Ci salveranno i nascenti…

 

La cicogna, in versione Dhl, mi ha portato lo scorso pomeriggio un vagone di neonati. Era di maggio, ero in mezzo a un tripudio di fiori nel nostro giardino, e ho ricevuto questo dono inatteso. Non aspettavamo nessuno, tantomeno neonati, l’età gravida è ormai lontana, passata per sempre. Eppure è arrivato un carico di creature, fresche di nascita, accompagnate da un corteo di madri col pancione. Non è un sogno e nemmeno un delirio, ma una sorpresa che ti riconcilia con la vita, col suo sorgivo stupore, con l’infanzia che arriva da un misterioso aldilà e ti guarda con quegli occhi nuovi e una vita intera davanti. Pensate, per un momento pensate, al nostro presente, così avaro di bambini e di natalità, che giudica oscena la fertilità e offensiva, bestiale, retrograda la maternità. È il tempo in cui l’aborto diventa un dogma costituzionale, la devozione lgbtq+ si fa legge europea. È il tempo dei figli di Nessuno, degli uteri in affitto, della compravendita di feti. È il tempo in cui gli esperti dicono che la statua di una mamma che allatta è divisiva e va tolta dagli spazi pubblici. È il tempo che ha separato il sesso dalla procreazione, le voglie dal destino; che reputa offensivo ogni accostamento tra donna e maternità. È il tempo del declino e della decadenza. Poi ti arriva a casa un librone pubblicato da Taschen di una fotografa australiana, nota nel mondo per le sue foto sulla nascita e sulla maternità. Il libro si chiama Small World, ma quel Piccolo Mondo è la promessa che il Mondo grande non finirà. Arrivano i rinforzi, c’è il ricambio.
Il libro, con brevi testi in più lingue, parla con le immagini, come accade ai miti e alle fiabe. Lei, l’autrice delle fotografie, sia benedetta, si chiama Anne Geddes, è stata madre tempo fa, ma semel mater sempre mater, una volta che si è madri lo si è per sempre. “Attorno ai bambini appena nati – dice Anne – c’è solo il bene ed è questo che mi affascina”. L’inerme, assoluta purezza del bene e del bello in natura. La gioia di vedere neonati, dice, non invecchia mai.
La sua, a scherzarci su, è l’Opera Maternità e Infanzia. È una sfilata di madri di ogni continente, con le pance piene di figli, e tanti neonati.
L’amore materno è il primo amore che non si scorda mai più della passione fiammeggiante che si accese nella nostra mente, nel nostro cuore e nel nostro corpo la prima volta che ci innamorammo. E’ tua madre, che hai conosciuto prima di venire al mondo, e ti ha nutrito, amato e accudito già prima di nascere. E’ quello l’amore più carnale e più spirituale, anima e corpo, amore necessario come l’aria che respiri, che ti accompagna per tutta la vita, dalla nascita alla morte.
Quelle immagini valgono più più di una predica pur benedetta del Papa sulla natività, più di un discorso del ministro della famiglia, interrotto dai democratici abortisti; più di una legge, un saggio, una benemerita manifestazione in favore della vita. Quell’album di foto racconta la vita nascente, lo stupore di venire al mondo, la meraviglia di esistere; e l’amore naturale a prima vista suscitato da quelle primizie viventi. Prima di ogni pensiero c’è la visione, che sprigiona vita, promessa e bellezza.
Il libro della vita nascente ci è pervenuto in dono da una amica carissima, Marilena; è già troppo che dica il suo nome, conosco la sua riservatezza, l’ho già oltraggiata con questa indiscreta delazione. Quelle immagini ci riconciliano col mondo, con la realtà, fanno bene alla vita. L’amore tornante per la vita che nasce, che apre gli occhi, scopre il mondo e si rallegra di essere vivo. Hai voglia a ragionare, alla fine l’unica risposta al morire e all’invecchiare è il nascere, la vita che sboccia, lo spettacolo di un neonato all’Inizio. Certo, non sei tu a nascere, a te tocca il declino; ma è bello sapere che il mondo non finisce con noi, che la vita continua oltre la morte. L’importante è spostare il baricentro dalla tua vita singola alla vita del mondo, che si avvicenda e torna a fiorire. Tutte le culture di morte che negano l’essere, desiderano il non essere, il nulla, il vuoto, la liberazione da tutto, tacciono davanti a un campo fiorito e al profumo di maggio, al bambino che nasce, al bambino che cresce, alla madre col pancione. Sono mamme e bambini di ogni parte del mondo, di ogni razza e colore, perché la vita è universale e si estende al regno animale e al regno vegetale. Non escludo che anche i minerali abbiano i loro battesimi. Poi, certo, la vita non è un pranzo di gala; è difficile, per chi nasce e per chi si prende cura, ci sono mille problemi, a volte si soffre. Scomodo, costoso, faticoso. Ma val la pena vivere e ben disporsi verso chi nasce.
Non riesco a descrivervi con le parole le immagini che sto in questo momento sfogliando. Ogni figura è una sorpresa, una tempesta di vita e di colori, sguardi piovuti dal cielo, finestre di luce, una diversa dall’altra, con la promessa del giorno che viene. Venuti alla luce, o dalla luce, dopo l’anticamera buia nel grembo materno. Tutto albeggia in queste figure, è la festa dell’uomo che nasce; eppure l’uomo è una bestia cattiva, a volte brutale, vive tra rabbia e dolore, è mortale, e sfoga la sua mortalità infliggendola agli altri. Pensa di scaricare il male sugli altri. E così lo moltiplica.
Queste immagini nascenti per un momento sospendono sconforti e tristezze di un’epoca senza eredi, di un nonno senza nipoti, di una società che mal sopporta le creature; e di città che si svuotano di figli e di bambini, si riempiono di vecchi, con famiglie destinate a estinguersi nel giro di pochi anni o quantomeno di veder emigrare gli ultimi epigoni in imprecisati altrove, spesso non luoghi. Ma ogni angoscia sembra svanire o sopirsi nel battito d’ali che senti sfogliando quelle pagine, gremite di neonati, tra facce e destini che ti guardano e tendono la mano per ricevere protezione e darti speranza. La vita che nasce è la più bella risposta a ogni perdita; passata, presente e futura.

Marcello Veneziani  

La mappa di un millimetro cubo di cervello umano, per la prima volta: «Una complessità mai vista prima»

Ricercatori di Google e neuroscienziati dell’Università di Harvard hanno combinato l’imaging cerebrale con l’intelligenza artificiale, ricostruendo le cellule e le connessioni in un tessuto grande quanto mezzo chicco di riso

Un millimetro cubo di cervello mappato con dettagli spettacolari

Neuroni in un frammento di corteccia cerebrale (credit: Google Research & Lichtman Lab, Università di Harvard; rendering di D. Berger, Università di Harvard

Potrebbe sembrare un prato fiorito, un paesaggio onirico. Ma anche un’opera d’arte estremamente complessa. E in fondo l’immagine qui sopra è davvero un’opera d’arte incredibile: si tratta di un millimetro cubo di cervello umano ingrandito all’inverosimile.

Mezzo chicco di riso

Il lavoro è di un team congiunto di ricercatori di Google e neuroscienziati dell’Università di Harvard, che hanno combinato l’imaging cerebrale con l’elaborazione e l’analisi delle immagini basate sull’intelligenza artificiale, ricostruendo le cellule e le connessioni all’interno di un volume di tessuto cerebrale grande quanto mezzo chicco di riso. È una visione senza precedenti del cervello umano, che potrebbe aiutare a comprendere meglio i disturbi neurologici e a rispondere a domande fondamentali sul funzionamento della nostra «materia grigia». Le sei immagini ottenute dai ricercatori, pubblicare su Science e Nature, sono state messe a disposizione della comunità scientifica.

