Quanto durerà la tregua tra governo ed establishment?

Cos’è lo spread? No, non è il differenziale di rendimento ecc. Spread vuol dire in sigla Scusa Per Rovesciare Esecutivi Antipatici Destrorsi. Lo spread è un fantasma che si manifesta solo in presenza di governi eletti dal popolo ma disprezzati dalla Cappa. E poi sparisce. Un tempo investì Berlusconi, e lo mandò fuori strada, propiziando l’avvento dei tecnici col protettorato della sinistra; ora accenna a investire la Meloni e il suo governo ma chi lo dice è complottista e si inventa nemici a scopo preventivo. Il razzismo dello spread si chiama rating, e il tribunale della razza che decreta l’espulsione per indegnità sono le agenzie apposite chiamate a valutare la purezza del sangue, che nell’era mercantile coincide coi flussi finanziari. Nell’era finanziaria il colpo di stato coincide col colpo di spread. Il motivo è sempre lo stesso ma pesa solo su alcuni governi: il debito sovrano.
La variante principale allo spread è giudiziaria: quando non puoi inguaiarli con l’economia, li incrimini sul piano giudiziario. C’è un’internazionale giudiziaria che colpisce puntualmente su basi pregiudiziali e ideologiche, chi nel proprio Paese non sia allineato alla cordata radical-liberal-progressista. Non c’è governo Antipatico Destrorso che non sia passato da queste forche caudine, dall’una o dall’altra, meglio se da ambedue. Lo stiamo vedendo da noi, e non solo, sulla questione migranti.
Ora, si possono arguire due teorie opposte: in ogni parte del mondo, dagli Usa al Brasile, dall’Europa all’Oriente, la destra è sempre guidata da incapaci, criminali o demagoghi; oppure a giudicarli in questo modo sono alcune sette finanziarie, giudiziarie, mediatiche che non accettano i loro governi anche se votati in libere e democratiche elezioni dalla maggioranza del popolo sovrano. Se è valida la prima ipotesi, si può dedurre una teoria razzista che decreta l’inferiorità etnica della destra, ovunque guidata da gente inferiore per moralità, intelligenza, senso della legalità. Se è valida invece la seconda ipotesi, si può dedurre che c’è una pregiudiziale ideologica che diventa antropologica contro di loro, e si scatena ogni volta che vanno al governo. A voi la scelta.
Naturalmente essere nel mirino finanziario-giudiziario non può fungere da alibi per i propri errori e le proprie incapacità. E restarne vittime non è necessariamente una decorazione al merito, ma può esserci anche demerito.
Però resta l’anomalia di questa legge politico-giudiziaria-finanziaria che perverte le democrazie e sovverte governi ed esiti elettorali. Vari sono gli esempi di questa clamorosa divergenza tra i due piani. È il caso di Donald Trump, incriminato come se fosse il più Grande Delinquente d’America, e allo stesso tempo il più gradito dal popolo sovrano alla guida degli Stati Uniti. Come spiegare questa divergenza? Anche qui due tesi opposte: 1) il popolo preferisce i peggiori, chi promette soluzioni semplificate; dunque va guidato e corretto, la democrazia così com’è non funziona, va messa sotto tutela. 2) le oligarchie mediatico-politico-giudiziarie, e vasti settori della finanza hanno interessi divergenti anzi opposti rispetto a quelli popolari e vogliono imporre la loro volontà, servendosi anche di alibi ideologico-umanitari.
Il meccanismo avviene più o meno così in tutto il mondo. Nei rari casi in cui si verifica un cortocircuito in campo avverso, la riabilitazione avviene senza colpo ferire: prendete il caso del pregiudicato Lula in Brasile. Per lui dopo le gravi condanne, c’è stata assoluzione senza ombre; ha piena legittimità a governare, le accuse e condanne passate vengono smacchiate in modo indelebile.
Ma la questione assume anche altri risvolti. Per esempio nel nostro Paese Giorgio Napolitano è stato celebrato in modo unanime dalle Istituzioni, i media, papi e politici, come uno statista d’eccezione e un Grande Padre della patria (non sovietica o ungherese ma proprio italiana). Sui social, invece, lo stesso Napolitano è stato vituperato e criticato in modo radicale, offensivo. Funerali di Stato, non di popolo; tanti vip, poca gente; beatificato dal mondo di sopra, condannato dal mondo di sotto. Anche qui una clamorosa divaricazione tra i due piani. Da una parte la Cappa (in questo caso si è aggiunto anche il governo Meloni), dall’altra il popolo. Gli scontenti. Buon senso vorrebbe che si cercasse perlomeno una via di equilibrio tra gli opposti, senza panegirici né contumelie, con realismo e senso storico.
Il meccanismo è sempre lo stesso. Rivince in Slovacchia Robert Fico (non è parente dell’omonimo neo-melodico grillino napoletano), e viene massacrato dai media perché non è allineato alla Cappa euro-atlantica; però, piccolo particolare trascurabile, la gente lo preferisce ai suoi avversari, lo vota. Si voterà in Polonia e poi in Ungheria? E tu vedi già schierati i media sinistri (per es. il tg3) con i loro peana trionfali per le opposizioni di sinistra che dai loro reportage, sembrano lì finalmente a un passo dalla vittoria, pronte a liberare il paese dall’oppressione e dalla depressione. Poi leggi le intenzioni di voto del popolo sovrano polacco o ungherese, e noti che è l’opposto, stravincono i governi di destra; evidentemente non si sentono né oppressi né depressi da Morawiecki, Duda e Orban. Un divorzio totale, vistoso, tra la rappresentazione e la realtà, e sempre nello stesso senso: la rappresentazione va a sinistra e paraggi, la rappresentanza del reale va a destra e dintorni…
C’è chi fa notare che la Rai e in buona parte Mediaset sono oggi filo-governativi. Dunque non c’è questa egemonia radical nell’informazione. È vero nei tg, nelle nomine e negli spazi politici lottizzati. Ma l’orientamento, le inchieste, la fattura e l’ispirazione di fondo sono in realtà allineati al mainstream e ai suoi santuari. E tali restano oltre l’ossequio ai governanti di turno.
Quanto potrà durare questa biforcazione così drastica? Si arriverà a una resa dei conti, con l’eliminazione o la sconfitta di uno dei due antagonisti, o si arriverà infine a un compromesso, a una tregua?
Nel mezzo veleggia la barchetta Italia, e ancora non sappiamo se si andrà allo showdown o se è rinviato a una prossima occasione per avverse condizioni atmosferiche. In ogni caso è solo questione di tempo…

