Francesco Vezzoli, parassita della storia dell’arte…

 

Mette il faccione di Kim Kardashian al posto del volto della Madonna, appiccica lacrime, si accanisce con tatuaggio e trucco. Il vandalismo iconografico dell’artista bresciano, in quello strazio che è “Musei delle lacrime”, al Museo Correr di Venezia
Francesco Vezzoli rielabora il mito di Leonor Fini.

Francesco Vezzoli fa piangere la Madonna, in una mostra che fa pietà. In quello strazio che è “Musei delle lacrime”, al Museo Correr di Venezia fino al 24 novembre, l’artista bresciano fa del vandalismo iconografico. Prende l’Annunciata di Antonello da Messina, la riproduce con una stampante, al posto del suo volto purissimo mette il faccione plastificato di Kim Kardashian, ed ecco l’infamia su tela. Prende una Madonna col Bambino di Giovanni Bellini, appiccica lacrime a entrambi e sulla Madre si accanisce con tatuaggio e trucco: empio pasticcio. Non faccio un terzo esempio perché mi manca il cuore ma ce n’è tanto di questo bricolage blasfemo, narcisista e puerile, nella mostra del Correr che è museo civico eppure il sindaco di cosiddetta destra ha sorriso e approvato (e il Patriarca dov’è? A preoccuparsi per il premierato?). Malignamente Vezzoli si dice “interessato al sacro ma non alla religione” ovvero è interessato al sacro per dissacrarlo, consumarlo. L’ennesimo parassita della storia dell’arte, uno dei tanti saprofiti del cristianesimo… Chi al Museo Correr non sente puzza di decomposizione è morto pure lui.

Camillo Langone __da__IL FOGLIO

 

museo carrer

Per un’arte disobbediente e disimpegnata..

Le installazioni ideologiche alla Biennale di Venezia richiamano un saggio di Dave Hickey sulla sorvglianza. L’augurio è che si vada nella direzione opposta a quella tracciata

“Figli obbedienti del panopticon, così devoti alla causa dell’impegno, della sorveglianza”. E’ la definizione che degli artisti suoi contemporanei forniva Dave Hickey, critico d’arte americano antiaccademico, antidottrinario, anticensura, in un libro del 1993 ora tradotto da Johan & Levi: “Il drago invisibile. Quattro saggi sulla bellezza”. Oggi è tal quale. “Figli obbedienti alla causa dell’impegno” gli innumerevoli artisti che, ovinamente filopalestinesi, a fine maggio pubblicarono sui social “All eyes on Rafah”. “Devoti alla causa dell’impegno” i non pochi artisti che nell’antioccidentale Biennale di Venezia (fino al 24.11) timbrano il cartellino ideologico con installazioni, bandiere, video, ricami, angurie e scritte “Cuori uniti contro il genocidio”. Sogno pertanto la bellezza lodata da Hickey, sogno artisti disobbedienti e disimpegnati, sogno quadri non virtuosi, viziosi, con donne senza velo e senza veli, liberamente, impoliticamente nude.

Camillo Langone__da IL FOGLIO

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Il segreto antico del miracolo italiano