Oltre 50mila cellule

La mappa 3D copre un milionesimo di un cervello e contiene circa 50mila cellule e 150 milioni di sinapsi, le connessioni tra i neuroni. Il frammento è stato prelevato da una donna di 45 anni durante un intervento chirurgico per curare l’epilessia. Proviene dalla corteccia, un’area coinvolta nell’apprendimento, nella risoluzione dei problemi e nell’elaborazione dei segnali sensoriali. Il campione è stato immerso in conservanti e colorato con metalli pesanti, per rendere le cellule più visibili.

Una foresta intricata e misteriosa: ecco come si presenta un millimetro cubo di cervello umano

Un neurone (bianco) con 5.600 assoni (prolungamenti che trasmettono i segnali nervosi, in blu). In verde le sinapsi, cioè le connessioni tra i neuroni (credit: Google Research & Lichtman Lab, Università di Harvard; rendering di D. Berger, Università di Harvard)

Intelligenza artificiale

Jeff Lichtman, neuroscienziato dell’Università di Harvard (Cambridge, Massachusetts) e i suoi colleghi hanno tagliato il campione in circa 5mila fette – ognuna dello spessore di 34 nanometri – che sono state poi fotografate con microscopi elettronici. Il team di Viren Jain, neuroscienziato di Google a Mountain View (California), ha quindi messo a punto modelli di intelligenza artificiale in grado di «ricucire» le immagini al microscopio per ricostruire l’intero campione in 3D. «Ricordo il momento in cui sono entrato nella mappa e ho guardato una sinapsi del cervello di questa donna, per poi zoomare su altri milioni di pixel – ha raccontato Jain -. È stata una specie di sensazione spirituale».

Una foresta intricata e misteriosa: ecco come si presenta un millimetro cubo di cervello umano

La corteccia cerebrale ha sei strati, visibili in questa immagine (credit: Google Research & Lichtman Lab, Università di Harvard; rendering di D. Berger, Università di Harvard)

Una estrema complessità

Esaminando il modello in dettaglio, i ricercatori hanno scoperto alcuni neuroni «annodati» su sé stessi e altri in grado di creare fino a 50 connessioni tra loro. «In generale, tra due neuroni si trovano al massimo un paio di connessioni – ha spiegato Jain -. Nessuno aveva mai visto niente del genere prima d’ora. È quasi un po’ umiliante: come potremo mai fare i conti con tutta questa complessità?». Il team ha inoltre individuato coppie di neuroni che formano immagini speculari. «Abbiamo trovato due gruppi che inviavano i loro dendriti (ramificazioni dei neuroni, ndr) in direzioni diverse e a volte c’era una sorta di simmetria» ha aggiunto lo scienziato.

Una foresta intricata e misteriosa: ecco come si presenta un millimetro cubo di cervello umano

Un neurone (bianco) riceve segnali dagli assoni che possono «dirgli» di accendersi (in verde) e quelli che possono «dirgli» di non farlo, in blu (credit: Google Research & Lichtman Lab, Università di Harvard; rendering di D. Berger, Università di Harvard)

La mappa del cervello

La mappa è molto complessa e per la maggior parte deve ancora essere esaminata: potrebbe contenere errori creati dal processo di «cucitura» delle singole immagini. «Molte parti sono state “corrette”, ma ovviamente si tratta di pochi punti percentuali i punti percentuali rispetto alle 50mila cellule presenti» ha ammesso Jain. L’équipe ha in programma di produrre mappe simili su campioni di cervello di altre persone, ma è improbabile che nei prossimi decenni si riesca a ottenere una mappa dell’intero cervello umano.

 Laura Cuppini

La fortuna di essere vittime…

Da qualche tempo è scoppiata una nuova epidemia: il vittimismo. Vero, presunto e presuntuoso. Dal caso Scurati al caso Canfora, ma anche prima, con Saviano, Lagioia e compagni, è una gara a figurare nel ruolo di vittime del truce regime meloniano.

Lo statuto speciale di vittime dà luogo a una serie evidente di conforti e di vantaggi, oltre che donare un’attenzione mediatica speciale su di sé e i propri prodotti, cinta di un’aureola, una fascetta di santità, che moltiplica il successo degli autori e delle loro mercanzie. bI campi più sensibili del vittimismo sono l’editoria, la cultura, il giornalismo e lo spettacolo. Essere censurati o passare per tali offre dei vantaggi inestimabili, perché oltre l’aura epica ed eroica di combattenti per la libertà con sprezzo del pericolo, fornisce una serie di benefits a cascata che si riflettono su tutte le attività esercitate. A parte i casi di sedicenti vittimismi immaginari, in realtà conviene essere vittime di provvedimenti censori o dimostrare di essere invisi ai potenti di turno per una ragione precisa: nella cultura, nell’informazione e nello spettacolo vige un canone inverso rispetto al potere politico. Qui è possibile che per via di quel fastidioso accidente che è la sovranità popolare, possa andare al governo la destra o simili in forza dei voti ricevuti. Ma una volta conquistato il potere politico, il controllo può essere esercitato nell’ambito – sempre più ristretto, in verità- delle competenze inerenti la politica e alcuni accessi derivati. Si possono lambire ambiti contigui al potere politico, come per esempio l’informazione pubblica, la Rai. Ma anche in quella sfera, la politica riesce a decidere le nomine e influenzare l’informazione che direttamente attiene alla politica, alla visibilità dei leader, ai dosaggi, alla benevolenza se non il servilismo verso chi è al governo. Ma il potere politico non incide invece sugli orientamenti di costume, sui temi civili, storici, culturali che restano invariati. Anzi, il potere politico non ci prova neanche a modificare gli orientamenti, oggi come ieri, ai tempi di Berlusconi, e magari anche prima, ai tempi della Dc, almeno dagli anni settanta in poi; in fondo va bene che il potere culturale e ideologico resti da quella parte, giacché alla politica interessa il controllo di giornata su ciò che direttamente la riguarda. Per   dirla in breve, TeleMeloni funziona – come le tv filo-governative precedenti – a pieno regime nell’ambito della politica e nella narrazione a questa direttamente connessa. Non funziona, invece, sui temi ormai presidiati dalla permanenza di una specie – ma sì diciamolo – di egemonia culturale e ideologica. Che rasenta il monopolio, riferito all’industria culturale, editoriale, cinematografica, musicale e dei grandi eventi, rassegne, premi, ecc.  Invece, nei casi di vittimismo appena citati, cosa succede? Gli autori considerati vittime di censura non ricevono alcun danno nella loro attività ma solo vantaggi: sul piano delle vendite e dell’editoria, sul piano dell’informazione e della notorietà, sul piano dei premi e delle partecipazioni a festival, eventi, cordate; per non dire dei vantaggi sul piano accademico e delle loro carriere. Un programma che li cancella, moltiplica l’effetto mediatico sugli altri programmi che poi li invitano per celebrare e propagare le parti censurate; per l’editore che manda in fretta in libreria i testi dell’autore al centro dello scandalo; per le opposizioni che ne fanno subito una bandiera e un simbolo. Un testo viene censurato? Sarà letto con ben altra enfasi nello stesso programma e ripetuto in cento altri programmi, sarà recitato dall’autore in cento manifestazioni pubbliche di piazza e di tv; lo rilancerà perfino il leader politico accusato dal testo, per attestare che è garantista e non censura i testi contro di lui; persino le foche ammaestrate finaliste dello Strega, leggeranno a pappagallo, in coro, nel Collettivo Autori Indignati, la filastrocca banale del testo censurato. Effetto moltiplicatore, altro che censura. Garanzia di successo, altro che persecuzione…