Marcello Veneziani 

La pesca di beneficienza. Quante chiacchiere e quanti spropositi…

La pesca di beneficenza

La settimana che si è appena conclusa ha girato intorno a una pesca; il frutto che la bambina offre con un’angelica bugia a suo padre separato, dicendogli che gliela manda la mamma, allo scopo di riavvicinarli. Quando ho visto per la prima volta quello spot, non era ancora scoppiata la polemica, e in un primo tempo ho pensato, o forse sperato, che fosse uno di quei messaggi ministeriali, tipo pubblicità progresso, per promuovere la famiglia nonostante i divorzi e gli strappi e farlo dal punto di vista dei bambini.
E invece, l’unico vero messaggio d’amore famigliare che la tv ha lanciato non proveniva dal governo, ma era uno spot pubblicitario di Esselunga. Però, se permettete, è una piccola, promettente rivoluzione che nasce dalla società, dal costume, dalla percezione delle vere sensibilità della gente; non dalle istituzioni, dalla politica, e dai suoi assetti mutati. Dopo gli anni della famiglia felice del Mulino Bianco e affini, da anni domina nella pubblicità il messaggio woke, a cui ha dedicato un’analisi l’australiano Carl Rhodes (Il capitalismo woke, edito da Fazi), denunciando “come la moralità aziendale minaccia la democrazia”. In pochi secondi di spot devi sorbirti le solite allusioni al mondo migliore, alla società multietnica, alla fluidità, al globalismo; ci dev’essere come ingrediente d’obbligo tra i protagonisti dello spot un amore gay o lesbico, un nero o una nera, a volte pure un giallo asiatico, e magari un disabile e un riferimento verde, ecosostenibile. Ma la pubblicità prevalente è incentrata sul culto di sé stessi, star bene con sé stessi, la mitizzazione di sé stessi, grazie ai prodotti miracolosi, creme, auto, pillole e integratori.
Poi, d’improvviso, ti imbatti in uno spot diverso; che non torna indietro al mondo dorato dei mulini finti della nonna, alle valli degli orti e alla stucchevole italianità o alla famiglia di una volta. Ma fotografa una famiglia reale d’oggi, con i genitori separati, la bambina un po’ triste ma reattiva, che vuol riannodare i ponti tra il papà e la mamma e lo fa servendosi di una pesca. La benedetta pesca ha la funzione inversa della mela del peccato; riporta in paradiso, nel piccolo paradiso della vita familiare quotidiana, almeno vista con gli occhi di una bambina.
Tenero, toccante spot, ha ragione Giorgia Meloni che elogiando lo spot e il suo messaggio, ha scatenato la reazione opposta dei cani pavloviani: appena dice una cosa la Meloni loro abbaiano e azzannano il bersaglio. Ma anche gli esegeti ufficiali dei giornali ufficiali hanno fatto i pesci in barile, parlando bene e male dello spot ed eludendo il messaggio più forte. Ma se fosse questo modo di pensare positivo, questo amore piccolo per la realtà, questo impulso all’unione, un punto di svolta mentre imperversa il catechismo woke e i suoi santuari?
Intendiamoci: chi fa una pubblicità non è mosso da ideali o spinte etiche, morali: sia i seguaci del woke sia gli artefici dello spot di Esselunga vogliono vendere i loro prodotti. Ma venderli in un modo anziché in un altro è una scelta significativa. E poi, c’è una specie di eterogenesi dei fini, per cui le intenzioni del committente o degli stessi autori a volte sono deviate, intercettano altri percorsi e raggiungono esiti involontari e impensati in partenza.
La bambina dice una bugia a fin di bene; quella che in chiesa si chiamava pia fraus, pia frode, o che Platone definiva salutari menzogne. Lei non lo sa, lo fa d’istinto, ma quella naturale propensione al bene, quella pesca d’amore e di beneficenza, è un messaggio finalmente positivo, nella sua disarmante naturalezza. E’ un continuo, martellante elogio della liberazione e della ritrovata libertà di singoli, i figli sono spariti dal racconto pubblico nel loro legame affettivo, se non come aspirazione di chi non può averli, soprattutto coppie omosessuali o chi pensa a uteri in affitto, fecondazioni artificiali. Qui siamo di fronte a una bambina nata dall’unione di un uomo e di una donna, che ha nostalgia della sua famiglia unita; vorrebbe ritrovare insieme le persone che più ama e che più amano lei; non sarebbero questi i messaggi migliori da lanciare dai video e da tutte le agenzia pubbliche, dalle scuole al web, passando per gli altri media, le associazioni, le istituzioni?
E’ proprio stomachevole, insopportabile fare coming out dei sentimenti più intimi, più veri, più inermi e più teneri, come quelli di una bambina verso i suoi genitori e viceversa? Ma dobbiamo aspettare un supermercato, una campagna promozionale del suo marketing, per veder circolare questi racconti e veder rappresentare questi sentimenti peraltro diffusi? Conosco famiglie giovani che pur con le loro imperfezioni, senza quadretti idilliaci o edulcorati, vivono bene la loro unità famigliare, l’amore ricambiato con i figli. E conosco famiglie di separati che potenzialmente potrebbero trovare in una pesca della provvidenza l’occasione per ripensare alla loro separazione e per riannodare rapporti lacerati. Perché invece la rappresentazione pubblica, cinematografica, pubblicitaria e mediatica ci racconta solo le famiglie in cui avvengono abusi, delitti, litigi e violenze o ci mostra solo modelli opposti a quelli della famiglia naturale e tradizionale? Esistono, e nessuno può negarli, anche altri tipi di unione ma perché devono diventare queste il paradigma delle famiglie e delle coppie?
Mi piace pensare che nel mutato clima, altri frutti spontanei di questo ripensamento della realtà possano sorgere qui e là e raggiungere ambiti finora refrattari, come il cinema, la fiction, il teatro, l’arte. Non si può escludere che in questo riposizionamento dei messaggi, vi sia anche la considerazione astuta, opportunistica, di cavalcare il mutamento politico, l’ondata destrorsa, di solito semplificata con la triade Dio, patria e famiglia. L’astuzia della storia, la mano della provvidenza, il cortocircuito di certe ideologie e il loro contraccolpo; pensatela come volete, ma è lecito pensare che il finale della storia non sia stato già scritto e nel modo che voi dite. I miracoli di una pesca fuori stagione.

Marcello Veneziani

La censura che avanza… strisciando piano piano..

 

Non varcate questa porta se…”. Giordano Bruno  Guerri lo ha fatto scrivere all’ingresso della mostra “I Censurati. Nudo e censura nell’arte italiana d’oggi”, da me ideata, da Adele Barbetta sponsorizzata, dal Vittoriale ospitata, da Liberi libri catalogata. Non varcate la porta di Villa Mirabella (sede della mostra, a pochi metri dalla Prioria dannunziana) se temete i nudi dei migliori artisti italiani viventi, i quadri censurati dai social che per un capezzolo olio su tela succede che blocchino, sospendano o comunque boicottino i profili colpevoli di tanta audacia. Danneggiando l’artista e dirigendo il corso dell’arte verso un neopuritanesimo  di stampo americano e pure un po’ cinese. Le porte e il loro saggio utilizzo sono la migliore alternativa alla censura. Ti attira? Entra. Ti infastidisce? Rimani fuori. La porta non è un muro ma non è nemmeno un buco: è lo strumento della libertà di scelta. “All’arte appartengono il segreto e il nascosto” ha scritto il filosofo Byung-Chul Han, contrario alla “società della trasparenza”, un mondo senza scampo e senza porte dove su ogni intimo gesto, su ogni intimo gusto incombe il linciaggio universale. La porta sia riconosciuta come un diritto dell’uomo.