Il vero miracolo italiano non è il boom economico tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta del secolo scorso, l’epoca dei boomers e dello sviluppo straordinario di un Paese passato da agricolo e premoderno a industriale e avanzato; invaso dalle fiat e dai frigoriferi, dell’immigrazione a Torino, Milano e Roma, pervaso dalla fiducia e della dolce vita. Il miracolo italiano, quello che rende ancora oggi questo paese unico al mondo e meta universale di turisti, visitatori e pellegrini, è nato alcuni secoli prima. È quando l’arte incontrò il pensiero e la religione e nacque quell’irripetibile miracolo che la rese patria mondiale della bellezza, dell’arte, del genio e della fantasia.
In principio fu Platone che ebbe secoli dopo il suo transito terreno, due figli: Plotino, nato sulle sponde del Nilo forse da famiglia romana e Agostino, nato a Tagaste, in Algeria. Due emigrati d’eccezione. Plotino fondò la scuola platonica a Roma, portando la sapienza greca e orientale nel cuore dell’impero e poi della cristianità. Agostino, il berbero, il fenicio, venuto a Milano, tradusse Platone nel cristianesimo e congiunse la filosofia antica alla teologia cristiana.
Non capiremmo Dante, il padre della civiltà italiana e universale, senza quei presupposti. Platone sbarcò a Firenze nel quattrocento. Ad annunciarlo fu un singolare filosofo bizantino, Giorgio Gemisto detto Pletone, per assonanza col Maestro; ma poi a rendere Platone di casa a Firenze fu un singolare pensatore, teologo, astrologo e traduttore: Marsilio Ficino, nativo di Figline Valdarno (dove l’ho ricordato ieri sera in un incontro) che ebbe in dono da Cosimo de’Medici un palazzo a Careggi, dove rifondò l’Accademia platonica, divenuta Accademia fiorentina. La frequentavano Poliziano, Pico della Mirandola, gli stessi Cosimo e Lorenzo de’Medici e molte eccellenze del suo tempo.
Ficino tradusse, tra l’altro, il corpus platonico, le Enneadi di Plotino, le opere dei neoplatonici e il de Monarchia di Dante in lingua “italiana”. Definì Dante in modo perfetto: “per patria celeste, per abitatione florentino, di stirpe angelico, in professione philosopho poeticho”. Ficino dette una base di pensiero, una teoria, a quella fioritura eccezionale di artisti che tradussero i miti dell’antichità e la storia sacra del cristianesimo in figure, memorabili affreschi e pale d’altare. Botticelli, Tiziano, Raffaello, Tintoretto, Piero della Francesca, e poi Michelangelo e Leonardo, solo per citare i nomi universalmente noti. La religione si fece narrazione figurativa, attraverso capolavori che furono la traduzione della fede in bellezza: la Pietà, il giudizio universale, l’Ultima cena, solo per citarne alcuni. Ma anche la magia, la tradizione ermetica, il mondo degli dei, la scuola di Atene. Il pensiero mescolato alla teologia si fece pittura. E da quell’incrocio creativo di mito, pensiero e religione, o  – se preferite – di grecità, romanità e cristianesimo, nacque il miracolo italiano. In quel tempo fu soprattutto miracolo fiorentino, i mecenati, oggi diremmo gli sponsor, i committenti furono i papi e i signori del tempo. Di quel miracolo, Marsilio Ficino fu il crocevia nel Quattrocento: nato nel 33, vissuto 66 anni, morto nel 99: chi crede alla simbologia numerica forse darà un senso a quelle date ternarie.
Marsilio Ficino era figlio del medico dei Medici, non è un bisticcio; fin da ragazzo fu apprezzato dai signori di Firenze come una mente illuminata. Era un po’ gobbo, bleso, aveva un’indole malinconica, comune a molti spiriti magni; suonava inni orfici col liuto, componeva canti astrologici, studiava la magia, simpatizzò per Savonarola. Per lui l’amore era amaro; l’amore non corrisposto, diceva, era una morte in vita; e probabilmente c’era qualcosa della sua vita in quel pensiero.
A lui si deve la rinascita di Platone in Italia e della tradizione che parte da lui. Le sue due maggiori opere, il de Amore e la Theologia Platonica, esordiscono con la parola chiave: Plato, il suo ispiratore. Non è un pensatore originale, Marsilio Ficino, ma non vuole esserlo, come non volle esserlo Plotino, che si schernì dicendo che aveva solo ripreso le fonti della sapienza, aveva rianimato il pensiero di Platone e del suo magnifico allievo, Aristotele: “Le nostre teorie non sono nuove né di oggi”, vengono da molto lontano. Per loro era più importante la Tradizione che essi rappresentavano, piuttosto che l’originalità di un ingegno solitario. E corale fu il miracolo italiano, il frutto irripetibile e prodigioso di un clima, di un pensiero che s’incarnava in pittura, poesia, bellezza.
Ma lo scopo non era estetico, rivolto solo al piacere del bello; perché la bellezza, come l’amore, era un modo per elevarsi a Dio, per avvicinarsi alla Bellezza divina, di cui era un riflesso e un presagio. L’amore era per Ficino un’ascesa al cielo, in un percorso di purificazione, sublimazione e spiritualizzazione dell’eros. Dio crea la mente angelica, poi l’anima e infine il corpo dell’universo.
La forza segreta di quel miracolo era nella fusione di espressioni e ambiti che noi oggi immaginiamo separati: la pittura, l’architettura, in generale l’arte; la meditazione filosofica, i saperi magici, la scienza; la fede e la visione di Dio. Anche i corpi erano presagio e annuncio di una vita spirituale.
Marsilio Ficino è considerato il padre della psicologia. Ma quel padre era figlio al tempo stesso delle forme e degli archetipi platonici, di Plotino e di Sant’Agostino, del paganesimo e del cristianesimo, e della fede unita alla magia attraverso i misteri. Prese tante direzioni il pensiero rinascimentale, e anche l’arte; col tempo si fece scienza, in alcuni casi divinizzazione (si pensi a Pico) dell’uomo al centro dell’universo.
Ma con Marsilio Ficino quel mondo, quella gerarchia di esseri e di beni, per citare San Tommaso, era ancora coesa, unita, non si pensava separata.
Cos’è l’anima per Ficino? E’ copula mundi, come lui la definisce, unifica l’universo, si fa anima mundi e lega tutte le cose, visibili e invisibili. Non capiremmo la psicanalisi di Jung senza il platonico Marsilio; un famoso allievo di Jung, James Hillman, riconobbe il debito verso il fiorentino e verso quella linea platonica, che passa da Plotino e giunge fino a Vico. E come in Vico è fondamentale in Marsilio l’immaginazione, la fantasia creatrice. Anche Marsilio vede i dodici Dei come archetipi della psicologia; gli dei perduti, per Jung sono diventate malattie dell’anima.  Perché ricorrere alla psicanalisi moderna e nordeuropea, dice Hillman a noi italiani e mediterranei, quando avete la tradizione originaria in casa, le fonti di una “psicologia straordinaria”. Occorrerebbe, dice, rifarsi alla “controeducazione” di Marsilio Ficino.
Insomma, quello fu il vero miracolo italiano che ha sparso nella penisola città d’arte, cattedrali, luoghi mirabili e capolavori. Ogni tanto ricordiamoci su quali tesori siamo seduti, e ripensiamo alle fonti artistiche e fantastiche, filosofiche e teologiche, di quel miracolo.

