Se l’Intelligenza artificiale abolisce la storia,la realtà e la poesia…

 

 

Grazie all’Intelligenza artificiale la realtà è stata abolita, la creatività è stata sostituita. Se non ci credete ascoltate queste due storie.
Dunque, c’era una volta la fotografia, che documentava la realtà. Non potevi negare la verità, c’è la foto che attesta il vero.
Ma un bel giorno un fotografo di New York, Philip Toledano, ha commissionato un miracolo all’Intelligenza artificiale. Ha fatto realizzare per un festival intitolato We are at war, a Deauville, in Normandia i provini favolosi in cui Robert Capa, il famoso fotografo, documentava il D day, il giorno del mitico sbarco in Normandia. Sembrava tutto vero, le immagini, le facce, i telegrammi. E invece niente era vero, tutto era frutto di una ricostruzione fittizia di situazioni e materiali. Puro illusionismo, opera di digitazione sullo smartphone, col supporto dell’IA, anzi prestidigitazione, come fanno appunto i maghi, i prestigiatori. Toledano annuncia: l’idea della fotografia come verità è perduta per sempre. Novità assoluta o ritorno indietro, all’epoca che precede la fotografia quando il racconto, la raffigurazione mitica, pittorica, la testimonianza orale tramandata dovevano comprovare un avvenimento, senza nessuna certificazione inconfutabile. Siamo al surrealismo storico, dice il fotografo creativo. D’ora in poi le immagini non attesteranno più la realtà delle cose, sono malleabili. D’altra parte sono tristemente note le manipolazioni che avvengono sul web, nei social, di volti e corpi, spesso di minorenni, che vengono usati in scene erotiche false.
Diventa difficile anche il compito di vigilanza della polizia postale, perché le immagini passano di mano in mano e possono essere rimodificate, stravolte strada facendo, fino a perdere le tracce a cui risalire.
Ma tornando alle foto falsamente storiche: un altro colpo letale alla memoria storica, alla verità dei fatti. Come già accadeva nei regimi totalitari – Stalin faceva sparire dalle foto personaggi del regime caduti in disgrazia ed eliminati fisicamente – o come accade nelle manipolazioni odierne dei servizi segreti e della disinformazia cinetelevisiva, oggi chiunque può manipolare la realtà storica e mescolare eventi accaduti con falsificazioni. Il fotografo si esalta per questa possibilità di cancellare la realtà o modificarla a proprio piacimento. Si può rovesciare la realtà, dice Toledano, entrare in luoghi inaccessibili, vedere cose che nessuno ha mai visto e mai avrebbe potuto vedere. “L’Intelligenza Artificiale è incredibilmente flessibile, può essere come un sogno o una poesia”. Si, bello, ma la realtà non lo è, la verità nemmeno. Dovremmo esultare perché la realtà viene cancellata?
A proposito di poesia, l’Intelligenza Artificiale riesce pure a simulare l’ispirazione lirica, il genio poetico. La rivista Scientific Report ha reso noto una ricerca compiuta da un team di ricercatori dell’Universo di Pittsburgh: è stato sottoposto a un vasto campione di 1600 persone un repertorio mescolato di cinque poesie scritte da grandi poeti, da Shakespeare in giù, a cinque poesie scritte da ChatGpt. Lo scopo era dimostrare che i lettori non si accorgono della differenza, non sanno distinguere il vero dal falso. E naturalmente l’esperimento è riuscito. Ma l’inganno è doppio. Non solo quello dichiarato di versi scritti dal poeta e di versi scritti dall’IA. Ma il vero inganno è la falsa creatività della macchina: ChatGpt genera tramite algoritmi testi che assemblano brani provenienti da un immenso magazzino dati. Pescano versi nel mare magnum dell’universo poetico, non c’è alcuna ispirazione creativa.
Operazione matematica priva di intelligenza, assemblaggio di alta precisione tecnologica, non ispirato da vena lirica e creativa. Non c’è nessun poeta commosso dietro quei versi, anche se non si può escludere che possano produrre emozione e commozione in chi li legge.
Abbiamo raccontato due storie parallele o forse convergenti, in cui avviene una cosa e accadono tre conseguenze. La premessa è che si perdono i confini tra il vero e il falso, tra l’autentico e il finto, tra il reale e l’inventato. L’utente non sa più distinguere tra i due ambiti, è tutto in balia dell’Intelligenza Artificiale. Le conseguenze che ne derivano sono di tre tipi. La prima: la realtà, la storia, i fatti possono essere sostituiti. La seconda: la creatività, l’ispirazione poetica, il genio, possono essere sostituiti. La terza: l’uomo, come la storia e come la poesia, è superfluo, può essere sostituito. Dobbiamo gioire o preoccuparci di tutto questo, festeggiare o spaventarci, esaltarci o deprimerci? È un progresso per l’umanità o una catastrofe?
Lasciate che io lo consideri d’istinto o di primo acchito più una sconfitta che una conquista, più un fallimento che un progresso. Poi mi ricompongo, metto da parte lo spirito apocalittico e provo a ragionare. L’Intelligenza Artificiale è preziosa in molti campi, a volte ci fa vivere meglio, espande le nostre possibilità di vita e di conoscenza. Però, a tre condizioni. La prima è che si possa distinguere il vero dal falso, la poesia dal tarocco, il poeta dal robot; ovvero che ci siano ancora i mezzi per separare gli uni dagli altri fino a renderli riconoscibili. La seconda è che si possa controbilanciare la potenza della tecnologia con un sapere critico, un’intelligenza a misura d’uomo, una cultura in grado di compensare la crescita della IA e l’uomo possa orientare, filtrare, governare, dirigere la Tecnica senza esserne diretto. La terza è che l’espansione dell’IA artificiale si possa fermare quando diventa inquietante e pericolosa per l’umanità e per il mondo. L’uomo cavalchi la tigre se non vuol esserne trascinato e infine travolto