E alla fine del giro, gli stessi censori veri o presunti sono costretti a passi indietro e a reintegrare, con tante scuse e risarcimenti, la Vittima; che nel riceve la solidarietà e l’alta protezione di coloro che attacca (premier, ministro, autorità).  Cosa distingue allora le vere dalle false vittime? Gli effetti che la loro posizione produce. Se scagliarsi contro il potere politico rende così tanto a così vari piani e livelli, non si tratta di vittime ma di ciniche operazioni d’investimento, speculazioni ideologiche nella borsa degli affari culturali.  Le vere vittime, invece, sono coloro che hanno da perdere per le loro opinioni, che si vedono tagliate da ogni significativa visibilità, rimosse da ogni media importante, dimenticate nella loro opposizione clandestina, anche se in molti casi tutt’altro che solitaria ma condivisa da tanti (O impediti di parlare in pubblico). Mentre le vere vittime vengono escluse dalla società inclusiva, cancellate, ignorate nelle loro opere e opinioni, le Vittime per finta, le Vittime Apparenti del Circo Illusionisti, spesso autori modesti e palloni gonfiati, assurgono al ruolo di pseudo-matteotti virtuali o di simil-gramsci in finta pelle, celebrati nella loro lotta intrepida contro il potere, con rimborso a pie’ di lista, ampio risarcimento più lauta indennità di rischio. Insomma, con l’egemonia culturale sempre nelle mani della sinistra, le vere o immaginarie censure politiche alla cultura, funzionano a contrario, sono spot promozionali ad alto reddito.

Marcello Veneziani   

Non resta che privatizzare la Rai..

Al decimo programma televisivo che denuncia in coro la nascita di un regime televisivo meloniano, al decimo annuncio in video del sindacato giornalisti Rai, Usigrai, che lo sciopero ha raccolto quasi l’ottanta per cento di adesioni contro la deriva autoritaria della Rai, e al decimo militante telesovietico che denuncia la Rai di regime perché nonostante lo sciopero ha trasmesso i tg, mi chiedo: ma siamo alla demenza bilaterale, sono cretini e/o ci prendono per cretini?   Ragioniamo. Se ci fosse davvero un regime non ci sarebbero così affollati programmi, giornalisti e conduttori che ripetono all’unisono la menata del regime di destra; se fosse tale, un vero regime non lo permetterebbe. Se poi ci fosse davvero un regime non ci sarebbe l’adesione libera e massiccia, come quella che viene propagata, allo sciopero contro la Rai di regime; ci sarebbero pressioni e intimidazioni a impedirlo. E ancora: tra persone normali, di comune buon senso, lo sciopero è un diritto, non è mica un obbligo; sicché se tu hai la possibilità di astenerti dal lavoro e di far leggere un comunicato in tutti i tg in cui spieghi le tue ragioni, ci dev’essere pure da parte di chi non si riconosce nelle ragioni dello sciopero e nel sindacato storicamente di sinistra della Rai, il diritto di poter invece lavorare. Così come un’azienda, qualunque azienda, non deve impedire lo sciopero ma ha il diritto e il dovere, trattandosi di un servizio pubblico, di mandare in onda l’informazione e cercare di garantire la continuità del servizio. In base a quale legge mafiosa la dichiarazione di uno sciopero deve comportare l’allineamento forzoso e silenzioso di tutti i dipendenti, di tutti i sindacati, dell’azienda al diktat promosso dal soviet dei giornalisti Rai sulla base di una sua lettura unilaterale e partigiana?  Ma ora siamo arrivati a un punto in cui bisogna mettere insieme tutti i pezzi e arrivare a coerenti conclusioni.

Dunque, se come voi dite, la Rai sta scivolando in regime, se la Rai, come voi ripetete, sta andando male, se molti personaggi della tv lasciano la Rai e vanno nelle tv private, viste le offerte vantaggiose e l’impossibilità della Rai di essere competitiva sul piano delle contro proposte, allora la soluzione conseguente che taglia la testa al toro è una sola: privatizzate la Rai, cedetela sul mercato. Si, a questo punto è l’unica ragionevole soluzione per impedire che il potere politico la utilizzi come megafono di regime asservita al governo in carica (un tempo la Rai rispondeva al parlamento, poi mi pare con Renzi, che mi pare fosse allora il leader del Pd, passò a rispondere direttamente al governo); per evitare questa caduta costante di qualità e di ascolti che denunciate; e per mettere fine a questa agonia e fuga di celebrità che lasciano l’azienda pubblica e vanno nelle tv private, nonostante molti di loro fossero storici fautori e testimonial della Tv pubblica contro le tv commerciali. Chi scrive è stato per anni un difensore del ruolo pubblico della Rai, credeva ancora alla bella storia della principale azienda culturale italiana e riteneva che davvero fosse necessario avere un’azienda che si ponesse come missione la crescita culturale e civile del paese. Ero memore del ruolo educativo della Rai e sappiamo quanto la radiotelevisione pubblica abbia contribuito all’istruzione di massa, all’unificazione nazionale e all’uso popolare della lingua italiana. Ho sempre pensato all’utilità di un sistema misto, non solo nell’informazione, con una sfera pubblica e una privata; e ho sempre temuto la privatizzazione generale, la mercatizzazione globale dell’informazione.  Ma a questo punto, visto il pappone velenoso che si è via via stratificato nell’azienda pubblica, e vista la deriva della Rai, penso che sia meglio metterla sul mercato. Naturalmente non si potranno più garantire endemiche rendite di posizione, pletoriche redazioni, giganteschi parchi collaboratori a spese della Rai, migliaia di stipendi e così via. Sarà il mercato a decidere.  Bisogna avere il coraggio di rimetterla sul mercato, mettendo così subito a tacere chiunque dica o voglia effettivamente asservire la Rai al potere. Finalmente avremmo una Rai alla stessa stregua degli attuali gruppi editoriali, reti padronali, network transnazionali, cartelli imprenditoriali, come tutte le altre fonti d’informazione e intrattenimento che ci sono in giro. E ci libereremmo definitivamente dall’assillo sul canone televisivo. Che dite, facciamo un piccolo sforzo? Si immettono sul mercato e gli stessi soggetti che sul mercato si sono accaparrati format, autori e conduttori di provenienza Rai, potranno direttamente accaparrarsi le reti e le testate giornalistiche. Non potete dire infatti che se finisce ai privati viene stuprata e sottomessa a chissà quali oscuri progetti; se i vostri colleghi hanno preferito Cairo, Discovery, Sky, Mediaset alla Rai, perché non si potrebbe scorporare direttamente la Rai e dividerla tra gli stessi o tra altri soggetti che decideranno di partecipare allo smembramento del carrozzone più chiacchierato del nostro Paese? E se siete così bene organizzati, voi del soviet interno alla Rai, potrete concorrere all’asta e magari accaparrarvi una rete, una testata, in cui magari vi sforzerete di stipare tutto il personale eccedente della Rai, oggi spalmato su reti e testate.  In certe cose non si può essere più signori né fessi e tantomeno illusi sulla missione pubblica della Rai, che a vostro parere esiste solo se risponde al potere della sinistra o paraggi. Dite che è una Rai di regime? Eliminatela, abolitela. Un piccolo sforzo, presidente Meloni, per dimostrare la sua buona volontà e per smentire chi la vuole fondatrice di TeleMeloni: sia lei ad avviare questo processo di privatizzazione. E buona notte al secchio. Diranno che pure il passaggio al libero mercato sarà un segno di regime? Certo che lo diranno, e si copriranno di ridicolo, anche perché se si facesse un referendum sulla Rai gli italiani darebbero loro torto marcio e chiederebbero a gran voce di liberalizzarla. Non avrei mai pensato di arrivare a queste conclusioni ma se questa è la realtà, se questa è la deriva…