Marcello Veneziani                                                                                                             

M.G.Benoist, “Ritratto di una donna nera”: la storia di due donne.

Se fosse stato dipinto oggi e messo in mostra in questi nostri tempi, in cui il contesto storico ha ridimensionato il pensiero e il sentire comune, integrando nelle nostre vite la gente di colore, e tutte le persone considerate anormali, nessuno ricorderebbe la sua esistenza e lo scalpore che fece a quei tempi. Oggi si può ammirare al Louvre e capita ancora di imbattersi in qualche rivista, magari non attualissima, che ne racconta la storia.

M.G.Benoist, “Ritratto di una donna nera”: la storia di due donne

Parigi,primavera del 1800, grande eccitazione per l’edizione annuale del Salon, l’esposizione ufficiale di belle arti. E’ la prima, da quando Napoleone Bonaparte ha iniziato, con la nomina a Console, la sua irresistibile ascesa politica. Mai come questa volta, le sale sono affollate: raffinati gentiluomini e signore alla moda, si fermano perplessi davanti a un dipinto. Nell’aria c’è odore di scandalo. Dopo la Rivoluzione, anche le donne sono state ammesse a esporre. Ed è proprio una pittrice, Marie-Guillemine Benoist (1768-1826), a presentare il quadro che ha fatto scalpore. Perchè il dipinto, di cui si parla tanto, è questo:

negresse Benoist

Una giovane donna, vista di tre quarti, è seduta su una sedia “a medaglione”, vestita da un tessuto blu, riccamente drappeggiato, in una posa riservata ai ritratti delle dame dell’alta società, come la tunica alla moda stretta in vita da una sottile cintura rossa. Lo sfondo è spoglio, il tono austero, la presenza di accessori ridotta al minimo, come nei ritratti alla moda di Jacques-Louis David, il pittore più celebre del tempo. Ciò che sconvolge è il fatto che la donna è nera e per la prima volta rappresentata come una dama e  non in uno stato servile, l’unico concesso per inserire i neri nei dipinti. È vero che, nel Salon di due anni prima, il ritratto di un nero aveva riscosso gran successo, ma lì si trattava di un noto deputato della Convenzione, il primo proveniente da Santo Domingo. Qui è diverso: una donna nera qualsiasi e, in più, raffigurata come fosse una signora. Inaccettabile. I più colti e tradizionalisti rimproverano alla pittrice di aver scelto un soggetto che contravviene alle più elementari regole accademiche.
“Le sujet noir et la couleur noire est un exercice rebelle a l’art de la peinture, Il soggetto nero e il colore nero è un esercizio contrario all’arte della pittura”: citano a memoria. E lei, invece, evidenza proprio il colore della pelle, giocando sul contrasto tra il nero e il bianco immacolato della veste.
E, poi, ha scelto come titolo “Portait d’une negresse, ritratto di una negra”
Anche se allora, lontano dai tempi del “politicamente corretto”, il termine “negresse, negra ” non aveva alcun senso peggiorativo, comunque ribadiva l’anonimato della modella e il connotato razziale.

Invece, per la pittrice, la giovane non era una sconosciuta , pare fosse una domestica al servizio della famiglia, portata in Francia dalla Guadalupe.
Una domestica, però, non una schiava. La schiavitù era stata abolita, appena sei anni prima, con una legge a lungo contestata dai proprietari delle piantagioni dei territori oltremare, convinti di non sopravvivere senza manodopera a costo zero. La tratta di schiavi dall’Africa era stata tacitamente mantenuta: i neri erano considerati, comunque, degli esseri inferiori. Nel dipinto, no. L’ex schiava è raffigurata con dignità, sensibilità e attenzione ai sentimenti: nel volto una malinconica rassegnazione e la vulnerabilità di chi è costretto a vivere in un mondo estraneo.
Non si pensava nemmeno che una pittrice potesse fare critica sociale. Eppure ha inserito un’ allusione alla legge contro la schiavitù nel copricapo, che ricorda, sia l’acconciatura tipica delle donne antillane che il berretto frigio dei rivoluzionari. E poi i colori, bianco, rosso e blu, sono quelli della bandiera della Francia, il paese che, almeno nominalmente, ha portato la libertà. Non basta: i visitatori appassionati di pittura non possono non cogliere un altro elemento.  Il seno nudo non ha niente di malizioso, anzi. Insieme alla posizione delle mani e allo sguardo diretto verso lo spettatore, è un riferimento preciso a un dipinto celeberrimo: la “Fornarina” di Raffaello. Una domestica, una ex schiava nera, nobilitata dal richiamo a una tradizione pittorica illustre. Ce ne sono di motivi di scandalo. E la pittrice non può ignorarli.

fornarina

Figlia di una famiglia di piccola nobiltà, ha iniziato a dipingere nello studio di una ritrattista famosa, Elisabeth Vigé-Lebrun.
Durante la Rivoluzione ha cessato ogni attività ed è sopravvissuta a stento, nascosta per sfuggire alla ghigliottina, insieme al marito aristocratico e convinto realista. Ma ora la paura è finita. È ambiziosa e, dopo che ha avuto la possibilità di frequentare l’atelier di David e di esporre al Salon, vuole ottenere la sua affermazione pubblica. Nella primavera del 1800 le vicende delle due donne si intrecciano: la modella non è più schiava e la pittrice può esercitare il suo mestiere.
C’è empatia e comprensione: entrambe si sentono, finalmente, libere. Il dipinto, malgrado qualche aspro giudizio negativo, è un trionfo poichè
il pubblico più illuminato vede un manifesto dell’ emancipazione dei neri e delle donne. Molti lo condividono. È un clima di entusiasmo, che non durerà a lungo. Due anni dopo, nel 1802, Napoleone cederà alle pressioni dei grandi proprietari di piantagioni e la schiavitù verrà ristabilita. La repressione sarà feroce. Tra le due donne, a questo punto, si aprirà un abisso.
Non sappiamo quale sarà la sorte della giovane del ritratto; probabilmente continuerà a rimanere al servizio della famiglia, come schiava e per tutta la vita. Marie-Guillemine Benoist sarà riassorbita nel conformismo dell’alta società e diventerà la ritrattista ufficiale della famiglia Bonaparte. Finirà per rinunciare alla pittura, un’attività giudicata poco consona alle cariche pubbliche sempre più importanti, assunte dal marito.
Entrambe rientreranno nei loro ruoli: il breve momento, che le ha viste unite e uguali, è finito.