 

Pensiamo al futuro, ma senza esagerare…

 

Lungotermismo. La parola è brutta ma il significato è promettente, forse esaltante, comunque liberatorio. Finalmente in un’epoca tutta risolta nella fretta, nel presente, nel cortotermine senti che sta nascendo una corrente filosofica, addirittura, che ci riporta al pensare in grande e in lungo, visionaria e lungimirante. Il fatto che il pensare a lungo termine abbia attecchito in particolare a Silicon Valley e che abbia conquistato i miliardari della valle tecnologica, lo rende forse più promettente, ma già sorgono i primi sospetti. Capisci subito che non di visione del mondo e concezione della vita si tratta, non di filosofia, ma del tema solito della sopravvivenza del pianeta e quindi delle generazioni che verranno. Senti odor di Greta Thunberg, di green, di chi vuol salvare il pianeta mentre va in rovina l’uomo; anzi chi vuol salvare il pianeta dall’uomo. Aria pura senza gli umani.

Ho letto la circostanziata inchiesta di Milena Gabanelli sul Corriere.it e non ripeterò i nomi, sconosciuti a voi quanto a me, di questi veri o presunti filosofi, ricercatori e impresari. Ma sono già impressionato dai numeri: si dice che l’Homo sapiens abbia solo 300 mila anni (conosco una girandola di dati assai divergenti in merito) mentre i suddetti lungotermisti si occupano dei prossimi 700mila anni che sarebbe la prospettiva normale o naturale di sopravvivenza di una specie di mammiferi. Trovo lungimirante chi si occupa dei nostri figli e dei nostri nipoti, o della nostra civiltà misurata a millenni; ma tutto ciò che si prospetta oltre i duemila anni, che sono un po’ l’unità di misura indotta dall’avvento del cristianesimo, mi sembra perdersi nell’indeterminato. Anzi, a dirla tutta, chi pretende di occuparsi dei prossimi settecentomila anni non è previdente e premuroso ma velleitario e presuntuoso. Ma davvero noi viventi in transito siamo in grado di tutelare migliaia di generazioni che verranno dopo di noi e che secondo gli schemi tecno-progressisti saranno molto più evoluti e tecnologicamente più potenti di noi? Giù la testa, limitatevi a fare la vostra parte, accontentatevi di parlare di tempo futuro o di scommettere sull’eternità; ma non pensate di programmare l’avvenire per una milionata d’anni o poco meno. Non è cosa nostra.

Il discorso si fa più ragionevole quando viene indicato un periodo di riferimento più circoscritto: quando si dice, per esempio, che corriamo il serio rischio nei prossimi cinquant’anni di un’espansione incontrollata dell’intelligenza artificiale col rischio di espugnare, esautorare l’umano. A cui viene aggiunto il rischio di nuove pandemie e guerre nucleari. Sono pericoli reali perché non riguardano tempi per noi impensabili ma li stiamo già vivendo, si sono già manifestati. Dunque, ce ne possiamo occupare.La fine della vita intelligente sulla terra è un pericolo tutt’altro che remoto o indefinito: se deleghiamo tutto agli algoritmi, e a quella che chiamiamo erroneamente Intelligenza Artificiale mentre è un Cervello Elettronico (l’Intelligenza non è un fatto solo fisico, neurocerebrale, come invece è il cervello), rischiamo davvero di trovarci un giorno, senza rendercene conto, con la mente atrofizzata e il cervello infilato dentro una selva oscura di procedure, stimoli esterni, controlli e indirizzi venuti dalla Macchina. Torna la vena megalomane, anzi la pazzia, quando il discorso riprende la via lattea, ovvero quando i lungotermisti progettano di colonizzare altri pianeti perché qui c’è sovraffollamento: l’idea non è del tutto folle e utopistica, qualcosa si sta già muovendo, ma è così complesso programmare migrazioni planetarie di massa, traslochi popolari interstellari, che un po’ di sano e ironico realismo ci vuole per stabilire la differenza tra ciò che si può fare e ciò che si può solo immaginare. Sfamate chi oggi ha fame piuttosto che puntare tutto sulle tecnologie innovative, dice uno scienziato che tocca le corde della Gabanelli; e anche questo è bello a dirsi, più difficile a farsi ma qualcosa di concreto si può fare.

