Ognuno, quando fa del bene a un altro, lo fa a se stesso.

Dobbiamo fare di tutto per dimostrare la massima gratitudine. Questo è un bene nostro, allo stesso modo che la giustizia non riguarda gli altri, come comunemente si crede: gran parte ricade su se stessa. Ognuno, quando fa del bene a un altro, lo fa a se stesso. E non lo dico perché chi è stato aiutato vuole aiutare, chi è stato difeso vuole proteggere e perché il buon esempio ritorna sulla persona che lo ha dato, (così come i cattivi esempi ricadono sugli autori, e se uno con le sue azioni ha insegnato che si può offendere, non trova commiserazione quando viene a sua volta offeso); ma lo dico perché ogni virtù trova in se stessa la sua ricompensa. Non la si esercita in vista di un premio: il guadagno di un’azione virtuosa consiste nell’averla compiuta.  Dimostro gratitudine non perché un altro spronato dal mio precedente esempio mi aiuti più volentieri, ma per compiere un’azione dolcissima e bellissima; sono grato non perché mi conviene, ma perché mi piace. Per renderti conto che le cose stanno così, sappi che se potrò dimostrare la mia gratitudine solo sembrando ingrato, se potrò ricambiare un favore solo sotto l’apparenza di un’offesa, con la massima tranquillità realizzerò questo giusto proposito anche a prezzo dell’onore. Nessuno, secondo me, tiene in maggior conto la virtù, nessuno le è più devoto di chi rovina la propria reputazione di uomo onesto per non tradire la propria coscienza.  Perciò come ho già detto, il dimostrare gratitudine è un bene maggiore per te che per il tuo prossimo; a lui càpita un fatto comune, di tutti i giorni, riavere quello che ha dato, a te un fatto importante, generato da uno stato d’animo di intensa felicità, aver dimostrato gratitudine. Se la malvagità rende infelici e la virtù felici, e l’essere riconoscenti è una virtù, hai dato una cosa comune e ne hai ottenuta una di valore inestimabile, la coscienza della gratitudine, che nasce solo in un animo straordinario e fortunato.

Seneca__Lettere a Lucilio___ I secolo d.C.

th gratitudine

Non siate schiavi delle mode…

 

Non sia la moda a rendervi infelici, né le mode vi inducano in schiavitù. Per quanto banali e scontate queste regolette di bon ton verso se stessi non vengono mai raccomandate abbastanza. Perché si, di rispetto per se stessi e non altro è fatta la sana reattività di chi non va supinamente a rimorchio di moda e mode. Guardatevi da imperativi destinati acriticamente alla pazza folla, rifiutate le gonnelline elasticizzate se avete un sedere autorevole, sfuggite alla minigonna se le gambe non sono perfette, esercitate su di voi lo spirito critico di cui siete capaci guardando gli altri. Non usate vistosi parrucchini se tendete alla calvizie, non vestitevi da capo a piedi come i giovanotti grintosi che occhieggiano dalle pagine pubblicitarie della moda maschile se non avete le physique du rôle, e per carità evitate di farlo anche se l’avete. […] Indossate ciò che piace a voi, che vi convince, vi abbellisce, fosse anche un vecchio merletto ottocentesco, o la cappa mantello di Sherlock Holmes, assolutamente fuori gioco dall’imperativo del momento. Quanto a mode, conquistate una volta per tutte l’orgoglio di stare fuori dal coro. Anche quando vi troverete casualmente dentro ci sarà sempre qualcuno convinto che se lo avete fatto “voi” l’idea era proprio buona.

 Maria Venturini__Dizionario delle felicità

 

modista

Il Gps iraniano disturbato da Israele e le carte che tornano utili…

Le carte che si chiamano carte appunto perché sono di carta. Quelle che nessuno può disturbare e che non si spengono mai. Mentre Israele impedisce ai missili iraniani di volare (e ci salva), il cervello impigrito dal digitale ricomincia a orientarsi.

Dagli Ebrei la salvezza. Non sono particolarmente filosemita, sono particolarmente interessato alla salvezza e dunque considero perennemente attuale Giovanni 4,22: “Salus ex Iudaeis est”. Osservo Israele e vedo che laggiù disturbano il sistema Gps per confondere gli incombenti missili iraniani. Quindi anche i navigatori satellitari sono una tecnologia fragile, buona quando le cose vanno bene. In Israele sanno meglio che altrove che le cose vanno tendenzialmente male e così dimostrano la perenne attualità delle carte stradali. Le carte che si chiamano carte appunto perché sono di carta. Quelle che nessuno può disturbare e che non si spengono mai. Ne avevo tantissime, quasi tutte del Touring Club, tante le ho buttate imprevidentemente (ipotizzando come un qualsiasi sciocco europeo un futuro di pace), qualcuna grazie a Dio l’ho tenuta e quando voglio capire davvero dove mi trovo o dove devo andare (non solo il percorso ma il contesto) le riguardo. Ogni volta sento la mente che mi si riapre, il cervello impigrito dal digitale che ricomincia a orientarsi. Si seguano le carte e gli Ebrei, per non perdersi.

 Camillo Langone__da __IL FOGLIO                                                                             

gps

Un’estate lunga sei mesi. Senza più nessuna dolcezza, solo un ineluttabile disagio: come si sopravvive alla monostagione che va da aprile a ottobre?