Marchesi tra il futile e il dilettevole…

Marcello Marchesi è l’anello di congiunzione tra la letteratura e lo spettacolo, tra satira e comicità tramite l’umorismo. Marchesi è il ponte tra Flaiano e Totò, tra Achille Campanile e Walter Chiari, tra Leo Longanesi e Paolo Villaggio. Dopo decenni di silenzio dalla sua morte, nel 1978, ora riaffiora perché sono stati ripubblicati due suoi libri da La Nave di Teseo: la raccolta di boutade Il dottor Divago e il romanzo Il Malloppo. 

A vederlo vestito in bianco e nero, coi baffi e gli occhiali neri, come Flaiano, più l’ombrello e il cappello, sembrava uno di quei borghesi di Magritte, con bombetta, cravatta e abito scuro, piovuti dal cielo. Marchesi era un logo vivente della tv in bianco e nero, incompatibile con la tv a colori; difatti se ne andò all’altro mondo con l’avvento del colore. Me lo ricordo da bambino questo signore di mezza età che mi sembrava fuori posto in tv, troppo serio per essere comico, troppo scanzonato per essere serio. Autore di cinema, famoso soprattutto per i film di Totò, autore in tv di memorabili programmi, autore di tanti indimenticabili motti di Carosello, scopritore di talenti. E autore di testi, di libri che raccolgono i suoi calembour, i suoi giochi di parole, i suoi versi surreali. Si definì futile e spiegò la parola in senso figurato: “Mi fa venire in mente un fucile che spara a borotalco. A pensarci bene, un fucile così non ammazza nessuno e fa sorridere. Sì, sì, sono futile”. Ma dilettevole.  Veniva dal Bertoldo, risposta milanese al romano Marc’Aurelio, con Giovanni Mosca e Cesare Zavattini, Giovannino Guareschi e Vittorio Metz, suo amico e coautore di una vita; vi scrivevano pure Campanile, Longanesi, Maccari, Carletto Manzoni e il giovane Federico Fellini. Collaborò a lungo con la Rai sin da quando si chiamava Eiar. Fu il primo “copyrighter italiano” e le sue trovate, i suoi detti, ebbero successo anche da morto, a molti anni di distanza: pensate al titolo del best-seller di Gino e Michele, Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano: era suo. Coniò slogan virali per la pubblicità ma sotto sotto era un moralista contro il consumismo: si pentì di aver venduto il cervello alla pubblicità e di essere diventato “stratega del desiderio, colonizzatore di anime, uomo al neon”. Per lui il consumismo era una religione a rovescio fondata sullo spreco e sul superfluo, l’avidità e i desideri insaziabili: “diventeremo tutti Buttisti/seguaci del dio Butta/divinità dello spreco/Motto di chi l’adora/Butta via e compra ancora”. Per dirla in breve, rovesciava un noto proverbio: “La pubblicità è il commercio dell’anima”. Come Penelope, Marchesi disfaceva di notte la tela della pubblicità che tesseva di giorno. Ridendo “castigat mores”, quei costumi che lui stesso aveva invogliato a imitare coi suoi caroselli. Amava il non-sense sin dalla nascita: “quando nacqui in casa c’era solo mio padre. Mia madre era uscita”. Andò in tv perché “era l’unico modo per non vederla”. Dedicò il suo Diario futile a tutte le lettere dell’alfabeto, rendendo divertente la consueta formula di rito “Senza di loro non avrei mai potuto scrivere questo diario”.  Si definì attraverso sei aggettivi preceduti dal più: l’uomo più allegro, più malinconico, più funereo, più bugiardo, più aperto, più provvisorio. E malinconico fu sul serio, come Flaiano e Longanesi. Abissale è la mestizia di alcuni suoi versi, come questi: “quando penso che non m’innamorerò, ormai più/che non soffrirò, ormai, più per amore/ mi sento un morto a cui batte il cuore”.  Scrisse, a suo modo, il necrologio più onesto del fascismo: “Il fascismo: l’Italia del periodo Paleopolitico. Il periodo in cui eravamo tutti fidenti, fidentissimi e c’era uno più fidente di tutti. Il fascismo sembrava il sogno di un popolo povero che faceva tenerezza anche agli americani. Ohè! La traversata atlantica! Vuoi vedere che l’ingenuità è la strada giusta? Vogliono l’imperetto, birichini. Alè, diamogli lo scappellotto delle sanzioni. Poi arrivò il compagno cattivo e tutto si guastò irrimediabilmente”.Sono celebri e folgoranti le sue definizioni che giocano sui luoghi comuni e il suo dizionario delle celebrità; ma sono più significative le sue osservazioni da u-moralista, ossia moralista umorista e umorale. Per apprezzare Marchesi bisogna tuttavia avere un retroterra colto o almeno liceale, conoscere un po’ di storia, di latino e di cultura generale.Irriverente verso tutti: quel devoto ipocrita che assisteva tutte le domeniche alle “Sacre Finzioni”; quel poeta, la cui figura “naneggia in tutta la sua pochezza nel panorama della poesia contemporanea”. O quella volta che disse di aver sfregiato una tela d’arte informale alla galleria d’arte moderna:“con quel taglio il suo valore è salito di un milione”. Criticò il progresso: “Bella la vita di adesso. Si vive più a lungo, si muore più spesso”. Poi la sua tenera poesia a “l’unico amico” (Vittorio Metz) “Vieni a trovarmi finché son vivo… scambiamoci un sacco d’idee sbagliate/invecchiamo un’ora insieme”. Quando era demoralizzato si sentiva “un brufolo devitalizzato”. Tendeva a dimenticare i torti subiti ma non per generosità, confessò, ma perché non gli andava di soffrire. Anche la sua vita finì in modo assurdo, tragicamente buffo, a 66 anni: fu nel mare in Sardegna per un’audace capriola nell’acqua. E dire che pochi anni prima in Essere o benessere aveva scritto della strana sorte di un supertimido: “Affogò perché si vergognava a gridare aiuto”. Disse di sé: “Sono un mediocre pieno di genialità, sono un genio che non ce la fa”. Ad avercene di mediocri come lui.