Marcello Veneziani                                                                                                                   

Quello stupro di massa dimenticato…

Se cercate la madre di tutte le violenze alle donne, gli stupri e i cosiddetti femminicidi, dovete risalire a 80 anni fa nel centro-sud d’Italia. È il capitolo amaro e atroce delle cosiddette marocchinate. I singoli episodi di violenza e di abusi che si leggono quotidianamente e che suscitano ribrezzo e preoccupazione, impallidiscono di fronte a una vera e propria mattanza di corpi femminili, ragazze, minorenni o sposate, che avvenne nella primavera di ottant’anni fa, in Italia, in un’area che va dalla Toscana alla Campania e alla Sicilia, con particolare accanimento nel basso Lazio. Non fu opera di sciagurati maniaci sessuali, ma fu quasi pianificato e autorizzato come bottino di guerra, ed ebbe come protagonisti soldati in divisa di eserciti di liberatori, come i francesi.
Esorto le femministe di lotta e di denuncia, le compagne di piazza e di corteo, le parlamentari progressiste e radicali, le combattenti antifasciste, antisessiste e le attrici impegnate, ad aprire e approfondire quella pagina di storia che risale alla primavera del 1944.  E vi suggerisco un insolito punto di partenza. Andate a scoprire chi era Maria Maddalena Rossi. Per aiutarvi nella ricerca vi dirò che aderì al Partito comunista quand’era ancora clandestino, fu arrestata dalla polizia fascista, mandata al confino, espatriata. Poi fu eletta nell’assemblea Costituente nel gruppo comunista, fece battaglie per la parità dei diritti delle donne; fu parlamentare del PCI, sindaco, presidente dell’Unione Donne Italiane. Morì novantenne nel ’95. Insomma ha i titoli a posto per essere celebrata dalle femministe progressiste.
Perché proprio lei? Perché nel ’52 aprì in un’interrogazione parlamentare quel capitolo scabroso e rimosso della seconda guerra mondiale nelle vulgate storiografiche sulla liberazione: le marocchinate, ovvero le migliaia di donne italiane stuprate, violentate dalle truppe marocchine venute a “liberare” l’Italia con gli alleati. In Ciociaria, in particolare, fu uno scempio, di cui restò traccia molti anni dopo nel film La ciociara di Vittorio De Sica con Sophia Loren, tratto da un romanzo di Alberto Moravia. Donne stuprate e messe incinta, bambini violentati, più di mille uomini uccisi per aver cercato di difendere le loro donne, madri, mogli, sorelle, fidanzate, figlie.
Nel dibattito parlamentare che seguì all’interrogazione della Rossi, venne fuori che il numero più attendibile era di 25mila vittime, ma se si considera che il campo d’azione dei magrebini si estendeva a mezzo centro-sud, il numero di 50-60mila marocchinate indicato da alcune ricerche è plausibile. Il pudore nel raccontare queste storie ne ha ridotto la portata e coperto con un velo protettivo di omertà le reali dimensioni della tragedia. Si voleva tutelare col silenzio l’onorabilità delle loro donne, e non sottoporle anche a una gogna. La responsabilità, oltre che dei soldati marocchini, fu dei vertici dell’esercito francese che dettero loro sostanziale impunità e carta bianca, come un tribale diritto di preda. Non furono i soli, intendiamoci, nella barbarie di quel tempo. Ma un fenomeno così vasto e quasi pianificato, su donne inermi che non avevano colpe è raccapricciante per la ferocia animalesca. Una pagina rimasta impunita e rimossa.
Migliaia di storie strazianti e interi paesi violentati, quando il sud era “liberato”. Per chi voglia approfondire, rimando ai libri sulle marocchinate di Emiliano Ciotti, Stefania Catallo e di una francese d’origine italiana, Eliane Patriarca. Un corposo e documentato dossier uscì sulla rivista ‘Storia in rete’ di Fabio Andriola.
Ma è da sottolineare che una donna comunista, leader delle donne in lotta, antifascista col fascismo imperante – non come i grotteschi militanti postumi dell’Anpi d’oggi – ebbe il coraggio e l’amor di verità di denunciare questo obbrobrio, che per ragioni di antirazzismo e antifascismo ora si preferisce mettere a tacere. Le stesse ragioni che portano a non scendere in piazza se una ragazza oggi è stuprata e uccisa da migranti. O a dimenticare quelle donne violentate, rasate a zero e uccise solo perché ausiliarie della Repubblica sociale; o stuprate in Istria. La stessa omertà che accompagna il vergognoso racket di uteri in affitto, dove la dignità della donna è venduta al capriccio danaroso di benestanti, spesso coppie omosex. Il Pci sessista di quegli anni aveva donne più rappresentative nei suoi ranghi, che provenivano dalla lotta politica, dalla piazza, dalla militanza di base e anche dalla guerra civile.
Probabilmente la Rossi dovette vedersela anche allora con le reticenze dei suoi compagni, lo strisciante maschilismo del vecchio Pci e l’omertà sulle pagine nere dei “liberatori”. Anche perché quelle pagine infami ne avrebbero richiamato delle altre, per esempio gli eccidi nel Triangolo rosso. Suggeriamo alle femministe perennemente mobilitate in campagne contro i maschi e i loro soprusi, di ricordarsi di una femminista, comunista e antifascista che non si tirò indietro a raccontare le scomode verità e le pagine nere della Liberazione. Sarebbe il caso che il presidente della repubblica, che non si lascia sfuggire mezzo anniversario di quel che accadde nella storia della seconda guerra mondiale e della resistenza, si ricordasse anche di questo evento corale, che mortificò la dignità femminile e stuprò i loro corpi, la loro verginità, la loro maternità. Gli orrori della guerra vanno raccontati e ricordati per intero, senza amnesie (come ad esempio il silenzio sugli ottant’anni dello scempio dell’abbazia di Montecassino, bombardata dagli Alleati). Per aiutarlo a ricordare e a ripararsi dietro un’immagine inattaccabile, si ricordi almeno della compagna partigiana comunista Maria Rosaria Rossi, del film di Vittorio de Sica e del libro dello scrittore filocomunista Alberto Moravia. Tre alibi per poter raccontare in modo inattaccabile, compiacendo l’antifascismo dominante, una storia dolorosa di cui furono vittime così tante donne italiane.

(Il Borghese, aprile 2024) Marcello Veneziani

Almirante e Berlinguer si davano la mano…

a cura di Federica Fantozzi per Huffingtonpost

Marcello Veneziani, giornalista e scrittore, oltre che di romanzi è autore di numerosi saggi sulla storia, la filosofia e la cultura della destra non soltanto in Italia. E’ editorialista della “Verità” e di “Panorama”.

1. Alla convention di FdI A Pescara, momento importante perché Giorgia Meloni ha annunciato la sua candidatura alle Europee, Ignazio La Russa ha omaggiato “la figura di Enrico Berlinguer” suscitando un applauso come “coerente continuazione dell’omaggio che Almirante gli rese nel giorno della sua scomparsa”. E’ stato – come spiegano a destra – un gesto cavalleresco e l’onore delle armi all’avversario o un tentativo di allargare il pantheon del Partito della Nazione in campagna elettorale?