Camillo Langone

censurati

Com’è triste vedere Francesco inerte davanti alla morte. Esultano gli ex Pci.

Una volta si segnavano tutti, ora non lo fa neppure Bergoglio a Palazzo Madama per non urtare una cerimonia laica. E per Veltroni e compagni il gesto suona ormai come un’offesa

Com'è triste vedere Francesco inerte davanti alla morte. Esultano gli ex Pci

Un fatto straordinario, ha detto Walter Veltroni commentando il Papa entrato e uscito dalla camera ardente di Napolitano senza nemmeno un segno della croce. Lo dico anch’io: è proprio un fatto straordinario. E però in senso opposto: a differenza del Veltroni gongolante su RaiTre lo giudico un fatto straordinariamente negativo. Un tempo il segno della croce lo facevano tutti e in tante occasioni. Mia nonna, la ricordo come se fosse ora, lo faceva anche quando sentiva la sirena di un’ambulanza. Io che pure non sono né nonno né Papa lo faccio ogni volta che entro in un cimitero. È un gesto per me naturale che significa almeno due cose: pietà verso i morti e preghiera verso chi ha promesso di farli risorgere. E figuriamoci se non lo faccio in una camera mortuaria, un posto dove non mi metto certo ad analizzare la fede o la non fede del defunto: lo faccio e basta. Del resto se i famigliari fossero infastiditi da simili visioni potrebbero sempre affiggere un cartello: «Ingresso vietato ai cristiani» In tal caso girerei i tacchi e me ne tornerei a casa, siccome non entro dove non posso essere me stesso. E per un cristiano il segno della croce è per l’appunto cruciale. Un tempo lo facevano tutti e adesso non lo fa nemmeno il Papa. Non mi piace fare la parte dell’apocalittico, è un ruolo ingrato, ma se quanto accaduto nella camera ardente del Senato non evidenzia lo stato agonico del cattolicesimo romano ditemi voi. Per Veltroni la fissità bergogliana testimonia il «grande rispetto del pontefice nei confronti delle istituzioni di questo Paese». L’ex capo del partito democratico sembra dunque confondere il segno della croce con la pernacchia. Ma se davvero i segni cristiani sono considerati ormai alla stregua di insulti, perché non andare oltre? Perché non avvicinarsi ancor più alla sensibilità del mondo incredulo? Nel corso della loro storia i gesuiti lo hanno fatto molte volte: andarono in Cina per evangelizzare e a forza di avvicinamenti finirono cinesizzati, andarono verso il comunismo per cristianizzarlo e a forza di avvicinamenti finirono comunistizzati… Il Papa gesuita che ha fatto trenta al prossimo funerale potrebbe fare trentuno: presentarsi in clergyman, senza quell’assurdo, anacronistico abito bianco e soprattutto senza quell’impressionante croce sul petto, indelicata verso atei, buddisti, maomettani, zoroastriani

Veltroni su RaiTre ha parlato ovviamente anche di politica. Argomento su cui sembrava più ferrato. Sembrava. Secondo lui Napolitano ha sempre «fatto ciò che andava fatto, agendo nell’interesse nazionale». Secondo me nell’elogio veltroniano mancava un «sovra»: in almeno due occasioni (guerra di Libia e cacciata di Berlusconi) il cosiddetto Re Giorgio agì nell’interesse sovranazionale. Ma non è questo il momento e non è questo l’articolo, non vorrei andare fuori tema e torno al nocciolo della questione che è squisitamente religiosa.

Un Papa così inerte è sconfortante per tutti i fedeli. Starsene impalato davanti a una bara è un venir meno alla propria missione, assegnata da Gesù a Pietro (e dunque ai suoi successori) durante l’Ultima Cena: «Conferma i tuoi fratelli». Un Papa che davanti alla morte si mostra senza parole né gesti non conferma: smentisce. Forse è stato ultra rispettoso verso l’ateo morto, di sicuro è stato poco riguardoso verso i cristiani vivi, in primis quelli che nei paesi islamici hanno pagato e pagano la manifestazione esteriore del proprio cristianesimo con persecuzioni e carcere, a volte col patibolo. In ogni tempo i grandi pensatori cristiani hanno assegnato grande valore al segno della croce. Per Tertulliano bisognerebbe farselo «ad ogni passo, quando si entra e quando si esce, nell’indossare i vestiti, a tavola, nell’andare a letto…». Per Ratzinger è nientemeno che «la sintesi della nostra fede». Invece il video del Papa immoto e silenzioso al Senato mi è sembrato una sintesi dell’agnosticismo costituzionale. E mi ha fatto venire in mente una poesia poco allegra di Cesare Pavese, quella che finisce così: «Scenderemo nel gorgo muti». Vade retro! Gesù nel Vangelo di Matteo ci esorta a fare l’esatto contrario: «Gridatelo sui tetti!». Lui che da quindici secoli fa il segno della croce nel mosaico di Sant’Apollinare in Classe.

Camillo Langone   

Avanti popolo, indietro tutta!