Marcello Veneziani,

 

“Le ciabatte” di Samuel Hoogstratten: un racconto immorale. Come imparare a leggere un quadro…

Ci sono quadri che  nascondono le loro storie meglio di altri.

                 Questo, per esempio:

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Il dipinto, ora al Louvre, è datato  alla metà del Seicento e attribuito al pittore olandese Samuel Hoogstratten (1627-1678, contemporaneo di Vermeer e specialista in effetti prospettici.

Il titolo, con cui è noto,  è “Les pantoufles, le ciabatte“.

In un nitido interno domestico- un soggetto che, all’epoca andava di gran moda- una prospettiva rigorosa di soglie e stipiti  di porte aperte,  inquadra un’infilata di stanze, divise da un corridoio. Il senso di profondità è accentuato dalle mattonelle a losanghe del pavimento e dal gioco di luce e ombra.

Tutto sembra quieto e tranquillo. In realtà,  se lo si guarda bene,  si scopre che  la calma è solo apparente.  Si avverte, da subito, con un po’ di disagio, che, nel dipinto, manca qualcosa: manca qualsiasi figura umana. Un’assenza che si nota, tanto più che  siamo abituati a vedere, nei quadri dell’epoca- in Vermeer soprattutto- ambienti abitati da giovani donne riflessive, domestiche indaffarate, o gruppi intenti alla musica o alla conversazione.  E, poi,  abbiamo  l’impressione precisa che qualcuno, da quelle stanze, ci sia appena passato. Ma chi?  Per scoprirlo non resta che varcare la cornice ed “entrare” nel quadro alla ricerca di indizi.

Subito, un dettaglio salta  agli occhi: le ciabatte, talmente evidenti da dare il titolo al quadro.