A destra piacciono i gesti cavallereschi ma la mitizzazione a destra dei rapporti tra Almirante e Berlinguer funziona più come una forma di legittimazione postuma della destra postmissina e un modo per celebrare Almirante tramite lo specchio di Berlinguer. È l’unico modo consentito…

2. Il riferimento di La Russa è al noto episodio di Almirante che si presentò, solo e senza scorta, alla camera ardente di Berlinguer a Botteghe Oscure, il 13 giugno 1984, per “salutare un uomo estremamente onesto”, accolto da Pajetta e Nilde Iotti, che quattro anni dopo ricambiarono la cortesia alle esequie del leader missino. Perché secondo lei Almirante fece quella scelta?

Almirante amava i bei gesti di teatro ed estetica politica e restò impressionato dalla morte “sul campo” di Berlinguer in un comizio, quasi invidiandola. Poi c’erano stati i rapporti precedenti con Berlinguer e si era creato un reciproco rispetto; confermato anche dalla partecipazione della delegazione del Pci ai funerali di Almirante.

3. Dei rapporti tra i due uomini politici molto si è favoleggiato e poco saputo davvero. Antonio Padellaro, nel suo libro “Il gesto di Almirante e Berlinguer” ha ricostruito da 4 a 6 incontri riservati nel 1978-79 all’ultimo piano di Montecitorio. Per parlare di cosa?

S’incontravano per arginare il terrorismo rosso e nero, si disse, per scambiarsi informazioni, essendo ambedue nel mirino. E magari per capire il ruolo dei servizi segreti nelle trame rosse e nere e nel tentativo di giocarle contro il Pci e il Msi.

4. Erano gli anni del terrorismo rosso e nero, delle congiure dei servizi deviati, dell’uccisione di Aldo Moro, delle dimissioni del presidente Leone. Ex post, si vede traccia concreta di un’interlocuzione tra i due?

L’Msi stava subendo una dolorosa scissione che ritenevano pilotata dalla Dc. E il Pci, dopo il caso Moro, era sulla graticola tra compromessi, frenate e colpi bassi. Ad un incontro Almirante ci andò con una misteriosa borsa in cuoio; forse aveva dei documenti da mostrare. Quegli incontri “galeotti” avvennero in un anno eccezionale, il 1978, l’anno dei tre papi, due presidenti della repubblica, Moro ucciso, Leone costretto alle dimissioni… Tutto stava cambiando, erano perciò possibili anche incontri impensabili. Forse ce ne furono altri, in seguito. Si narra di un mitico incontro a Villa Borghese, da soli, senza scorte. Li immagini, circospetti, come amanti clandestini, coi loro corpi magri, seduti su una panchina di pietra…

5. Meloni è stata anche alla mostra organizzata da Ugo Sposetti. Berlinguer è sulla tessera elettorale 2024 del Pd. La “santificazione” è un’operazione nostalgia? Come scrive Massimiliano Panarari sulla “Stampa” finiti i partiti di massa “il berlinguerismo viene infilato nel frullatore delle suggestioni con funzione di legittimazione e rilegittimazione?

Sì, probabile ma al di là del frullatore erano due personalità diverse, non solo per ideologia e appartenenza. Almirante era il principe degli oratori, paroliere d’Italia, figlio di teatranti e amante di Dante e d’Annunzio; Berlinguer era l’antioratore per eccellenza, sobrio e austero come un sardo aristocratico, di scarso carisma. Almirante sovrastava il suo piccolo Msi, Berlinguer era sovrastato dal grande Pci. Almirante era ammirato e amato da tanti ma votato da pochi; Berlinguer fu amato e mitizzato da morto, ma votato da tanti, nel segno del Pci. Il picco dei voti lo ebbe proprio da morto, quando il Pci sorpassò la Dc dopo il suo grandioso funerale, con Pertini.

6. L’omaggio a Berlinguer, che peraltro Gasparri ha circoscritto all’uomo e giammai al partito che ha rappresentato, è da FdI anche una reazione alle accuse di non volersi dire antifascisti?

C’è un nesso a doppia chiave: per dimostrare che si può stimare e rispettare l’avversario pur non dichiarandosi antifascisti o anticomunisti, come accadde ad Almirante e Berlinguer. Conta la sostanza e non l’ipocrisia di conformarsi al catechismo “correct”.

Marcello Veneziani 

La società senza eredi…

Non siamo eredi, non lasciamo eredi. Non ereditiamo niente da nessuno, non lasceremo eredità di niente a nessuno. È questa, per dirla in breve e in modo diretto e brutale, la fotografia della nostra condizione oggi. Ogni vita è un fatto a sé. La sconnessione dal prima e dal poi riguarda in varia misura e a vari livelli di consapevolezza ciascuno di noi, nella vita personale e in quella pubblica e sociale. Anche la politica schiva o rinnega le eredità. Restano in politica come nel commercio marchi inanimati e sbiadite icone, ma nulla che somigli a un’eredità. Per la prima volta nella storia dell’umanità, o almeno della storia a noi nota, viviamo in un’epoca senza eredi. O quantomeno è la prima a non riconoscere alcuna eredità come valore da custodire e da trasmettere. La prima epoca ad avvertire, come Re Luigi XV, che dopo di noi verrà il diluvio; finirà con noi il mondo nostro. Dopo di noi nessuno continuerà la nostra opera, nessuno salverà qualcosa della nostra eredità; non lasceremo tracce, tutto sarà cancellato dall’acqua e dal vento. L’acqua dell’oblio che cancella ogni orma e il vento della rimozione che spazza ogni cosa. È il coerente epilogo di una società senza padre, poi diventata società senza figli, una società parricida e infanticida, all’insegna delle orfanità elettive. La società dei mutanti e dei nonati, per via della denatalità e dell’aborto. L’epoca del nichilismo alla fine mantiene la promessa: di tutto resterà niente, dopo di noi il nulla.  A chi lasci i tuoi beni, il tuo patrimonio di vita, spirituale e reale, la tua biblioteca, il tuo archivio di ricordi, oggetti e pensieri? Ai topi e agli inceneritori. Verrà al più estratto da quel patrimonio il loro valore venale e mercantile, verrà cioè quantificato e svenduto ciò che ha valore commerciale; se privo di valore economico occorrerà disfarsene nel modo più rapido e indolore, sarà un’opera da svuotacantine o da wc chimico. Dovrà svanire senza lasciar traccia di sé. Lo statuto di eredi vale finché si è dal notaio, ovvero fino alla commutazione delle intenzioni testamentarie in beni da usufruire. In ogni campo ha valore positivo ciò che non è ereditato e non lascia eredità, ciò che è nuovo, senza precedenti o destinato a sorpassare e far dimenticare ogni antefatto. In politica ogni leader e ogni movimento deve presentarsi come nuovo, deve effettuare radicali restyling che sono un periodico disfarsi delle eredità per apparire più adeguati al presente e meno gravati da scheletri nell’armadio, ingombranti eredità da cancellare. Nuove app ci attendono, non è più tempo di mantenere le vecchie. La storia in sé è un peso insopportabile. La tecnica ci dispone di continuo verso l’aggiornamento.  Allo stesso modo sono disconosciuti i maestri, perché non ci sentiamo eredi e continuatori della loro opera e della loro lezione, non hanno da insegnare nulla perché provengono da tempi arretrati rispetto al nostro, con tecnologie decisamente superate. Nessun abitatore del passato può guidarci nel futuro o insegnarci qualcosa di adeguato al mondo che verrà.  Del passato viene salvata solo la memoria delle vittime, però non è un’eredità da salvaguardare e da continuare, ma vale a contrario come un monito per non ripetere quegli e/orrori. La memoria delle vittime è un atto d’accusa e di rigetto dell’eredità dei carnefici.   Come si manifesta sul piano generazionale la fine delle eredità? In primis non si fanno più figli; se ci sono partono, lasciano la casa e la città familiare, cambiano orizzonte. E se non partono si diseredano da soli, si allontanano con la mente e col cuore, reputano che vivere sia emanciparsi da chi li ha messi al mondo. Non mancano eccezioni, e non sono neanche rare; ma la tendenza generale, lo spirito del tempo, è quello. Niente eredi. I paesi si svuotano, non c’è ricambio, le famiglie sono sull’orlo dell’estinzione dalla denatalità e dall’emigrazione; presenze secolari spariranno nel volgere di pochi decenni; al più resterà dispersa nell’altrove una spaesata disseminazione. I nostri contemporanei si sentono figli del loro tempo più che dei loro genitori o dei loro paesi d’origine e dei loro maestri. Si sentono autoprodotti, si pensano autocreati, ritengono – anche se poi non è vero- di fabbricarsi e autogestire per intero la propria vita   . Di conseguenza non si tramanda più niente, l’infedeltà diventa un valore e un atto di autonomia, tutto si rende obsoleto in fretta: dall’obsolescenza programmata degli oggetti all’obsolescenza integrale e inesorabile dei soggetti, che sopravvivono solo se sono fluidi, geneticamente modificabili, mutanti.  Altra conseguenza del rifiuto dell’eredità: non vale la pena ricordare, o peggio nutrire nostalgia del passato e di chi non c’è più; tempo perso, vano esercizio, grottesco spiritismo contro il procedere ineluttabile della vita. Anche per questo si interrompe la trasmissione di saperi, principi, pratiche, consuetudini, esperienze: tutto ciò un tempo si chiamava tradizione era fondata su un principio di eredità biunivoca, ossia ricevuta e consegnata, che sintetizzo nello status di “eredi gravidi”. Il passato è privo di valore e significato, va cancellato, rimosso, maledetto, superato; tutto è accelerato, meccanizzato e sostituito. Non si trattiene nulla, tantomeno il senso della continuità.  Ogni vita finisce su un binario morto, non proviene da nessun luogo e non continua da nessuna parte. Benvenuti nella società senza eredi. Non resta che confidare nell’imprevisto, nell’ignoto, nella pietà, nei tornanti. O nel miracolo di imprecisati dei.