Avanti popolo sarà il titolo del programma che Nunzia De Girolamo condurrà su Raitre al posto di Carta Bianca della Berlinguer, passata sulle reti Mediaset. Titolo audace, e azzeccato, a mio parere, perché scompiglia gli schieramenti ma che ha creato subito indignazione presso i custodi dell’ortodossia progressista. Ma come, su Raitre, al posto della Berlinguer, con un titolo che sembra uno sfottò della sinistra, o per dir meglio, del comunismo… Un oltraggio alla memoria di Berlinguer e del suo partito. Vorrei far notare, senza alcuna polemica, che l’oltraggio alla memoria di Berlinguer semmai l’ha compiuto la stessa Bianca Berlinguer preferendo, presumibilmente per una questione di ingaggio, una rete del nemico storico della sinistra, Berlusconi, alla rete storica della sinistra italiana. Nunzia De Girolamo stava smaltendo il suo precedente impegno politico nel centro-destra, e si stava ripresentando in veste di animatrice della tv d’intrattenimento. Poi, per una vicenda particolare, ossia per l’impreviste dimissioni della Berlinguer e il forfait di Nicola Porro, rimasto anch’egli a Mediaset con un doppio contratto, si è pensato di puntare sulla De Girolamo, che è sveglia e duttile, multitasking, e con l’ispirazione di sinistra della rete ha un curioso legame di parentela: è sposata con Francesco Boccia, uno dei leader del Pd.
Incuriosisce l’impasto che si va profilando: in una rete tradizionalmente di sinistra, un ex ministro del centro-destra che stava dedicandosi ai programmi d’intrattenimento e perfino a ballare in tv, va a condurre un programma dal titolo così forte e impegnativo e annuncia di voler inventare un format un po’ Funari un po’ Costanzo, sulla linea di confine tra politica e antipolitica.
Perché ci siamo soffermati a parlare di un programma, attaccato prima di nascere che vedrà la luce solo il prossimo 3 ottobre? Non per i suoi protagonisti, le polemiche, il tema della Rai e la linea di Raitre, ma per una questione di fondo: dove è finita la spinta al cambiamento nel nostro Paese, dov’è e da che parte sta il nuovo che avanza?
Per anticipare il senso di una risposta abbiamo affiancato il titolo della nota canzone socialista Bandiera rossa, scritta nel 1908 da Carlo Tuzzi, che annunciava un popolo alla riscossa verso il suo trionfo, al titolo di un programma di culto della Rai negli anni ottanta, di Renzo Arbore, con la presenza scintillante di Nino Frassica e tutta la banda arboriana: Indietro tutta! Cosa vogliamo dire? Che la speranza, l’attesa, la passione del cambiamento non c’è più in questo momento in Italia e forse non solo in Italia. Nessun popolo è in marcia, avanza o aspetta cambiamenti, né a destra né a sinistra, né tra i Cinque stelle né altrove. Con l’arrivo per la prima volta nella storia politica del nostro Paese, della destra nazionale e sociale alla guida del governo, abbiamo completato il ciclo: abbiamo avuto al governo il centro-destra e il centro-sinistra, abbiamo avuto i tecnici e i grillini, ci mancava solo la destra-destra, che viene da An e prima ancora dal Msi. Ora abbiamo anche quella da circa un anno alla guida del governo. E avvertiamo tutti, da tutte le parti, che è finita l’epoca in cui aspettavamo cambiamenti, svolte e nuovi corsi. La linea che prevale è sempre la stessa ed è dentro le coordinate imposte dagli scenari sovranazionali, tra Unione Europea, Patto Atlantico, Nato e Usa, indirizzo economico nel segno di Draghi e della Banca centrale europea, conformità al mainstream. Solo divergenze sul piano simbolico, o su temi che non hanno una ricaduta economica e non comportano cambiamenti di rotta, come per esempio i temi civili, la toponomastica, le questioni sensibili, l’orsa Amarena…
Non c’è una forza che oggi rappresenti il cambiamento e la voglia di imprimere una svolta al Paese: la destra della Meloni procede con i piedi di piombo, è prudente, non fa passi falsi, non accoglie nemmeno chi agita le sue stesse istanze di un anno fa, si attiene alle linee maestre tracciate dai poteri sovranazionali. La sinistra pure, si limita ad agitare principi in temi che non hanno una vera ricaduta civile, sociale e soprattutto economica, dai diritti lgbtq+ all’antifascismo, con l’accusa ridicola al governo Meloni di essere contro i migranti e insieme di aver consentito il loro raddoppio da quando è al governo. Nessuno si aspetta più dalla sinistra il cambiamento, al più la restaurazione del dominio precedente. E in fondo, alla restaurazione punta anche il Movimento 5stelle, con le sue battaglie in difesa del reddito di cittadinanza e del superbonus e il costante paragone tra una surreale età dell’oro quando c’era Giuseppe Conte al governo, e la tragedia in cui saremmo caduti da quando c’è Meloni a Palazzo Chigi. E da lontano, in piccolo, un nuovo “partito” nostalgico muove i suoi primi passi: il centro di Matteo Renzi che fonda il suo appeal sul ricordo di quando c’era lui alla guida dell’Italia.
Se esaminate i loro messaggi, da destra a sinistra, nessuno punta sul cambiamento, tutti sulla continuità, il ritorno, la restaurazione, il ripristino. Il futuro è visto più come minaccia che come promessa; suscita paura più che speranza. A questo quadro di vertice corrisponde un paese che ha smesso di confidare nel nuovo, scottato da un turn over di aspettative deluse o presto risoltasi  in senso contrario. Il risultato che ne deriva è appunto quello descritto in partenza: Avanti popolo, indietro tutta!