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Senza dubbio non sono lì a caso: sono  illuminate, quasi fosse un proiettore, dalla luce del sole che entra a fiotti nella stanza e  disposte proprio al centro della composizione.  In un interno, così immacolato, quelle ciabatte, un po’ consunte, abbandonate per terra, con negligenza, nel bel mezzo del corridoio, sono un elemento stonato. Ed ecco che quello che,  all’inizio, poteva parere una puro esercizio prospettico sembra, all’improvviso, animarsi.   Non ci resta che ripercorrere, di nuovo, quegli ambienti silenziosi  e osservare, uno a uno, tutti i dettagli.

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Scopriamo, allora, che la scopa non è stata ben  riposta, ma lasciata, in bella vista, appoggiato su una  parete.   Il mazzo di chiavi, ha l’aria di essere stato appena infilato nella serratura della porta e poi dimenticato.  Se entriamo nel salotto, vediamo che,  sul tavolo, c’è un  libro chiuso e una candela, posta  di traverso sul candeliere, che sembra sia stata spenta in tutta fretta. Allora qualcuno, qui, c’è stato davvero!  Ma perché tanta negligenza e tanta precipitazione?   E dove sarà la padrona di casa? Perché di una donna si tratta, a giudicare dagli oggetti tipici di occupazioni domestiche prettamente femminili.   Se  proseguiamo nell’indagine, scopriamo che proprio l’autore, Samuel Hoogstratten, un primo indizio ce lo aveva fornito, niente di meno che nel suo “Trattato  sulla pittura”, dove aveva scritto: “i quadri migliori sono quelli che hanno un significato istruttivo”.

Vorrà dire che, anche in questo dipinto, un significato c’è. Vale la pena cercarlo.  Rientriamo nel quadro e, questa volta,  lasciamo che  sia il pittore a guidarci.  In effetti, se prestiamo attenzione, vediamo che quello che attira subito lo sguardo è il quadro, appeso alla parete di fondo del salotto, che spicca, con evidenza, sul bianco del muro.  Non cerchiamo oltre: la chiave è là.

Il quadro raffigurato non è affatto di fantasia, ma  è la copia, con qualche variante, dell”Ammonizione paterna” di Gerard Ter Borch. La tela di Ter Borch, all’epoca, era notissima: ne erano state fatte numerose copie e stampe da esporre, bene in vista, nelle più dignitose case olandesi. Nel dipinto un padre, indicando con fare minaccioso un’alcova rossa, simbolo evidente di peccato, ammonisce la figlia contro il vizio e la dissolutezza, a cui può condurre l’amore carnale.   Era il soggetto giusto da porre, come monito,  sotto gli occhi delle giovani perbene. Ecco dove ci voleva portare il pittore!

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Nessun elemento del dipinto era  casuale. Facendo parlare solo gli oggetti fuori posto, l’artista ha costruito un piccolo racconto morale –o immorale- perfettamente comprensibile dai suoi contemporanei: una donna, nella fretta di precipitarsi a un incontro galante, si scorda le chiavi sulla porta, abbandona le scopa appoggiata al muro e si toglie  le ciabatte proprio in mezzo al corridoio. Spegne anche la candela, alla cui luce stava forse leggendo.  E ora, fuori dal nostro campo visivo, in un’altra stanza, si dedica a un’illegittima attività amorosa. Presa dalla passione, ha scordato le sue più elementari incombenze: una condotta, all’epoca,  davvero riprovevole. Preferire le vane gioie d’amore alle sagge occupazioni domestiche non era degno di una donna onesta.

Quella che il pittore ha abilmente suggerito, col suo gioco di indizi,  è  una sottile lezione di comportamento, destinata a qualche casalinga inquieta, a rischio di cadere in tentazione.  Nessun mistero, dunque, tanto che, a questo punto, potremmo pure proseguire il racconto con un pizzico di pepe e di dettagli piccanti.  Meglio di no! Ora che tutto è chiarito, la cosa migliore da fare è uscire in silenzio dal quadro,  senza dimenticare di chiudere, con discrezione, la porta d’ingresso.

“Le ciabatte” di Samuel Hoogstratten: un racconto immorale  se vi interessa imparare a leggere un dipinto.