Uno degli incipit che preferisco nella storia della letteratura l’ha scritto Roberto Calasso a 12 anni, e non è mai stato pubblicato. Calasso però ne ha poi parlato in Memè Scianca, un libriccino del 2021, e fa così: «L’estate la sentivo arrivare dal viale». Il viale sarebbe Spartaco Lavagnini, circonvallazione di Firenze, e all’epoca a cui si riferisce Calasso – l’immediato Dopoguerra – era uno stradone con il pavé al centro per i binari del tram 19, pochissime auto, tigli verdi e slanciati. L’estate che descrive il fondatore di Adelphi si avvicinava come una nave alla costa: lentamente, con emozione e una certa allegria. Ottant’anni dopo l’estate ci travolge come uno schiaffo in piena faccia. Alla prima settimana di aprile i termometri segnano trenta gradi, l’asfalto dei viale è già torrido, i cofani delle automobili scottano. Sudiamo. Un paio di anni fa uscì uno studio molto ripreso dai giornali che diceva: se non si fa niente per ridurre il cambiamento climatico, alla fine del secolo avremo un’estate lunga sei mesi. È il 2024 e l’estate pare iniziata ad aprile, quindi proseguirà a maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, chissà se anche ottobre, è possibile, è probabile. I sei mesi sono già qui, se consideriamo non solo i trenta, ma anche i venticinque gradi temperature estive. Questo, ovviamente, porta con sé una serie di conseguenze gravi che conosciamo bene: dall’ansia climatica alle disuguaglianze sociali acuite dal clima, dalle migrazioni climatiche ai sempre più frequenti dissesti idrogeologici. Ma anche una domanda più faceta che riempie gli aperitivi e le cene e le pause caffè e i pensieri interrogativi davanti allo specchio la mattina: come ci si adatta a un’estate di sei mesi?  C’è intanto un cambiamento nell’immaginazione, e ci penso rileggendo quella frase di Calasso: le primavere e le estati descritte nei romanzi, nei quadri e nei film soprattutto europei del Novecento erano dolci e attese, portavano leggerezza e una dote di maggiore libertà. Ce ne sono molte altre, semanticamente simili, che mi vengono in mente: quella di Arbasino nelle Piccole vacanze, quella di Cassola in Tempi memorabili, quella di Bassani nel Giardino dei Finzi-Contini. Sono primavere ed estati di giardini all’ombra e vestiti chiari, serate che rinfrescano, mattinate oziose in spiaggia e poi pomeriggi nelle camere riparate a riposare. Certe scene di Guadagnino, anche quelle incastonate in un passato dolce e sensuale, sembrano uscite proprio dai Finzi-Contini: «In certe sere di maggio, coi finestroni laterali spalancati dalla parte del sole al tramonto, a un dato punto ci si trovava immersi in una specie di nebbia d’oro».

In certe sere di maggio, a Milano nel duemilaventi e qualcosa, dopo aver letto l’ennesimo bollettino che annuncia: “L’ultimo aprile è stato il più caldo della storia umana”, le finestre se ne stanno invece chiuse, perché il termometro tocca già i trentadue gradi e non piove da settimane e la città puzza da far schifo. Nessuna nebbia d’oro, semmai una patina grigetta che contorna lo skyline di vetro. Accendo l’aria condizionata, guardo le piante rinsecchite sul balcone. Faccio la terza doccia del giorno. Devo uscire per una cena o un aperitivo con il giusto anticipo: in bicicletta me la devo prendere comoda, per non sudare anche tutta questa camicia. Le cene si scelgono nelle case provviste di freddo artificiale. A pranzo, i terrazzi sono ormai banditi, anche se avevamo passato l’autunno a sognare i pomeriggi a casa di tizio, immaginando scene, appunto, guadagninesche e oziose. Ma ci si può stare la sera, semmai, a terminare le notti che si sono trascinate nell’umidità.  Il caldo infiacchisce, camminare stanca: il mondo dell’estate perenne gira al contrario rispetto a quello precedente, non è un mondo di libertà ma di frustrazioni. Se prendere gli aperitivi diventa una sofferenza, allora gli uffici ben condizionati si trasformano in un posto di requie, ci si sta volentieri. Quel briciolo di sindacalismo che si era risvegliato, fatto di smart working o altri termini sul lavorare meno e più indipendentemente, si scioglie nella consapevolezza che stare al computer in case poco ventilate è forse peggio che farlo negli uffici a venti gradi. Due estati fa è capitato piovesse, finalmente, dopo mesi di siccità che aveva investito l’Europa intera: Instagram si era allora riempito di Stories di festeggiamenti, venti-trenta-quarantenni entusiasti che ballavano nella pioggia. Un altro ribaltamento: finisce così che siamo felici quando piove, e non in senso crepuscolare, come diceva una canzone dei Jesus & Mary Chain, ma proprio felici-felici. Perché l’arsura era insopportabile già da marzo, e perché abbiamo introiettato un certo senso di colpa climatico, come se le colpe dei padri, dei nonni, dei bisnonni e degli avi degli avi, dalla macchina a vapore in poi, ricadessero sulle nostre spalle. E poi, con la pioggia, ci si può almeno vestire in modo decente: altro importante elemento di disagio e dibattito da bar, in questa estate caldissima e lunghissima. Dal cappotto alla maglietta, senza passare da quelle dodici giacche da mezza stagione destinate a una reclusione putiniana nell’armadio, una boccata d’aria ogni tanto, e poi di nuovo un anno a riposare. Dureranno se non altro per sempre, passeranno e poi torneranno di moda come i cicli solari lunghi undici anni. È diventato pure difficile andarsene dalle città, perché non esiste più quella furbizia di andare ai laghi o al mare prima che scoppino le vacanze: ci si va appena possibile. La Liguria è invasa da Camogli a Sarzana ogni weekend da febbraio in poi (il Ponente non so, non frequento, ma immagino una situazione simile), i laghi anche, i cittadini hanno pure scoperto i fiumi, pur di lasciare i viali e i palazzi. Anche le città con vista sul mare sono invase: la spiaggetta di Boccadasse, a Genova, è diventata una specie di Ponte di Rialto per densità di instagrammatori, sembra una riproduzione dell’Italia in Miniatura, a vederla così piena. Anche gli odiatori dell’inverno, i fisici e le menti più evoluti per resistere a sudore e umidità, devono fare un passo indietro davanti all’estate semestrale. Non si può sopportare per centocinquanta giorni questa violenza costante. A Milano, gli alberelli dei piani di riforestazione urbana sono poco più alti di una persona, boccheggiano impotenti e smunti. Dove c’è il mare, l’acqua si scalda già a maggio come in una pozza poco profonda. Si guarda all’orizzonte con terrore, immaginando cieli color sabbia, scenari da Mad Max nei viali della circonvallazione, nuvole infuocate. Se non ci sono più le mezze stagioni, se la l’immaginario estivo è così mutato – altro che sahariane elegante da Finzi-Contini, semmai magliette iper traspiranti di multinazionali giapponesi, braghette corte, ahimè ciabatte – allora dovremmo trovare un altro nome a questa macro-stagione inevitabile, inespugnabile, in cui agonizzare. Estate ha un suono ancora troppo dolce, che ogni volta ci fa sperare possa andare meglio, possa tornare com’era stato. Non tornerà.