 Marcello Veneziani

Quando ci sarà la vera liberazione dal fascismo?

Sarà davvero una festa, il 25 aprile, quando avverrà sul serio la Liberazione dal fascismo. Definitiva, irreversibile, generale. A ottant’anni meno uno dalla sua fine, sogno una cosa che ci è stata finora negata: la cessazione di questa gogna permanente, di questo discrimine perenne e manicheo, di questa divisione ideologica dell’umanità in giudicanti e giudicati che ci portiamo addosso da quattro ventenni nel nome di uno, con un accanimento via via crescente con gli anni, anziché decrescente, come sarebbe naturale con la morte dei protagonisti, l’allontanarsi nel tempo e lo stingersi delle passioni. Fino all’assurdo dei finalisti dello Strega che leggono tutti insieme lo squallido monologo antifascista di Scurati contro il governo Meloni, come se fossero un soviet o un Intellettuale collettivo con un solo cervello (bacato). Così usato, l’antifascismo diventa un codice immorale e incivile che antepone all’intelligenza, al valore, al talento una sorta di rito preventivo e discriminatorio di affiliazione, a cui è obbligatorio uniformarsi. Altrimenti sei fuori.
Il fascismo non è più nella storia e nella realtà da ottant’anni e nessuna forza politica in campo ne rivendica l’eredità; chi ne stabilisce allora la persistenza, chi attribuisce e certifica la definizione di fascista? Lo decide a suo insindacabile giudizio una commissione politico-mediatica-intellettuale permanente, auto-nominatasi per autoacclamazione, che corrisponde alla sinistra. Qui c’è tutta la falsità, l’impostura, l’uso intollerante e paranoico, vessatorio e diffamatorio del fascismo.
La liberazione dal fascismo, per essere vera e compiuta, comporta naturalmente anche la liberazione dall’antifascismo che ha senso solo in presenza dell’antagonista, e non in assenza o addirittura post mortem.
Fascismo e antifascismo vanno restituiti alla storia, e anche nel giudizio vanno storicizzati, cioè depoliticizzati, sottratti all’agone della polemica attuale o caricati sulle spalle di posteri che non possono portarne il peso: non ha più senso applicare quel discrimine oggi, come non avrebbe più senso il discrimine tra comunisti e anticomunisti o tra democristiani e antidemocristiani oggi che il comunismo o la Dc non ci sono più, anche se sono rivendicati o rimpianti da taluni. Ma ancora più insensato è che sia una parte a imputare il fascismo a carico dell’altra, senza reciprocità, perché non è ammessa la facoltà inversa. Noi giudici, voi imputati, for ever.
Sul piano storico vanno distinti gli antifascisti veri che si opposero al regime fascista, come Matteotti, che meritano ogni rispetto e ammirazione, soprattutto se pagarono di persona; dagli antifascisti di comodo, a babbomorto, in pieno dominio antifascista, che si attribuiscono una superiorità etica e morale in suo nome; si arrogano il potere di essere perennemente giudicanti, officianti e sovrastanti nel nome assoluto della religione Antifa.
Ai loro occhi quelli che vengono accusati di fascismo non solo non hanno diritto di difendersi ma devono prendere gli schiaffi e dar ragione a chi li schiaffeggia, mentre li schiaffeggia. Altrimenti vuol dire che sono rimasti fascisti dentro o sotto la buccia.
Peraltro è ormai comprovato e assodato che l’accusa di fascismo rivolta al governo non porta alcun profitto politico-elettorale a chi la lancia, ma serve solo a consolidare una cupola di tipo ideologico-mafioso. Questa campagna anacronistica permanente non è infatti condivisa dalla gran maggioranza degli italiani, è un citofono interno al proprio condominio; funziona a circuito chiuso, non raggiunge gli italiani ma coloro che erano già mobilitati sul tema. Rovesciando ancora oggi le colpe del fascismo su chi è al governo non si colpisce il governo in carica, che su questi temi non perde affatto consensi; si fa solo un danno agli italiani che vedono posposti i problemi reali del presente al fittizio feticcio del Passato Proibito. Ma nel nome sacro e intangibile dell’antifascismo le camorre ideologico-letterarie preservano le loro posizioni di potere.
Il giudizio in merito a quel che accadde un secolo fa non può essere ancora lo spartiacque etnico prima che etico, antropologico oltreché ideologico, tra due mondi intesi come il regno del Bene e il regno del Male. E non può cancellare la preminenza e l’urgenza delle questioni reali del nostro presente. L’opposizione può attaccare il governo in carica sul modo di governare, sulle leggi che ha varato o vorrebbe varare, sul premierato e sull’autonomia differenziata, sulla giustizia sociale e sulla sicurezza, sulla gestione della pubblica amministrazione e sui temi cruciali dell’economia, sul ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo, sulla nostra posizione nelle guerre in corso. I temi non mancano e le fragilità, le incongruenze, le inadeguatezze del governo offrono argomenti reali a chi si oppone. Ma su quei temi la sinistra gioca di rimessa e di rimbalzo, anche perché tutte le cose che sta facendo o non sta facendo la Meloni, le avrebbe fatte o non le avrebbe fatte, se non le ha già fatte a suo tempo, la sinistra al governo. A partire dalla politica estera. L’unica differenza è l’enfasi e la narrazione, ossia la giustificazione ideologica e la fiction che viene imbastita sopra. Al più è la cornice simbolica a differenziarle, non la sostanza. Rispetto a questa sinistra inchiodata al fascismo, perfino i grillini appaiono più seri del Pd & affluenti. Stanno sul pezzo e non sulla reliquia.
La cosa che più sconforta è che da anni denunciamo questo accanimento terapeutico su un cadavere ridotto in polvere e da anni lo scempio prosegue, imperterrito, anzi crescente; quanto più diventa irreale il tema tanto più cresce il pathos con cui viene guarnito.
Alla destra di governo invece dico: non è servito a nulla, come vedete, tutto il vostro atto di contrizione, tutti i santini che avete baciato e tutti i riti esorcistici a cui avete partecipato. Dopo la sequela di abiure, condanne, dichiarazioni frementi di antifascismo da parte vostra, l’accusa di fascismo nei vostri confronti prosegue inalterata. Non avete capito che le vostre parole non basteranno mai perché a decidere che siete comunque fascisti non sono le vostre dichiarazioni ma le loro attestazioni. E’ in mano a loro la sentenza, voi non potete far nulla. Perciò, smettetela di stare al loro gioco, tacete sul tema, rifiutatevi di replicare, di giustificarvi, di sostenere gli esami, ribellatevi alla camorra pseudo-intellettuale di sinistra e alla loro malafede, lasciateli parlare. Che si fottano; non hanno titoli per giudicare. Sarete giudicati dagli italiani per quel che fate e farete al governo e non per la vostra irrilevante opinione sul fascismo.