 Marcello Veneziani 

Se stasera ci sarà la fine del mondo…

Che succede se in un tranquillo week end al mare in casa d’amici vieni a sapere che nel giro di poche ore il mondo finirà? È la trama di un film, che la novantenne gagliarda Liliana Cavani ha lanciato nelle sale nel settembre che odora di Mostra del cinema di Venezia. Il film è ispirato sin dal titolo a un saggio del fisico e divulgatore Carlo RovelliL’ordine del tempo. Titolo bellissimo, tema importante, l’illusoria durata del tempo che non si misura in lunghezza e quantità ma in qualità e intensità, come diceva anche il filosofo Henri Bergson. Ma soprattutto il tema del film è cruciale, assoluto: l’umanità di oggi sorpresa davanti alla prospettiva di morire, tutti, simultaneamente, improvvisamente, nel giro di poche ore. La causa della fine del mondo sarebbe un grosso asteroide che viaggia velocemente verso la terra, il cui impatto sarebbe letale per il pianeta, senza possibilità di salvezza. Gli apostoli dell’apocalisse nel film sono due fisici che dicono e non dicono agli altri quel che sta succedendo ma che annunciano La Notizia delle Notizie: il finimondo è a momenti, non c’è scampo.
La trama è intrigante, il film è piacevole anche se gli aggettivi sono inappropriati rispetto al tema immenso che si affronta. Gli attori interpretano un campione della borghesia romana, benestante, un po’ attempata e un po’ radical, quel che si direbbe “il generone” romano con casa al mare a Sabaudia: Claudia Gerini, Alessandro Gassman, Edoardo Leo ed altri. Curiosamente, la sala in cui ho visto il film era costituita da un pubblico esattamente analogo a quello che era sullo schermo; attempati romani, borghesi e benestanti, forse un po’ radical anche loro.
Anni fa mi aveva molto colpito il film di Lars von Trier, Melancholìa, che verteva sullo stesso tema: l’imminente fine della Terra a causa di una collisione con un pianeta “malinconico”. Film straordinario che trasmetteva con potenza l’angoscia disperante di un mondo desolato alla fine del suo corso.
Il film della Cavani, invece, è totalmente diverso. La location è ridente, non certo da ultima spiaggia dell’umanità. I dialoghi mostrano l’assoluta sproporzione tra l’evento cosmico, tragico e apocalittico che si sta compiendo e le preoccupazioni minime, banali, dei “morituri” nel loro amabile rifugio sul mare, tra dolci chiacchiere, tenui rimpianti e residue vanità. Anche quando si cerca di scavare più a fondo, non emergono temi, domande, angosce che pure sarebbero spontanee davanti al disastro annunciato; si gira intorno a piccoli risvolti della propria vita, rapporti di coppia, frustrazioni umane o professionali, apprensioni ordinarie per i figli che non rispondono al cellulare. Non manca l’ironia, tipo non lavarsi i denti l’ultima sera prima della fine del mondo, ed è forse la chiave più simpatica del film, che cavalca la sproporzione tra l’immane tragedia e la vita di ogni giorno. I maschi nel film sono un disastro, tra bonaria coglioneria e miserabili ipocrisie; un po’ meglio le donne, più sveglie, come vuole il cliché femminista imperante. Mentre finisce il mondo, la confessione più forte che si ascolta è l’amore lesbico della moglie di Gassman per una sua amica presente all’addio. Davanti alla fine dell’umanità e a un evento che non si verificava, dicono i fisici, da 69 milioni di anni, l’unico male che viene evocato è il nazismo e la concorde condanna verso chi oggi ne sarebbe complice d’opinione… Ma come, finisce l’umanità, accade qualcosa che non accadeva da milioni d’anni e questi poveri imbecilli restano ancora aggrappati ai temini del politically correct, ai femministi e al gender, ai coming out, al pericolo nazi e menate varie? Temi che inquinano anche l’unica breve parentesi fuori dal banale: l’incontro di una di loro con una suora che vive serena la fine del mondo perché si affida alle mani di Dio. Il resto, niente.
Non mi interessa descrivere o recensire il film, invogliare o scoraggiare chi pensa di vederlo. Interessa invece porre la domanda: ma davvero l’umanità, noi contemporanei, non solo i cittadini romani in vacanza sul Tirreno, davanti all’Evento Supremo della nostra vita, davanti alla catastrofe finale, alla morte della vita sulla terra, siamo così radicalmente incapaci di capire cosa sta succedendo e siamo così ciechi, sordi, muti, meschini? Davvero non sappiamo far altro che raccontare alla vigilia della fine del mondo piccole infedeltà di coppia, riprendere storie d’amore interrotte, confessare gli orientamenti sessuali o dibattere sul nazismo e tacere di tutto, della nascita, della vita, della morte, di cosa resta di noi, la coscienza, se tutto si cancella? Davvero non sentiamo di fare null’altro alla vigilia della nostra scomparsa che restare nella casa al mare di un amico a conversare e ammazzare l’attesa; e non vedere in extremis qualcuno, rivedere qualcosa, ritirarsi a pensare, ripensare la vita, fronteggiare il panico? Non dico che ci vorrebbe un simposio di filosofi, ma davanti alla fine della vita e del mondo chiunque avrebbe tirato fuori tutti i misteri e le paure che sono dentro di noi, tutti i pensieri non detti, i sentimenti e gli impulsi più profondi. E allora la domanda è: siamo davanti a un film piccolo su un tema immenso, ovvero un film non all’altezza del tema che vorrebbe raccontare o siamo davvero così come ci rappresenta il film, un’umanità che anche davanti all’apocalisse pensa a che vestito mettersi stasera? Non un rimorso, non una scoperta in extremis della fede, una preghiera, non un pianto disperato o un gesto assoluto, non un pensiero universale sul destino dell’umanità. Solo piccole, ridicole inezie da fine serata più che da fine del mondo…
L’unico alibi, l’unica attenuante, è la sostanziale incredulità rispetto all’annuncio apocalittico, la convinzione che la catastrofe non ci sarà (come infatti succede) e i fisici magari sbagliano, si fanno prendere la testa dai loro astratti teoremi. Troppo poco per salvare un film; figuriamoci per salvare il genere umano…Alla fine l’umanità la scampa ma è bocciata per indegnità.

              Marcello Veneziani   

L’Italia di Vannacci e quella della Murgia…

L’estate che finisce lascia in eredità due foto di gruppo contrastanti, anzi contrapposte: il selfie assai affollato di gente comune intorno al generale della Folgore Roberto Vannacci e al suo libro, il mondo al contrario; e il selfie di una famiglia allargata che potrebbe essere anche un collettivo, un club, un gruppo di pressione, raccolta intorno alla figura di Michela Murgia, scomparsa poche settimane fa. Sono due mondi agli antipodi, che in Italia hanno assunto i volti del generale e della scrittrice, ma che si contrappongono in quasi tutto l’occidente, e non solo.
I primi sono considerati conservatori, e comunque si reputano realisti, difensori della normalità, della natura e di come è sempre stato, e si reputano vittime di ostracismo, pubblico disprezzo e supremazia ideologica a loro avversa. I secondi sono considerati progressisti, e comunque si reputano fautori della liberazione, dell’emancipazione e della lotta contro l’eterno fascismo e il tornante spirito reazionario. Si considerano a vicenda bacchettoni: perché ormai è acclarato che oltre il bigottismo tradizionalista c’è pure un bigottismo progressista, come scriveva già trent’anni fa Robert Hughes ne La cultura del piagnisteo.
Le due Italie hanno scelto come terreno di competizione le classifiche librarie, un territorio che dovrebbe essere più agevole per la scrittrice e per la sinistra; e dove invece il libro del militare, del paracadutista Vannacci ha doppiato quello della Murgia, nonostante sia considerato quasi ai limiti della legalità, e fuori da ogni credito intellettuale. In realtà, il mondo a contrario lo hanno comprato anche tanti che non sono lettori abituali, trattandosi di un libro-manifesto, di appartenenza e di denuncia, già nel titolo. Nelle due figure del generale e della scrittrice-queer si sono contrapposti due mondi reali e ideali: uno, forse maggioritario, vasto e popolare, si è riconosciuto nel realismo del generale, nel desiderio di chiamare le cose col loro vero nome, di sfuggire alla retorica dei diritti gender, all’ipocrisia del linguaggio e dei divieti politically correct e all’egemonia dell’ideologia, richiamandosi alla normalità, al senso comune, alla natura e alla vita come è sempre stata. L’altro, espressione invece di una minoranza che però conta e pesa assai più della “trascurabile maggioranza degli italiani” (Flaiano), schierata a difesa di lgbtq+, del femminismo radicale, dei migranti clandestini, dell’antifascismo permanente e militante.
Sono due Italie che si detestano, si delegittimano e contrappongono nuovi pregiudizi a pregiudizi antichi. I pregiudizi, ricordiamolo, sono giudizi a priori, non filtrati dal senso critico ma accolti come postulati, precetti, canoni di vita e rappresentazioni della realtà tramite moduli prefissati.
Sono le due Italie del nostro presente, anche se non coprono l’intero arco della popolazione: nel mezzo c’è un’area abbastanza vasta, disorientata e refrattaria ad assumere posizioni nette e radicali. Riaffiora l’eterno dualismo nazionale, che appare da secoli, e poi a volte scompare, va sotto traccia, per lasciare spazio ai compromessi moderati e alle pragmatiche, opportunistiche convergenze al centro. Ma è sempre in agguato e polarizza gli italiani.
Vi sono tuttavia alcuni paradossi che vanno sottolineati. Primo paradosso: le idee espresse dal generale Vannacci sono le stesse che hanno portato molti italiani a votare per la Meloni e per il centro-destra; ma il generale è stato subito sconfessato, attaccato e infine rimosso dal governo di centro-destra, in particolare dal ministro della Difesa Guido Crosetto. Una scelta che ha ferito molti elettori della Meloni e ne ha spiazzati altri.
Secondo paradosso: benché minoritaria e benché si presenti con i toni e i tratti di una cultura ribelle, antagonista e denunci le discriminazioni subite da alcune minoranze, l’opinione radicale di Michela Murgia coincide col mainstream, è sovrarappresentata e sovratutelata dai media, dalla cultura e dalle istituzioni. I suoi temi sono dominanti, se non obbligati; ogni opinione difforme viene stigmatizzata, denunciata, penalizzata. Come dimostra la stessa vicenda del gen.Vannacci. Nessuno invece viene vituperato se condivide le opinioni della Murgia.
Terzo paradosso: il gen. Vannacci è uomo d’azione, con una carriera di riguardo alle spalle; Michela Murgia era invece un’intellettuale, una scrittrice, anche di culto, ma alla fine si rovesciano i ruoli: il primo manifesta le sue idee solo tramite i libri e le opinioni personali; mentre la seconda, benché intellettuale, può inserirsi nell’alveo di movimenti, mobilitazioni e associazioni di vario tipo.
La politica insegue con un certo affanno le due platee, con molta prudenza e tanti distinguo, a volte tirandosi indietro, anche perché teme di compromettere la propria agibilità politica e la possibilità di allargare i consensi anche a chi non sposa le posizioni “radicali” di Vannacci o di Murgia. Elly Schlein sembra abbastanza vicina alle posizioni murgiane, ma il suo partito, il Pd, è profondamente diviso e complessivamente prudente verso quelle posizioni. Fratelli d’Italia è stato invece decisamente sulle posizioni di Vannacci ma da quando è al governo rallenta, ammorbidisce, assopisce. E ai suoi margini, la Lega di Salvini cerca di riprendere consensi e agibilità politica strizzando l’occhio al generale.
Intanto l’Italia è chiamata alle armi: stai col generale o con la queer? Spaccaitalia.