Davide Coppo

 

all'aperto1

 

Carnera, il gigante buono e la memoria cattiva…

La cittadina di Sequals, poco più di duemila abitanti nella provincia di Pordenone, è conosciuta in Italia e non solo perché ha dato i natali al mitico pugile e gigante Primo Carnera. E ora che avevano pensato di dedicargli lo stadio, il paese natale si divide in favorevoli e contrari, perché lui, il Gigante buono di Sequals, è stato un mito fascista.

Carnera era un povero friulano e diventò il simbolo dell’Italia fascista e la rappresentazione fisica della sua mania di grandezza. In Carnera l’Italia trovò un triplice riscatto: dei poveri emigrati italiani nel mondo, essendo anch’egli emigrato in Francia e poi famoso negli Stati Uniti; il riscatto del piccolo italiano, visto come rachitico, debole, vigliacco e di bassa statura, secondo uno stereotipo del tempo, rispetto ai giganti americani e agli atleti negri; e infine il riscatto della provincia profonda e contadina rispetto alle metropoli e alle città industriali. Ma Carnera incarnò soprattutto il mito del gigante buono, dell’uomo più forte del mondo ma anche tenero e generoso; l’eroe che porta in alto nel mondo il tricolore e l’orgoglio di essere italiani. Carnera era diventato da poco campione del mondo di pesi massimi, nel 1933, e i suoi detrattori al sud lo paragonavano in negativo a Garibaldi. “Sono tutti trucchi. Carnera ha vinto perché era d’accordo prima. E’ proprio una specie di Garibaldi. La storia non cambia. Sui vostri libri di storia vi insegnano un mucchio di frottole, la verità è un’altra”. E’ un passo di “Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi e la dice lunga sul mito di Carnera e le sue ombre, i suoi fan e u suoi detrattori, una specie di eroe dei due mondi in ambito sportivo. Un eroe che debordò dallo sport nel cinema, diventando attore in tredici film, ma anche nei fumetti e nella pubblicità. E un campione di virilità che celebrava il gallismo fascista. Carnera fu usato anche ironicamente, per contrasto: memorabile fu la sua accoppiata con il piccoletto Renato Rascel. Carnera era un modello fatto su misura per un regime che esaltava la virtù terapeutica e catartica dello sport e dei cazzotti, celebrati dal futurismo, come nel memorabile pugno di Boccioni realizzato da Balla, nel cui movimento si esprimeva plasticamente la Esse della storia in marcia. Del resto anche la propaganda per demolire il fascismo usò poi il penoso declino di Carnera per dimostrare, come il titolo di un famoso film degli anni 50 con Humphrey Bogart, che Carnera fosse “Un gigante d’argilla”, come l’Italia fascista. Il fascismo usò Carnera e poi lo accantonò quando diventò uno sconfitto; il duce lo esibì dal balcone di piazza Venezia ma non apparve al suo fianco, per non sembrare al suo cospetto un nano.  L’Italia fascista fu attraversata da miti sportivi largamente popolari e valorizzati dal regime: da Girardengo, che inaugurò l’epoca degli eroi a pedali, dalle trasvolate atlantiche di Balbo alle imprese automobilistiche di Tazio Nuvolari dalla Nazionale di Pozzo, Piola e Meazza alle dinastie calcistiche dei Ferraris e dei Caligaris, da Ondina Valla fino a Carnera.