La “Venere degli stracci” è la più brutta scultura di artista italiano vivente.

 

Ha ottenuto il primato da “Maestà sofferente” di Gaetano Pesce. E ora vogliono anche piazzarla in una chiesa, inconsapevoli della differenza tra Maria (orazione) e Venere (erezione).

Passato il trigesimo finalmente si può dire: fino al 4 aprile la più brutta scultura di artista italiano vivente era “Maestà sofferente” di Gaetano Pesce. Dal 5 aprile è ovviamente la “Venere degli stracci” inflitta a Napoli da Michelangelo Pistoletto. Due sculture non grandi ma grosse, ovvero grossolane. Pesce capovolgeva Scruton: secondo il filosofo inglese la vera opera d’arte “riesce a rendere bello il brutto”, mentre il designer ligure, pace all’anima sua, è riuscito a rendere brutto il bello (la donna). Pistoletto capovolge Kant, secondo cui la bellezza ci conduce alla presenza del sacro: l’artista biellese ci conduce alla presenza della spazzatura. Adesso il suo statuone-installazione vogliono perfino piazzarlo in una chiesa, complici i preti che evidentemente non sanno più distinguere Maria (orazione) da Venere (erezione), sacro da profano, cristianesimo da paganesimo. Nemmeno il bello dal brutto sanno più distinguere, risultando questa Venere delle mappine, a chiunque non sia cieco, o apostata, leggiadra come una discarica.

Camillo Langone___da IL FOGLIO

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Una statua tatuata in Santa Maria dei Miracoli, a Roma…

Una statua tatuata in Santa Maria dei Miracoli, a Roma. Ma le profonazioni corporee sono espressamente proibite: credere in Dio e nei santi, non ai preti..

Maternità e malinconia nella mostra di Albrecht Dürer a Rovereto.

Al Mart, dipinti e incisioni di Dürer dialogano con opere di grandi maestri del Novecento italiano, da Morandi a Boccioni  .Mater et Melancholia, mette in risalto alcuni capolavori assoluti di Albrecht Dürer (Norimberga, 1471 – 1528): la Madonna col Bambino, realizzata alla fine del XV secolo durante uno dei viaggi di formazione in Italia, e una serie di incisioni tra le quali spiccano Melencolia I

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https://www.rainews.it/tgr/trento/video/2023/12/durer-marter-melancholia-mart-rovereto-mostra-vittorio-sgarbi-0a80ec8f-2ea0-42fd-9b15-1ba112fd2eaa.html

Nella Madonna col Bambino, Gesù tiene nella destra un rametto di fragole, come alludere forse al suo martirio, mentre il suo sguardo è rivolto verso la madre, mentre tiene stretta la mano sinistra per non cadere. Intanto sembra preannunciare che la stessa mano sarà perforata dal chiodo della passione. Il Longhi sosteneva che Dürer avesse impaginato il gruppo divino con un taglio belliniano e antonellesco . Se si osserva poi che la cuffia della Vergine, che copre quasi tutta la fronte, si nota il richiamo a stilemi dell’iconografia nordica, che Dürer aveva ripetutamente usato nelle incisioni precedenti il secondo viaggio italiano.

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Melencolia I del 1514 è la più celebre incisione di Dürer. Vi si legge l’immagine alata della stessa, in uno stato di completa inazione, seduta sopra un gradino di pietra. La scena trasmette una sensazione di gelo e solitudine in un luogo scarsamente illuminato dalla luce della luna, come si può ipotizzare dall’ombra della clessidra sul muro. Vicino a lei ci sono un putto immusonito che sta scrivendo qualcosa su di una tegola e un bracco malnutrito. La donna è inattiva non per pigrizia, ma poichè , ai suoi occhi il lavoro ha perso significato ,bloccando l’energia con pensiero negativo . Non siamo di fronte ad una donna demotivata ,ma ad un individuo superiore, le sue ali lo dimostrano ,alla sua intelligenza, alla sua immaginazione, circondata dagli arnesi simboli dello sforzo creativo e della ricerca scientifica. La sua espressione rimanda ad un essere pensante in uno stato di incertezza, concentrata non su un oggetto che non esiste, ma su un problema che non può essere risolto.