Marcello Veneziani, Panorama

Vogliono sostituire la famiglia naturale col modello queer…

 

 

 

 

 

 

 

 

La famiglia scelta. È l’espressione chiave per adottare una nuova, radicale sostituzione. Basta con la famiglia “costretta”, ossia la famiglia naturale, con i suoi legami di sangue e i suoi vincoli determinati dall’essere padri, madri, figli, fratelli “biologici”. Invece la famiglia scelta è per definizione una famiglia volontaria, adottiva, collettiva, libertaria ed egualitaria in cui vivono sotto lo stesso tetto persone varie, e animali annessi, indipendentemente dal genere e l’orientamento sessuale. In una parola, la famiglia queer.

Il mito di fondazione della famiglia queer è associato a Michela Murgia, la scrittrice che prima di morire decise di rendere pubblica e solenne la sua famiglia scelta, ibrida e allargata. Come tutti i miti di fondazione, la morte della fondatrice ha dato “sacralità” simbolica a questa visione pur dissacratoria della famiglia naturale e tradizionale. Al di là della vicenda terrena della scrittrice sarda, alcuni giornali, circoli intellettuali, cenacoli si stanno impegnando a trasformare quell’esempio di famiglia queer in modello di riferimento alternativo rispetto alla famiglia coatta traducendola in battaglia politica e civile per rivendicare la libertà d’amare e di scegliere (Elly Schlein sarà con loro).
Cos’è una famiglia queer? “Una famiglia ibrida fondata sullo ius voluntatis, sul diritto della volontà” spiegava la Murgia. E i suoi discepoli, da Michela Andreozzi a Marcello Fois, spiegano che la famiglia scelta è struttura variabile oltre che volontaria, e comprende animali, svariate sorelle, papà e mamma elettivi (si scelgono i padri e le madri con votazioni, si procede per acclamazione, si va a rotazione?). E ciascuno specifica come si faceva da bambini quale ruolo assume nel gioco di ruolo che sostituisce la famiglia naturale. Io faccio il papà, io la figlia…Ribadendo che il sangue non c’entra nulla, e la famiglia tradizionale non ha mai funzionato bene, ma ora non funziona più.
Sarebbe facile giocare sull’ironia, ma prendiamo sul serio quel che viene detto e rispettiamo le scelte altrui, fino a quando non pretendono di essere alternative e sostitutive rispetto a quelle che costituiscono la realtà naturale e l’esperienza di vita su cui si fondano la società tramite le famiglie e la loro riproduzione. Dunque, cos’è quella società allargata di conviventi con libera e mutante sessualità? E’ una libera e provvisoria associazione, ma non chiamiamola famiglia. Qual è il legame che insorge tra loro? E’ l’amicizia, non si può paragonare all’amore famigliare. Arrivo a dire che se l’alternativa è l’isolamento, il solipsismo, ovvero la solitudine non come scelta ma come perdita del mondo e depressione, ben vengano questi club allargati, affettivi prima che sessuali, piuttosto che definirle con linguaggio camorristico “nuove famiglie organizzate”.
I problemi sorgono quando queste reti amicali si configurano come la famiglia del futuro, con la pretesa di sostituire i legami famigliari. E quando si pretende di cancellare, degradare, svalutare tutto quel che proviene dalla natura, dal sangue, dall’ereditarietà, dai legami del destino, rispetto a quelli fondati sulla volontà. Che è soggettiva e quindi conflittuale rispetto ad altre volontà soggettive; che è mutevole e quindi non può garantire costanza e sicurezza degli affetti come invece quelli tra genitori e figli, o tra fratelli. Che non è riproduttiva, perché le associazioni di tipo omosessuale non possono riprodursi se non usando terzi (uteri in affitto, fecondazioni artificiali, compravendita di corpi, semi, ovaie, neonati, ecc.).
Torno a dire che nessuno vuol negare la libertà di quelle scelte, ma non sono sostitutive rispetto alle vecchie, scassate, controverse, contestate famiglie naturali. E le fratellanze senza padri e madri, di solito degenerano in fratricidi; se non ti riconosci nella comune origine, se non ti riconosci in un padre e una madre comuni, alla fine, passato il periodo dell’abbraccio generale, insorgono le divergenze, le priorità, le egemonie. Ogni volontà, alla fine, è volontà di potenza, di dominio. Se non personale, ideologica, di un modello, di una struttura, di un collettivo.
La famiglia, si sa, sta male già per conto suo; l’atomismo e l’egocentrismo, il narcisismo e la fluidità, i desideri infiniti e le pretese la mettono a dura prova. Spesso i matrimoni saltano, e il vero rapporto indissolubile, alla fine, è di tipo verticale: è quello tra genitori e figli, che non si può disdire o revocare, come invece può accadere nel rapporto di coppia. Non idealizziamo la famiglia “tradizionale”, cogliamone tutti i limiti, i difetti, le contraddizioni con una società troppo aperta e troppo individualista per poter reggere l’urto a livello famigliare. Però, provate a pensare “senza”, provate cioè a liquidarla, a ritenervi solo figli del vostro tempo e delle vostre scelte, anziché figli della storia e della famiglia. Provate a perdere quell’asse di riferimento, necessario anche quando lo confutate; provate a negare quell’alveo d’origine, quel luogo d’infanzia e di formazione, quel rifugio, quel bisogno originario, primario, di sicurezza; dove i legami sono autentici proprio perché biologici, naturali, precedenti la nostra stessa volontà; veri e istintivi. Perché noi non nasciamo come una tabula rasa su cui decidiamo tutto; noi nasciamo eredi biologici, con legami naturali affettivi (gli stessi che vi commuovono quando parlate dei cuccioli di Amarena, l’orsa abbattuta in Abruzzo). Quel che precede la nostra libertà e la nostra volontà si chiama natura, identità, origine, destino. Perché dovremmo disprezzare, rigettare, spezzare tutto questo? Non siamo autocreati e tutto ciò che costruiamo non lo costruiamo dal nulla ma sempre da realtà preesistenti. Create pure le vostre case arcobaleno e le vostre reti amicali; ma sappiate che non sostituiscono la famiglia da cui provenite e quella costruita accoppiando e procreando. Sono due piani diversi. E bisogna saper distinguere, e rispettare, la sfera dei legami naturali da quelli elettivi. Noi siamo quel che siamo e diventiamo quel che siamo; non nasciamo dalla nostra volontà e dai nostri desideri. Siamo creature, possiamo essere creativi, ma non siamo creatori.