La consacrazione di questi miti era negli Stati Uniti. Là, nel mondo nuovo, tra gli emigrati italiani, sotto i grattacieli, ogni successo di Balbo, Nuvolari o Carnera diventava non solo la celebrazione del primato italiano nel mondo; ma anche motivo di orgoglio per gli italiani emigrati, che finalmente non erano più visti come subalterni, affamati e camerieri, né come mafiosi, mariuoli e imbroglioni. Vedere il tricolore issato sui palchi americani e sui podi internazionali e l’inno nazionale suonato all’estero in segno di vittoria, erano un risarcimento morale e sentimentale con ricaduta sulla vita pratica degli italiani e sulla loro considerazione all’estero. Dovremmo ricordarlo in questi giorni olimpionici quando risuona l’inno di Mameli a ogni successo sportivo italiano. Diventare un Carnera divenne un modo di dire per indicare l’alta statura, la corporatura muscolosa, la forza fisica e la mascolinità. Fu anche un po’ fenomeno da baraccone, Carnera, come la donna cannone; ma vi era qualcosa di bonario nel gigante di Sequals, come ha mostrato poi la sua vita; un campione d’animo gentile, se si considera la sua filantropia e la sua passione per la lirica e per Dante. Perfino la sua bruttezza lo faceva apparire un Frankenstein del bene, un Eroe, un Gigante, un Superdotato dall’animo buono.  Le sue foto tra gentiluomini americani ben vestiti che gli arrivavano all’ombelico, e le sue grandi mani sulle loro spalle in un gesto di protezione indicava anche quanto fosse sovrastante la sua persona. Così diventò il simbolo della megalomania nazionale. Carnera in contrapposizione ai colletti bianchi e agli impiegati, rappresentava il culto del corpo, la forza esuberante e il tratto antiborghese che il fascismo accentuò negli anni trenta. Perfino il mito dell’ impero è la proiezione gigantesca del nazionalismo. Ma nella mania di grandezza l’Italia era accomunata nel mito moderno degli States, dove tutto è gigantesco, dai grattacieli alle vie, dalle auto ai marciapiedi, dalle vetrine agli spazi sconfinati. Il fascismo fu un regime con velleità macroscopica. Di quel sogno Carnera fu il testimonial vivente, in muscoli e statura.

I regimi passano, il mito di Carnera invece resta, con il riscatto degli italiani nel mondo e il suo primato sportivo. Che facciamo, cancelliamo le strade dedicate a Marconi, Pirandello, Mascagni e cento altri grandi perché furono fascisti? La solita, stupida storia. Carnera il gigante tra i pigmei astiosi del presente.

 Marcello Veneziani  

Sacra o no, la libertà di coscienza non è più così ovvia in questo mondo..

 

Un concetto dato per scontato e condiviso troppo in fretta. Mentre per Kant la libertà era ancora la ragione d’essere della vita morale, a noi sembra essere diventata quella dell’indifferenza.

Il concetto di libertà di coscienza sembrerebbe tra i più ovvi e condivisi. “In coscienza sento di doverti dire questo”, “In coscienza sento di dover fare quest’altro”, “In coscienza non so che cosa fare” sono tante espressioni di uso comune, nelle quali l’appello alla coscienza rappresenta una sorta di ultima istanza rispetto alla quale il nostro interlocutore può dissentire, cercare di farci cambiare idea, ma alla fine deve chinare il capo, a meno che non voglia farci violenza. Questa la sostanza della libertà di coscienza. Basta però grattare un poco la patina di scontata familiarità che ricopre tale concetto per rendersi conto dei problemi che nasconde e che lo fanno diventare addirittura una vera e propria sfida.  Il fatto, a esempio, che una scelta venga compiuta “in coscienza” non vuol dire che si tratti di una scelta giusta. In coscienza ci si può anche sbagliare. L’inferno, si dice, è lastricato di buone intenzioni. Esiste insomma un criterio del giusto che non risiede soltanto nella nostra coscienza. E tuttavia dobbiamo anche sottolineare che nessuna azione giusta può avvenire “contro coscienza”. Di qui la responsabilità, non saprei come dirlo altrimenti, che ciascuno di noi ha di “farsi una coscienza”, una coscienza alla quale rispondere, per essere una persona veramente autonoma, uscita dallo stato di minorità di cui parlava Kant.  Per molti versi è strano, ma almeno fino a una ventina d’anni fa i diversi dizionari filosofici e politologici in circolazione non contenevano nessuna voce dedicata alla “libertà di coscienza”. Eppure il concetto l’avrebbe senz’altro meritata, considerato che la posta che con esso viene messa in gioco è niente meno che il riconoscimento dell’inviolabile dignità della coscienza dell’uomo, quindi della sua libertà di essere e di agire secondo ciò che egli ritiene il proprio dovere. Come si legge al n. 16 della Gaudium et Spes, “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria”.  Non so se gli uomini d’oggi, nel sacrario della loro coscienza, si trovino veramente “soli con Dio” o non piuttosto in una sorta di abisso senza fondo; in ogni caso mi pare che il brano appena citato contenga in nuce il senso più impegnativo del problema di cui stiamo parlando. Se la coscienza è il “sacrario dell’uomo”, allora niente che violi questo sacrario può essere detto buono o giusto. Di passaggio vorrei richiamare come la fonte di tutti i nostri diritti sia da cercare in ultimo in questa riconosciuta “sacralità” della coscienza. È qui che si misura l’inviolabile dignità, l’irripetibile unicità, la trascendenza di ciascuno di noi, diciamo pure, la nostra irriducibilità alle condizioni biologiche o socio-culturali della nostra esistenza. Tuttavia da questa “sacralità” non possiamo affatto dedurre ciò che mi sembra stia diventando una sorta di luogo comune del nostro tempo, e cioè che si possa considerare buono o giusto tutto ciò che viene fatto o pensato “in coscienza”. La coscienza, infatti, per stare alla citazione di cui sopra, non soltanto può non sentire più la “voce” di Dio, ma, lasciata a se stessa, non abituata a coltivarsi, può anche ridursi a mero riflesso dei nostri istinti e dei nostri desideri. Altro che “norma suprema dell’agire morale” come avrebbe voluto Kant. Siamo liberi di scegliere soltanto se ammettiamo che ci siano princìpi che oggettivamente dovremmo scegliere, altrimenti la coscienza diventa il luogo dell’arbitrio, il piano in cui tutte le prese di posizione si equivalgono. L’idea stessa di norma morale implica non a caso un legame, una validità non soltanto per me, bensì universale, o quanto meno condivisa da una pluralità di uomini, da una comunità. Per questo è importante l’educazione, l’educazione a coltivare la propria coscienza e quella delle generazioni più giovani, a tenerne aperto il senso critico nei confronti di se stessi prima di tutto e poi anche degli altri. Ci piaccia o meno, ognuno di noi nasce in un determinato contesto socio-culturale, è figlio di un determinato tempo, deve fare i conti con i valori della comunità in cui nasce e vive: ecco l’elemento eteronomo con cui non possiamo non confrontarci in vista della nostra autonomia morale. Una libertà di coscienza declinata soggettivisticamente, a propulsione interna, come se gli altri non esistessero, è destinata allo scacco e alla solitudine. Come ebbe a dire Roger Scruton, “il diavolo ha un solo messaggio, che non c’è alcuna persona plurale… Promettendo di liberare l’io, il diavolo stabilisce un mondo nel quale niente se non l’io esiste”.

