strategici) rispetto a quelli labili collegati al consenso, gli umori, le retoriche identitarie.
I cicli della politica dopo Berlusconi, sono stati sempre più corti, nessuno è durato più di un triennio, inclusi Renzi e Conte nel suo duplice format, e alla fine anche Draghi. Il triennio sembra essere ormai la curva fisiologia della leadership politica, anziché il quinquennio canonico delle legislature. Abbiamo presidenti della repubblica che diventano monarchi a cui si concede il bis dei già lunghi settennati, e poi abbiamo presidenti del consiglio che scadono precocemente, per consentire il turn over e impedire che mettano radici e passino da esecutori a decisori. Tutti transitori…
Da qualche tempo, dopo un anno di prove, scetticismo e incredulità, è in corso una specie di investitura politico-mediatica di Elly Schlein. Lo si capisce da troppi indizi; è trattata da prossima premier, le hanno dato il numeretto e aspetta il turno. La politica ci ha abituato a ricambi repentini e a giri completi di turnazione: antipolitici e politici, tecnici e grillini, sinistre e destre, non avendo il centro una consistenza elettorale che permette di governare da solo. In questo modo tutti sono provvisori, sostituibili e complementari. Così ora si prepara il turno della Schlein, e ci sono già le tifoserie mobilitate, i marchettifici pronti a narrare il cammino dell’astro nascente, riconoscerle uno spessore politico prima negato e lanciare la svolta. Ma è ben chiaro che eccettuata la fuffa, che riassunsi sin dall’inizio in “gay, migranti e bella ciao”, la politica richiesta alla Schlein non è né più né meno di quella che si pretende dalla Meloni: in politica estera, nelle alleanze, nelle scelte economiche, civili e militari. La stessa di Draghi, e di Conte. La fuffa serve per sceneggiare il cambiamento, ma la sostanza resterebbe la stessa, anzi i dem sono più omogenei al Quartier Generale e ai suoi paraggi, e in più non sono sovranisti ma sottanisti, cioè reputano l’Italia un inquilino subalterno del Palazzo euroglobale. La loro speranza è che arrivi la Harris, Amala col K, alla Casa Bianca. Ma se arriva Trump, si complicano le cose.
Intanto la prospettiva serve per minacciare la Meloni e farla rientrare nei ranghi; e dare più spazio di manovra a Tajani e ai centristi rispetto a Salvini (nel frattempo Crosetto è sull’attenti, in tuta mimetica, pronto per la guerra). L’Italia si attrezza di nuovo a portaerei della Nato in vista di imprese belliche e il Mediterraneo si conferma acqua di colonia.

Marcello Veneziani