Marcello Veneziani   

Arrestate il pino. E’ apologia del fascismo.

Avete presente la nostra epoca imbevuta di ecologia, feticismo green dappertutto, perfino nella pubblicità, fanatismo ambientalista che paralizza ogni impresa? Beh, con il pino non vale. Il pino va sterminato, sradicato, cacciato dalle città; anche se sono belli, fanno parte ormai del paesaggio e svolgono utili funzioni contro l’inquinamento, il malefico CO2. La guerra contro il pino è la spia di una sensibilità, di un modo di (non) vedere e di una netta divaricazione tra l’ideologia green e la pratica nella realtà. Il pino è la metafora di un odio per l’esistente o per ciò che viene dal passato, nel nome di un Verde perfetto e utopico che verrà.
La battaglia contro il pino si combatte in molti luoghi d’Italia, a partire dalla Capitale, dove i pini erano veramente tanti e godevano di grande fama storica, pittorica e civile. Partiamo da un dato: nel 2016 erano censiti in Roma 120mila pini; ora, sette anni dopo, sono meno della metà, 55mila. Cos’è successo, è passata la Xilella Raggi, la sindaca Virginia? Ma no, la grillina avrà le sue colpe, però la guerra al pino è più vasta e diffusa. Curioso il caso del sindaco in carica, Roberto Gualtieri, che come Berlusconi, aveva promesso nella città un milione di nuovi posti per gli alberi, e invece ne ha piantati poche migliaia e i pini neopiantati, a fronte dell’ecatombe di questi anni, sono in gran parte moribondi. Questi dati mi sono stati forniti da una convinta pasionaria del pino, Jacopa Stinchelli, che si definisce “ministro della difesa dei pini” a cui si sta dedicando con abnegazione. Jacopa non è sostenuta dai movimenti green e dalla galassia ecologista che di solito insorge appena torci una foglia o un ramo di una pianta, ma della sua battaglia e della morìa dei pini in Roma se n’è occupato anche il New York Times il 13 agosto scorso.
Il problema è che il pino è in Italia un albero identitario, anzi è l’albero dell’italianità. Si diffuse con l’unità d’Italia, garibaldina e sabauda. La Regina Margherita fu madrina di pinete. Alla fine dell’ottocento fu lanciata nelle scuole la festa dell’albero, che era ancora viva quando andavo io alle scuole elementari e fu il primo assaggio di sensibilità verde per chi viveva in piena ebbrezza di industrializzazione, cemento e modernità. Si piantava un pino e si celebrava l’utilità, la bellezza e il ristoro che gli alberi davano agli uomini, alle città e alle località. La pigna fu eletta a simbolo dell’unità d’Italia, antico retaggio romano ed etrusco, che la consideravano sacra; il pino diventò il testimonial dei paesaggi nei pittori ottocenteschi che venivano in Italia (uno tra tanti, William Turner). Il pino fu reso famoso dai poeti, primo tra tutti Gabriele D’Annunzio con la sua pioggia nel pineto, che celebrava la Versilia ma anche la sua Pescara. Il pino fu amato dai musicisti, come Ottorino Respighi, che gli dedicò un poema sinfonico. Fa capolino nella musica leggera con i pini di Roma cantati da Antonello Venditti, mentre Brian May dei Queen dice che i pini di Roma lo affascinano in modo speciale. Anche nel cinema italiano fanno da sfondo a molti capolavori del passato e anche recenti. Le pinete diventarono sontuose cornici di litorali e accompagnarono amene località non solo marine.
Ma il pino l’ha combinata grossa, diventò pure il simbolo dell’Italia fascista, che potenziò la festa dell’albero, piantò pini dappertutto, da Ostia alla Maremma bonificata e in mille altri luoghi d’Italia. L’edilizia fascista, le città di fondazione e le colonie estive, erano contornate da pini. Piantavano pini nel risanamento dalle paludi e dalla malaria.
A Roma c’era un missionario dei pini, dall’Italia prefascista all’Italia fascista e poi alla repubblica: si chiamava Raffaele de Vico, era architetto, paesaggista e urbanista e propagò i pini in Roma, da Villa Glori al Parco della Rimembranza, dove i pini simboleggiavano le anime dei caduti. Insomma, il pino è un albero “patriottico”, la cui presenza suona come amor patrio e per taluni come apologia di fascismo. Dunque, va abbattuto o lasciato morire. Il Pino è fascista, e pure neofascista: vi dice nulla Pino Rauti, Pino Romualdi, Pino Tatarella (detto Pinuccio perché postfascista)?
Paradossi ideologici a parte, conosciamo i più ragionevoli motivi addotti per estirparli: sono pericolosi, soprattutto con il maltempo, le loro pigne sono contundenti, come i loro rami, le loro radici sono invasive, dissestano le strade. E poi sono cagionevoli, si ammalano, la loro manutenzione è faticosa, non sono autoctoni (anche in questo caso salta la retorica dell’accoglienza e si diventa improvvisamente identitari, in difesa delle specie vegetali autoctone, le pure “razze” nostrane rispetto agli alberi stranieri). Conosco la guerra del pino per esperienza personale, perché avendo quattro pini maestosi ai fianchi della casa, subisco una diffusa campagna pinofoba, con pressanti richieste di tagliarli, sfoltirli, abbatterli. Certo, i pini danno problemi, le radici, gli aghi, le pigne; ma danno senso e identità a un luogo, danno ombra e luce, aria e bellezza. E poi esistono rimedi efficaci contro i suoi malanni, assicura Jacopa, ci sono le cosiddette endoterapie, si possono contenere e incanalare le radici, lo dicono i pochi esperti e amanti del pinus pinea o dei pini domestici.
I pinicidi confidano in un famigerato parassita alieno, la cocciniglia toumeyella parvicornis, che fornisce un formidabile pretesto per la ” soluzione finale” dei pini. Il parassita s’insinuò prima nelle pinete di Napoli, dove i pini torreggiano nelle vedute più famose di Posillipo, del golfo e del Vesuvio. A differenza di altri allarmi ambientali, col pino si preferisce collaborare col parassita, tifare per lui, o precederlo negli abbattimenti, piuttosto che difendere la pianta. Prevale, come dice Jacopa, “l’invidia del pino”, variante arborea del famoso complesso freudiano. L’odio verso i pini, naturalmente con forti alibi sanitari, rivela l’ipocrisia dell’amore per la natura e il disprezzo per tutto quanto evochi una storia e un’identità. In pino veritas.