Per Kant la libertà era ancora la ratio essendi della vita morale; per noi sembra essere diventata la ratio essendi dell’indifferenza: posso scegliere in un modo, ma anche diversamente; non c’è alcun ideale di vita morale condiviso che mi guidi nelle scelte che faccio. La prima persona plurale “noi” sembra essere scomparsa dal vocabolario. Siamo ripiegati narcisisticamente sul nostro io. In questo modo la nostra coscienza svapora, sempre più impotente, oltretutto, di fronte alle molteplici forme di “noi” oppressivo sempre in agguato nella storia.

Sergio Belardinelli __da__IL FOGLIO

 

kant

Nessuno si scandalizza degli indù per Kamala, quando l’induismo è la religione più discriminatoria.

Nel tempio indù del paese avito della vicepresidente Usa si prega per la sua elezione alla presidenza. Nessun turbamento, perché a Hollywood, Bel Air, Beverly Hills non si perde tempo a studiare le caste, antico impasto di classismo e razzismo.

Non si guardi alla pagliuzza razzista nell’occhio di Donald, si guardi alla trave razzista nell’occhio di Kamala. Nel tempio indù del paese avito della vicepresidente Usa si prega per la sua elezione alla presidenza. Sono notizie che non turbano nessuno. Evidentemente nessuno sa che l’induismo è la religione più discriminatoria del pianeta, grazie al sistema delle caste, antico impasto di classismo e razzismo. Di sicuro non lo sa Beyoncé, kamaliana come quasi tutta la casta del pop. A Hollywood, Bel Air, Beverly Hills nessuno perde tempo a studiare le “Leggi di Manu”, feroce testo sacro indù: “Un bramino può costringere un sudra a compiere un lavoro servile perché è creato dal creatore per essere lo schiavo di un bramino” (libro VIII, verso 413). Chiaramente quella dei bramini è la prima casta, quella dei sudra l’ultima… In India le caste più alte sono più ricche e chiare (discendenti degli invasori ariani), le caste più basse sono più povere e scure (discendenti dei dravidi invasi). Poi ci sono i fuori casta, i più disgraziati di tutti: 250 milioni di paria che nelle zone rurali sono ancora intoccabili, vittime di una sorta di apartheid. Fosse davvero antirazzista Kamala Harris direbbe ai sacerdoti induisti di lasciar perdere, di non coinvolgerla nei loro riti, ma è una democratica, e i voti razzisti servono.

Camillo Langone__da__Il Foglio

 

Kamala

Quando ci si sente vuoti…

 

“Mamma Norma, cosa faccio se sento un grande vuoto nel mio cuore?”

“Figlio mio, il vuoto non è un momento perso. Sentirsi vuoti è persino incoraggiante”

“È il segnale che all’improvviso ti dice quanto avevi bisogno di uno spazio per te stesso. È il momento in cui rispondi alla chiamata per mettere in ordine le tue cose e il tempo per cambiare”

“Sentire un vuoto nel cuore è come toccare il fondo, ma è solo una parte di un processo di autoguarigione. È per questo che non è un momento in cui si perde tempo, tutt’altro”

“In ogni caso, come parte di ogni altro processo della vita, il fatto di “sentirsi vuoti” si presenta fino a un certo periodo di tempo, cioè alla fine è solo un’esperienza temporanea”