Marcello Veneziani                                                                                                                         

Sulla sinistra piovono Meloni.

È toccante lo spettacolo dell’esodo, la carovana di giornalisti e presentatori Rai, intellettuali e docenti costretti a lasciare le loro case, i loro uffici e le loro cattedre, sotto i bombardamenti del governo Meloni. Fuggono con carretti di fortuna dove hanno caricato le loro povere masserizie e si incamminano senza una meta, tra grida straziate, temendo imboscate e rastrellamenti delle truppe melonate. Commovente il loro arrembaggio per accaparrarsi i pacchi piovuti dal cielo, lanciati ad opera delle forze alleate, che mosse a pietà per l’esodo del popolo paleosinistrese, cercano di fornire loro soccorso sanitario e beni di prima necessità. L’ultima vittima della M. è il povero Antonio Scurati, biografo di M., inteso come Mussolini, oscurato per un suo monologo sul 25 aprile che era un eroico pistolotto antimeloniano in piena campagna elettorale. (Detto tra noi, ha fatto bene la Meloni a rendere pubblico il testo, anche per togliere ogni pretesto al martire presunto e ai suoi innumerevoli sponsor, con sciacalli a strascico. E per lasciare a ciascuno di giudicare liberamente il tono e il senso del monologo).
Come denunciano da mesi la Repubblica, l’Usigrai, l’Anpi e le ultime, rare voci di opposizione, il governo Meloni ha imposto il burqa tricolore alle donne che appaiono in video e il fez agli uomini. Chi conduce il tg o i programmi ha l’obbligo di esordire col saluto romano, battere i tacchi e mandare un deferente saluto alla Premier.
Non c’è più libertà di pensiero da quando impera la ducetta sgarbatella a Palazzo Chigi; fascista fuori e nazista dentro, minacciosi occhi mussoliniani fuori dalle orbite e turpe anima hitleriana nella sua intimità malvagia. Il regime meloniano ha preso di mira un antichissimo professore col bastone, Luciano Canfora, gli ha attribuito frasi deliranti sul ritorno del nazismo in Italia e per screditarlo dicono che addirittura si professi ancora comunista; così lo ha trascinato in ceppi in tribunale, per poi deportarlo in Ungheria.
Un altro vecchissimo reperto dell’antica Rai assiro-babilonese, Corrado Augias, è stato costretto ad abbandonare nottetempo la sua Torre di Babele perché volevano internarlo in un campo di concentramento, spacciato da Rsa e costringerlo ai lavori forzati, nonostante abbia ormai superato perfino l’età della pensione.
Amadeus è scappato dalla Rai perché gli avevano imposto di condurre i pacchi in camicia nera e gli avevano affibbiato per il prossimo Sanremo la Santanché al posto di Fiorello. Fuggito dalla Rai meloniana con la giacca laminata ma senza un euro in tasca, si accamperà presso una rete semiclandestina che gli passerà il pane e un posto letto in un dormitorio riscaldato. Analogo ricovero ha trovato Fabio Fazio, riuscito a evadere dalle segrete della Rai dove il regime meloniano l’aveva deportato, e ha chiesto asilo politico alla stessa emittente straniera, accontentandosi di una modesta paghetta da dividere per giunta con la Littizzetto e Filippa Lagerback. Dopo abbondanti dosi di olio di ricino, l’ormai smagrito Sigfrido Ranucci si è deciso a cambiare format al suo programma; anziché Report si chiamerà Resort e parlerà solo di turismo, creme abbronzanti e percorsi di salute. Bianca Berlinguer, invece, è sfuggita alle purghe meloniane e ha cercato rifugio in un’emittente comunista clandestina, fondata dal compagno Berlusconi, dove potrà continuare la lotta di famiglia contro il capitalismo. Si è dovuta arrangiare con mezzi di fortuna nella suddetta rete per trasmettere gratis i suoi programmi cancellati dall’Eiar meloniana. Stessa sorte per tanti altri sfortunati che hanno preferito fare programmi di tasca loro piuttosto che sottomettersi al Feccia club della Meloni. Così la povera Lucia Annunziata, espatriata dal penitenziario della Rai coi barconi degli scafisti pidini, ha chiesto asilo politico all’Unione europea. Correva l’anno, il programma di storia condotto da Paolo Mieli, è stato affidato allo storico revisionista Trucidide, e il suo nome promette cose truci. Marco Damilano è stato sostituito con Benito Dapredappio. Sono in tanti ormai estromessi dalla Rai e dalla cultura a vivere di espedienti ed elemosina.
Il prossimo festival di Sanremo sarà condotto direttamente da Ignazio La Russa che farà l’imitazione di Fiorello e sarà circondato da un trittico di procaci vallette patriottiche, chiamate le Trecce tricolori. Il dopofestival sarà condotto dal Cognato in versione agrofloreale e farà collegamenti con la sezione di Colle Oppio e con Salò. Saranno ammessi solo cantanti che accetteranno il nuovo corso: i Maneskin saranno ribattezzati italianamente I Maneschi, Dolcenera si chiamerà Ducenera, I Neri per caso diventeranno Neri per scelta, al posto della figlia di Mango premieranno la nipote di Manganello.
Anche le fiction subiranno drastici cambiamenti: si vocifera di una fiction omofoba dedicata a Ulisse, Penelope e i 40 froci, che insidiavano loro figlio Telemaco e verranno perciò giustiziati dai suoi genitori. Altre fiction inquietanti si annunciano contro i migranti, i rom e i vegani, confusi con i verdi.
In effetti bisogna capire lo sconcerto che regna in Rai, si trovano a vivere per la prima volta in vita loro un’esperienza inedita, senza precedenti: l’intrusione della politica nelle nomine, nei tg, nei palinsesti, con fenomeni mai conosciuti, come la lottizzazione (che fino a ieri, nell’età beata, indicava solo il gioco del lotto e delle lotterie e ora indica la turpe spartizione di potere). Erano abituati alla libertà, scorrazzavano felici a piede libero, e ora invece devono rispondere alla politica e al governo. Cose mai viste in Rai.
La Meloni, che nella precedente vita ha fatto assassinare Matteotti, ha rifondato i Battaglioni M che cantano il loro inno storico aggiornato: “Per vincere ci vogliono i Meloni/ di Mussolini armati di valor”. Dopo aver proibito alle donne di abortire, la ducetta ha costretto alla maternità coatta tutte le donne in età fertile, lesbiche incluse. Corsi gratuiti di rieducazione alla normalità e alla cristianità si annunciano per i gay, i trans e gli islamici; incentivazioni e superbonus per chi riesce a bonificare i quartieri e rispedire gli immigrati a casa loro. “La destra vuole gestire il corpo delle donne” e manda il mullah Brunovespa a prenderle porta a porta, per poi seviziarle e segregarle; così denunciano le martiri Dacia Maraini e Chiara Valerio, vittime attive e passive della caccia allo Strega.
Il tutto però è avvolto in un’atmosfera kafkiana: perché a occhio nudo sembra il contrario. Il paese non si è nemmeno accorto del cambio di regime e se la gente rimprovera qualcosa al governo Meloni è proprio il contrario, di rimangiarsi il loro passato all’opposizione e di essersi allineati a Draghi, Mattarella, Biden, von der Leyen, Zelenskij, Netanyau. E invece l’apparenza inganna, è solo uno specchietto per le allodole e per gli allocchi. Alla Schlein non l’hanno vista arrivare, al Duce non l’hanno visto tornare. Occhio al fascismo trans: il Duce si è coperto la pelata con una parrucca bionda…