 Marcello Veneziani       

…e poi c’è la vita invivibile …e i nuovi zombi!

La droga dei nuovi zombie

La droga dei nuovi zombie

 

 

Cos’è lo stupefacente osservato a Seattle e perché è differente da cocaina ed eroina.

 Alcuni la chiamano droga-zombie. Ne avevo sentito parlare da diverso tempo, ma non avevo mai potuto osservare in presa diretta i suoi effetti. Nel nostro Paese, da quello che mi risulta, non circola ancora. Mi è capitato questa estate in una Seattle dall’aria triste e abbandonata di incontrare le sue vittime in piena downtown. Quello che colpisce è la postura bloccata dei corpi, come colpiti da una paralisi inquietante; corpi sospesi, vivi ma senza vita, marmorizzati, imprigionati in un denso e infernale torpore, immobilizzati, specie di sculture morte, ripiegate su se stesse, accartocciate in posizioni irreali. Come i corpi pietrificati di Pompei in fuga dalla incandescenza della lava: corpi irrigiditi in una sorta di ultimo spasmo di vita, corpi senza scampo, senza più vie di fuga.

La sostanza è un mix chimico micidiale di due molecole: la xilazina utilizzata per lo più nella medicina veterinaria come prodotto sedativo per animali di grossa mole e il fentanyl, un oppioide sintetico con effetti analgesici. Questi nuovi tossicomani li chiamano zombie. Nei film horror gli zombie appaiono per lo più nella forma dei morti che riprendono imprevedibilmente vita, che ritornano spettralmente dal mondo buio dell’oltretomba alla ricerca di vita umana da sbranare. Nel centro di Seattle, invece, questi giovani zombie apparivano solamente come vite già morte. Non dunque come vite morte che ritornano spettralmente vive, ma come vite vive che appaiono già intaccate dalla morte. Davvero impressionante anche per uno psicoanalista abituato ad avere a che fare anche con le forme più gravi della sofferenza umana. Lo sfondo il degrado sociale e la povertà, la vita esclusa, schiacciata nell’angolo, lasciata cadere.

Quanto è diversa questa droga da quelle che abbiamo già conosciuto? Negli anni Settanta del secolo scorso l’eroina si era configurata come il paradigma trasgressivo dell’intossicazione. L’estasi, il paradiso artificiale, la fuga dalla realtà, ma anche la contestazione nei confronti del sistema, il suo ripudio radicale, la sua condanna senza appello. Distruggersi per non fare parte di un mondo i cui valori erano anarchicamente rifiutati. Quel primo paradigma trasgressivo dell’intossicazione implicava la dissociazione dal conformismo della vita borghese e l’illusione che potesse esistere una vita differente, svincolata dall’ideologia dei consumi e dalla violenza del capitalismo. Abbiamo poi conosciuto un paradigma completamente diverso. È quello iperattivo che trova nella cocaina la sua sostanza ideale. Abbiamo tutti in mente la sulfurea figura di The Wolf of Wall Street di Scorsese, interpretata da uno straordinario Di Caprio. In questo caso la contestazione del sistema ha lasciato il posto alla sua più estrema assimilazione. In primo piano non è più il flash del godimento eroinomane come via di accesso (illusoria) ad un altro mondo, ma l’avidità senza scrupoli e senza tregua di un godimento pienamente omogeno alla pulsione neo-libertina del capitalismo finanziario.

Il consumo della cocaina non dissocia la vita dal sistema, ma la rende competitiva, rafforza il principio di prestazione, amplifica la volontà di potenza del proprio Io. Mentre l’illusione del paradigma trasgressivo dell’eroina consisteva nel raggiungere una forma di vita alternativa a quella del consumatore borghese, quella sostenuta dalla cocaina si definisce come una sorta di corsa maniacale verso un godimento senza limiti. Mentre l’eroina è una droga dell’inconscio, la cocaina è una droga dell’Io. Questo ultimo paradigma della droga-zombie sembra invece introdurci in un universo differente. La contestazione trasgressiva del sistema (eroina) e la sua assimilazione iperattiva (cocaina) ha lasciato il posto ad un altro paradigma. Quello che la droga zombie mette in luce è che la finalità ultima della droga è sempre una finalità mortifera. Freud aveva parlato a questo proposito del principio del Nirvana: azzerare le tensioni della vita, estinguere la spinta del desiderio, condurre la vita verso lo zero assoluto. La droga zombie dichiara in modo inequivocabile questa finalità ultima dell’intossicazione. Nessun paradiso artificiale, nessuna trasgressione, nessuna critica al sistema. Ma anche nessun potenziamento narcisistico del proprio Ego, nessuna volontà di potenza, nessun godimento neo-libertino. Quello che resta è solo la vita che rigetta la vita, la vita già morta, la vita bloccata, immobilizzata, la vita senza alcuna avvenire di vita. Si tratta dell’anima più propria dell’intossicazione, della sua vocazione più profondamente nirvanica. È la faccia in ombra della maniacalità neo-libertina.

Mentre questa si consuma nella sua spinta avidamente illimitata di consumo, il drogato-zombie ha gettato la spugna, si è ritirato dalla gara perpetua di tutti contro tutti, punta solo ad annientarsi, a ridursi alla dimensione minerale di una scultura senza anima.

Massimo  Recalcati    da La Repubblica