“Questa è l’altra faccia della medaglia. Sentirsi male, sopraffatti, in conflitto con i propri sentimenti, con ciò che abbiamo e con ciò che sta arrivando. Non ti fa venire voglia di fare niente e perdi un po’ il gusto per certe cose semplici della vita. Questa sensazione angustia l’anima, la rimpicciolisce, la affligge e questo si sente anche nel petto e nella pancia. Tutto questo è ascoltare il corpo e stare con se stessi nel silenzio. Questo messaggio ci dice quanto abbiamo bisogno di tornare a noi stessi, quanto dobbiamo riconoscere le nostre forze e anche scaricare gli eccessi. In fondo, è una chiamata alla nostra stessa anima”

“Figlio mio, niente aiuta meglio che uscire all’aria aperta, meglio se sei solo. Prova a camminare su un sentiero che porta a un bosco, o un sentiero che costeggia una montagna o un lago. Noterai che la mente si schiarisce man mano che ti assimili gli odori e il calore solare tipici della terra di montagna. Madre Terra è una grande alleata e sembra addirittura ascoltare senza giudicare tutti i tuoi pensieri”

“Cammina quanto ti serve, riposati quando il tuo corpo te lo chiede. Respira l’aria umida della terra o la brezza di una cascata. Siediti e rifletti finché non senti di aver identificato come sei arrivato a questo momento. Quindi medita e cerca di svuotare la mente fino quasi al punto di assoluto relax”

“Sentire il vuoto nel cuore è grave quando la circostanza non viene affrontata in tempo. È una crepa che deve essere sanata con parole dolci, con il tempo di attesa, con pazienza, con il contatto con le altre forze alleate. Il vuoto è più intenso quando risucchia energia sana come se fosse un buco nero che digerisce tutto senza riciclare nulla”

“Figlio mio, approfitta del vuoto che senti per svuotare ancora di più la tua stessa vita, cioè per purificarti, disintossicarti dal mondo, dalle relazioni, dagli eccessi e dai rumori interiori. È tempo di ascoltarti. Per arrendersi al proprio spazio sacro, è tempo di riconoscere quanto dipendiamo dall’apprezzamento e dall’approvazione degli altri, è tempo di liberarsi e affermare quanto meritiamo di essere autonomi”

“Poi, torna alla civiltà e al comfort solo dopo aver compreso il messaggio. Quando torni, benedici e sii grato per ogni esperienza vissuta. Potresti sentirti ancora vuoto nel tuo cuore, ma la prospettiva della soluzione ora sarà diversa e ancora più ampia”

“È giunto il momento di riempire gli spazi vuoti di dolce energia, di acqua cristallina, di profumo di fiori, di canto degli uccelli, di fruscio di foglie cadute, di profumo di terra umida. Ma soprattutto di pensieri ottimisti, con nuovi impegni, con animi carichi del proprio respiro, la cui propria anima è ascoltata e curata”

Arnaldo Quispe –

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La vita gratis…

 