 Marcello Veneziani     

L’Europa è abortita .

L’ultimo atto a Bruxelles rivela cos’è davvero l’Unione europea: un aborto. L’Unione Europea non è mai nata, ha rifiutato di darsi un’identità, in compenso ora inserisce l’aborto tra i fondamenti etici e giuridici dell’unione. Lo fa non per un’esigenza pratica ma è una pura petizione di principio, una professione di fede e ideologia. Questa specie d’Europa vota a larga maggioranza, compresi molti cristiani e popolari, l’aborto come un suo cardine. La destra di governo tace. Proprio all’indomani del documento della Chiesa in cui si definiva l’aborto un omicidio.Sono passati trentadue anni dal trattato di Maastricht, per non parlare dei decenni precedenti della CEE, ma l’Europa non è ancora nata come soggetto politico autonomo e sovrano, con una sua unitaria politica estera e una sua forza militare, un suo governo elettivo e una sua Costituzione, che giusto vent’anni fa, nel 2004, abortì senza più rinascere. Ha ragione Ernesto Galli della Loggia in un editoriale del Corriere della Sera quando sostiene che l’Europa non è un soggetto politico perché non ha un’identità, non ha il senso della propria storia. Da troppo tempo crediamo che la politica sia solo la gestione del presente, il regno dell’attualità e delle emergenze quotidiane; ma la politica priva di radici s’insecchisce, non fiorisce e tantomeno dà frutti. L’Europa ha rinunciato ad avere un ruolo autonomo e iniziative indipendenti, ma si è di nuovo raccolta sotto l’ombrello atlantico della Nato e degli Stati Uniti, evitando di assumersi la responsabilità di un ruolo strategico di equilibrio, con capacità autonoma di negoziare sul piano internazionale.
Lo vediamo in Ucraina, in Israele, a Gaza, e ovunque.
L’Europa non ha voluto capire due cose elementari che sono le premesse necessarie alla sua identità e alla sua sovranità: la prima è che il mondo è uscito da tempo sia dal bipolarismo americano-sovietico sia dal nuovo ordine mondiale a guida statunitense, con gli Usa arbitro e garante del pianeta. Il mondo oggi è diviso in aree differenti, dalla Cina all’India e alla Russia, nonché varie medie potenze che esercitano un’importante egemonia di area o mantengono una loro irriducibile autonomia, dalla Turchia all’Iran, fino al Brasile e alla Corea. Per non parlare di aree in ebollizione come il Medio Oriente, l’Africa, il sud est asiatico. Dunque, all’Europa tocca diventare maggiorenne, riprendersi le chiavi di casa e agire nel mondo confrontandosi con le altre potenze sovrane, senza delegare a nessuno.  Ma per avere un’identità devi porti sul piano internazionale non come l’emanazione periferica del Blocco Occidentale, la propaggine allineata alla politica degli Usa ma devi essere ben consapevole che la geopolitica, prima ancora che gli interessi primari dei popoli europei, ti portano a differenziare la tua posizione da quella di un Paese che ha storia, interessi e mire differenti, ed è separato da un oceano dal blocco euroasiatico e dall’Africa, mentre noi siamo attigui.
Ma dietro il tema politico e strategico carente, c’è il tema identitario, anzi la voragine, il vuoto identitario. La sua rappresentazione migliore è proprio quella simbolica, l’icona della sua bandiera: tante stelle intorno a un vuoto, un buco nero al centro. Il tema dell’identità non è solo storico, come invece ritiene lo storico Galli della Loggia, giacché investe le radici culturali, spirituali, religiose, che non sono riducibili alla sola dimensione storica, pur così importante.  Qui s’innesta il tema di fondo che attraversa la memoria storica e investe il più complesso tema della civiltà: l’Europa da tempo ha rimosso le sue matrici; e infatti negando le sue radici greco-romane e cristiane, a cui l’aveva vanamente esortata Giovanni Paolo II, la Costituzione abortì, cioè la Carta d’identità europea non fu emessa.
Ma dopo aver rimosso le sue matrici, glissato sulla sua storia recente, dalla storia delle nazioni europee al trauma dei due conflitti mondiali che l’hanno smembrata e depotenziata, l’Europa vive ora nell’orbita americana. E si sta massacrando con le sue stesse mani con l’ideologia woke, il politically correct, l’anticolonialismo e l’antirazzismo, la cancel culture e chiede scusa al mondo di esistere.  Come pensate che possa emergere un’identità europea se l’Europa rinnega la sua civiltà o arriva a considerarla come una barbarie? Se nessuno difende la memoria storica europea e la civiltà cristiana –  cattolica, protestante ed ortodossa – se dobbiamo leggere le epoche del passato solo come tempi di cui vergognarsi perché dominati da imperi, guerre, soprusi e conquiste. Se arriviamo a smantellare perfino le comunità naturali come la famiglia e nel nome dei diritti civili stabiliamo a livello di norme e di corti europee, un continuo primato dell’individualismo, dei diritti scissi dai doveri e coniugati ai desideri, il diritto alla morte, in forma di aborto ed eutanasia a spese del diritto alla vita e alla nascita; degli uteri in affitto anziché la difesa e la promozione della fertilità naturale e della natalità, cosa pensate che resti della civiltà europea e delle sue tradizioni?
La guerra che l’Europa ha ingaggiato contro se stessa non riguarda solo l’identità storica, come sostiene Galli della Loggia, ma sconfina contro la natura, la famiglia naturale, la procreazione naturale, il diritto naturale, la natura umana.  Salvo poi sventolare l’ecologismo in difesa dell’ambiente, dopo aver tradito la natura nei suoi luoghi e riferimenti più significativi.
Facile dire che il limite dell’Europa è la sua nascita intorno a un’intesa economica, l’Europa delle banche e dei mercati, l’Europa della moneta e non dei popoli. Ma siamo ridotti a quella reductio economica perché non si è fatto nulla per svegliare, rafforzare e proiettare un’identità comune europea, rifiutando il sostantivo “identità”. Così l’Europa è colata dall’alto come una vernice ed è calata come una gabbia di norme, restrizioni e direttive. Ma una vernice e una gabbia non fanno un’identità.

Marcello Veneziani