I ricordi dormono accanto a noi. A volte è bello svegliarli e svegliarsi con loro. Si apre un mondo che credevi di non conoscere, invece ci vivevi dentro, e allora ti appariva naturale, come l’acqua che scorre e l’aria che respiri. La nostalgia non è una malattia ma un dono, la sua malinconia è un guscio che protegge un frutto gioioso.
Ci vorrebbe davvero una clinica dei ricordi, come scrive Georgi Gosdopinov nel suo romanzo Cronorifugio, dove la gente va a riprendersi i ricordi smarriti nel tempo o nella testa delle persone. Se dovessi scegliere il decennio preferito in cui rivivere, come succede ai popoli nel romanzo di Gosdopinov, sceglierei senza esitazioni il primo che vissi. Perché il più antico, il più lontano vissuto, il più diverso da oggi, avvolto nel mitico alone dell’infanzia quando non sai dove finisce la realtà e dove comincia la favola, tramite la fantasia. Risale a un’epoca primitiva, ancora senza tv ed elettrodomestici, usati da poco e da pochi pionieri. La chiave per aprire quel cassetto favoloso, oltre l’incanto della vita vista con gli occhi magici dell’infanzia – la scoperta primigenia delle cose, il fascino della prima volta di tutto, il piacere di scoprirsi al mondo e di conquistare ogni giorno un pezzo di vita e di conoscenza – è l’apriti sesamo di quel tempo magico, quel luogo, quel mondo che non c’è più: la vita gratis.
È la vita a portata di mano, all’aperto, senza prezzo e senza pretese, semplice e generosa, gratuita, dove tutto è accessibile a tutti: il ristoro delle fontane, il riposo delle panchine, il giardino pubblico, i frutti appesi agli alberi, i carrubi offerti dai rami ai viandanti, il ruscello in cui ti lavi e lavi i tuoi panni, i giochi fatti con ciò che hai a disposizione, senza arnesi, più la fantasia di un regola o di un oggetto che facilmente costruisci con le tue mani; e poi il mare libero, come i boschi e la campagna. Hai sete? Non vai al bar ma bevi alla fontana, e anche a casa non compri l’acqua minerale ma attingi dalle pompe e dai ruscelli. Le fontane d’estate erano ritrovi affollati, gente che beve, che riempie brocche, che si lava i piedi, dove ai bambini si dà fretta nei loro trastulli d’acqua per far bere gli adulti. Hai fame per uno spuntino? Stacchi un frutto dall’albero e lo mangi; finché è un frutto puoi anche staccarlo da un albero che appartiene a qualcuno, non lo stai saccheggiando, non è un peccato. Anzi, lo sarebbe il contrario, non dare da bere agli assetati e da mangiare agli affamati, come ci insegnavano. Vuoi riposarti? Non c’è bisogno di ordinare qualcosa a un tavolo, ti siedi alla panchina, come ancora fanno, soprattutto i vecchi al paese e aspetti, aspetti che passi il tempo, il caldo, la stanchezza. Da vecchi, il tempo è lungo e la vita è breve; il contrario dei giovani, a cui le ore corrono in fretta ma gli anni davanti sono tanti.
Vuoi farti un bagno? Niente stabilimento balneare, con lettini e ombrelloni, niente cabine, pedalò o gommoni, ma spiaggia libera con bagno libero, a volte senza costume o con le mutande di casa; e se hai caldo ti rituffi o trovi l’ombra di una grotta, la cavità di uno scoglio, o un albero vicino a riva. Tutto appare più semplice. E al mare corpi magri, non obesi né sottoposti a dieta, non rifatti, ritoccati, siliconati, palestrati, senza tatuaggi, creme, lampade, telefonini. Poi si passa la sera con lo struscio, il piacere è l’incontro, lo scambio di parole, la battuta. Basta poco per vivere. Gratis.
I bambini che giocano con niente tra strade e spiazzi, il massimo è rimediare un pallone. Il resto solo giochi di fantasia: la campana, i quattro angoli, nascondino, mago o libero, la piramide, il ciuccio, fiori e frutti, più mimica e indovinelli; giochi d’inventiva e abilità che non prevedono attrezzi.
Questa era la vita gratis, in uso soprattutto nella provincia, in particolare a sud, ma in fondo tutto il mondo è paese. E non era un secolo fa. Si poteva vivere senza soldi e senza limiti d’accesso, con poche pretese. Si campava d’aria, di terra, d’acqua, d’amicizia, espedienti e fantasia. Poi, è vero, c’erano i benestanti e i bisognosi, le proprietà private, i muri di recinzione, i privilegi, l’abbondanza e la penuria, le criature scalze; i mendicanti erano del posto.
La vita gratis era un mondo che sembrava fresco di creazione, appena sfornato da Madre Natura o dal Padreterno; ancora giovane, un po’ bambino, ingenuo nei suoi piccoli desideri, facili d’appagare.
Era bella la vita gratis, e lo dici con un sospiro, ma chissà se lo pensi davvero. Era una vita povera, ancora cruda, difficile nella sua facilità, aspra nella sua dolcezza; una vita che non riusciremmo più a vivere, perché abbiamo bisogno di troppe cose che prima non avevamo e perciò erano allora superflue; ma ora non sappiamo farne a meno. La nostalgia è dolceamara perché sai che quel mondo non può tornare e non ha senso affannarsi a restaurarlo. Tutta la sua poesia, la sua bellezza, è in quella irrimediabile lontananza; l’incanto di una perdita che non si recupera. Non si torna bambini, tuttavia è bello ritrovare lo spirito e lo stupore delle origini, pur sapendo che il tempo è passato ed è impossibile retrocedere. Ma il tempo, lo dice pure Gosdopinov, sembra rettilineo invece è circolare; alle curve rallenta, ci sono i tornanti. E la vita perfetta sa ricongiungere la fine all’inizio. In fondo, gratis vuol dire per grazia, e il proverbio antico aggiungeva et amore dei. La vita gratis, la grazia di essere al mondo…

 Marcello Veneziani

 Grazie a  Marcello Veneziani,scrittore, giornalista, filosofo, che seguo da tantissimi anni. Leggerla per me è , fin dalla prima volta, pane quotidiano, che nutre il mio spirito, la mia mente. I suoi scritti mi fanno una meravigliosa compagnia, grazie infinite per ogni sua parola, in cui spessissimo mi ritrovo,e sono felice che molte persone visitino questo mio blog, dove da tempo ho preso abitudine di condividere quanto di suo  mi piace avere a portata di rilettura.. Ancora grazie di cuore e tutta la mia stima. GSB

La staffetta…

Prendetela per un’insolazione estiva, un delirio d’agosto, la ricerca di una zona d’ombra in tanto sole. Ma se sono veri alcuni indizi, alcuni retroscena, alcuni segnali degli ultimi giorni, il Quartier Generale sta confezionando un pacco per Giorgia Meloni e il suo governo. Intendo per Quartier Generale il potere sovrastante ai governi nazionali, quello che decide in ultima istanza e corregge, laddove è possibile, gli esiti elettorali e l’agire politico. È un potere che genericamente definiamo tecnocratico o meglio buro-tecnocratico  ma di fatto cammina su due zampe: quella economico-finanziaria e quella militare, che con qualche approssimazione possiamo ricondurre al Mercato, tramite la Banca Centrale Europea, e all’apparato militare della Nato e al Patto Atlantico. La rete dei poteri intermedi e sovranazionali, dei mediatori e dei funzionari è vasta sicché non è chiara la catena di comando.

Se abbiamo ben compreso, il pacco prevede qualcosa come una staffetta a Palazzo Chigi. Si, staffetta è il termine giusto e non solo perché siamo in tempi d’Olimpiadi. Chi corre nella staffetta non può andarsene per conto suo, deve seguire il percorso prestabilito e consegnare il testimone al successore. Dopo una crisi, sul tipo di quelle provocate dalle spread, già accadute in Italia e altrove, ci sarebbe un cambio della guardia a Palazzo Chigi. Esce Meloni entra Schlein, con larghe alleanze e ampi sostegni, regia politica di Matteo Renzi nel ruolo ormai consolidato di malefico scazzamuriello; ma regia transpolitica di Autori Vari del Quartier Generale, più concorso esterno di collaudate figure jolly e faccendieri nostrani. Pressioni in questo senso raggiungerebbero pure Forza Italia e il mite Tajani. Ignara precorritrice di questa politica trans è la ricca ereditiera Francesca Pascale che ha dichiarato di sognare un governo berlusconiani-dem a guida Schlein, in modo da sistemare non certo l’Italia ma almeno la sua biografia…

Un tassello utile sarà la battaglia sulle tre regioni in cui si vota – Liguria, Emilia-Romagna e Umbria – per dare la parvenza di un vento elettorale cambiato a favore della sinistra.
Sulla caduta della Meloni dopo le Europee e comunque nel corso del terzo anno di governo, scommette dall’inizio Renzi; di recente anche Cacciari in un’intervista al Corriere della sera si è sbilanciato in questo senso, dicendo che bastano due pomeriggi ai mercati per rovesciare con un golpetto finanziario (diciamo noi) il governo in carica. Convinzione condivisa anche al governo, da cui la prudenza.
Qual è la ratio della svolta? Si potrebbe dire che nonostante le numerose prove di lealtà e di adesione al Quartier Generale, sussistono sulla Meloni riserve, accresciute dal mancato sostegno all’elezione di Ursula Von Der Leyen, lo scontro per il controllo del comando Nato nel sud Europa, le visite a Roma da Mattarella e i vertici parigini appena la Meloni è volata a Pechino; la sua amicizia malvista con Marine Le Pen e con Orbàn, i suoi tentativi di una politica estera relativamente autonoma, da ultimo con il viaggio in Cina. E sopratutto il timore che l’Italia meloniana-salviniana possa diventare domani la sponda euro-mediterranea di Trump, bestia nera dell’Establishment.
In realtà, dietro le ragioni contingenti c’è un nodo strutturale: i governi nazionali, quando non possono essere affidati direttamente al personale della Casa – tecnici, maggiordomi o affini – devono allinearsi nelle scelte di fondo, e non possono pretendere di sottrarsi ai cicli sempre più brevi di durata loro consentita, per evitare che con la permanenza lunga al governo azzardino una parvenza di sovranità nazionale, politica e popolare e di autonomia decisionale. Il ciclo previsto da tempo non supera il triennio. Fatti questo mezzo giro ma poi devi riportare la staffetta qui. Brevi governi di passaggio, in modo che ben si comprenda quali sono i poteri veri e permanenti e quelli fittizi e transitori, e ben si rispecchino gli interessi forti (economici, finanziari, militari, geo-strategici) rispetto a quelli labili collegati al consenso, gli umori, le retoriche identitarie.
I cicli della politica dopo Berlusconi, sono stati sempre più corti, nessuno è durato più di un triennio, inclusi Renzi e Conte nel suo duplice format, e alla fine anche Draghi. Il triennio sembra essere ormai la curva fisiologia della leadership politica, anziché il quinquennio canonico delle legislature. Abbiamo presidenti della repubblica che diventano monarchi a cui si concede il bis dei già lunghi settennati, e poi abbiamo presidenti del consiglio che scadono precocemente, per consentire il turn over e impedire che mettano radici e passino da esecutori a decisori. Tutti transitori…
Da qualche tempo, dopo un anno di prove, scetticismo e incredulità, è in corso una specie di investitura politico-mediatica di Elly Schlein. Lo si capisce da troppi indizi; è trattata da prossima premier, le hanno dato il numeretto e aspetta il turno. La politica ci ha abituato a ricambi repentini e a giri completi di turnazione: antipolitici e politici, tecnici e grillini, sinistre e destre, non avendo il centro una consistenza elettorale che permette di governare da solo. In questo modo tutti sono provvisori, sostituibili e complementari. Così ora si prepara il turno della Schlein, e ci sono già le tifoserie mobilitate, i marchettifici pronti a narrare il cammino dell’astro nascente, riconoscerle uno spessore politico prima negato e lanciare la svolta. Ma è ben chiaro che eccettuata la fuffa, che riassunsi sin dall’inizio in “gay, migranti e bella ciao”, la politica richiesta alla Schlein non è né più né meno di quella che si pretende dalla Meloni: in politica estera, nelle alleanze, nelle scelte economiche, civili e militari. La stessa di Draghi, e di Conte. La fuffa serve per sceneggiare il cambiamento, ma la sostanza resterebbe la stessa, anzi i dem sono più omogenei al Quartier Generale e ai suoi paraggi, e in più non sono sovranisti ma sottanisti, cioè reputano l’Italia un inquilino subalterno del Palazzo euroglobale. La loro speranza è che arrivi la Harris, Amala col K, alla Casa Bianca. Ma se arriva Trump, si complicano le cose.
Intanto la prospettiva serve per minacciare la Meloni e farla rientrare nei ranghi; e dare più spazio di manovra a Tajani e ai centristi rispetto a Salvini (nel frattempo Crosetto è sull’attenti, in tuta mimetica, pronto per la guerra). L’Italia si attrezza di nuovo a portaerei della Nato in vista di imprese belliche e il Mediterraneo si conferma acqua di colonia.

Marcello Veneziani