Resta inquietante la prospettiva che il destino dell’umanità sia affidato ai giganti della Big Tech, che non so fino a che punto si faranno guidare da sapienti e benefattori dell’umanità e non da aspiranti padroni del mondo. Musk è già tra i migliori, ma resta inquietante la sua pretesa di guidarci nel futuro, fin dentro il cervello; mi accontenterei che desse un supporto costruttivo a Trump per andare alla Casa Bianca e fare qualcosa di buono. Alcuni leader politici, intanto, si lasciano tentare dal lungotermismo; non vorrei malignare, ma sono tutti ex premier che una volta fuori gioco, se non diventano consulenti e conferenzieri come Billy Clinton, Tony Blair e Matteo Renzi, si mettono a giocare al Futuro e al Globale interplanetario. Alla fine mi pare che sia più saggio lo scienziato Federico Faggin, citato nell’inchiesta del Corriere, scettico sul lungotermismo, che considera “materialista” e impegnato ad accrescere il potere e il profitto dei Signori del Big Tech; e frena sull’intelligenza artificiale, di cui riconosce i grandi vantaggi ma li circoscrive in un ambito che non potrà mai sostituire l’autocoscienza, il libero arbitrio e il progetto umano. La macchina non ha etica, non ha cuore, non ha sensibilità, non ha anima e non può amare né suscitare amore né generare amando. Alla fine il pallino torna al punto di partenza, all’uomo, con la sua ricerca, la sua grandezza e i suoi limiti. E torna al nostro tempo, al nostro mondo, a noi viventi.

State contenti umana gente al quia, dice Dante, non pretendiamo di sostituirci al divino o al mistero e alle migliaia di generazioni che verranno; limitiamoci a provare la difficile impresa di salvare la nostra civiltà, l’umanità presente, con la sua cultura e la sua natura, l’intelligenza e il pensiero dai pericoli di oggi e di domani, e non tra cinquecentomila anni. Consegnamo degnamente il mondo ai nostri successori secondo tradizione; tra diecimila generazioni non è compito nostro, eccede dalle nostre competenze e facoltà. Pensare lungo, vedere ampio, ma senza pretese milionaristiche, esagerazione iperbolica del millenarismo. Quando vedo la terra nello spazio come una briciola dispersa nel cosmo, mi casca il mondo; e a nostra volta siamo briciole disperse dentro quella briciola di pianeta, non possiamo pretendere di guidare l’universo e fare programmi per il prossimo milione d’anni. Facciamo la nostra parte, fino in fondo, lasciamo le nostre tracce, preoccupiamoci del mondo che lasceremo ai nostri figli e nipoti. Al resto, se ci credi, ci pensa Dio. Il destino è più grande della nostra volontà.

Marcello Veneziani      

1941:fabbricanti di rumori per effetti speciali-

 

Ecco cosa accadeva  nel 1941 quando si costruiva un cartone animato. Oggi, nell’era del digitale, degli algoritmi, dell’intelligenza artificiale ,per queste cose  si occupa la tecnologia. Sui nostri schermi, grandi e piccoli vengono proiettati dei cartoni, che sono  meraviglie, di immagini, di colori, di suoni ed effetti speciali , che vanno oltre la più fervida immaginazione. Chissà se   chi firma queste opere proverà la stessa soddisfazione di quei registi, disegnatori, voci e rumoristi di quei tempi lontani ?

images

Perché l’Intelligenza Artificiale non genera mostri. ( Il mio scetticismo)

 

 Da LA STAMPA di Licia Troisi

Il nostro cervello non inventa: rielabora però dispone sempre di un punto di vista. Algoritmi e robot non hanno opinioni ed è per questo che restano strumenti  .Ce l’ha insegnato la fantascienza: i robot sono il male. O vengono tenuti sotto controllo con qualche sistema autolimitante, il più famoso dei quali – giustamente – sono le tre leggi della robotica di Asimov, o si rivolteranno contro di noi, come ci hanno mostrato Terminator e Battlestar Galactica. Del resto, di recente ci si sono messi anche gli scienzati: Stephen Hawking, negli ultimi anni della sua vita, disse che l’Ia, l’Intelligenza Artificiale, se fosse diventata cosciente, avrebbe potuto distruggerci.

Forse è per questo che ha fatto così tanto scalpore l’apparizione di software che sembrano in grado di riprodurre le più alte forme della creatività umana: immagini e storie.

Il campo si è immediatamente diviso in due: c’è chi vede in Midjourney e ChatGpt (due esempi di questo tipo di tecnologia) le macchine che lasceranno a casa scrittori e artisti visuali, e chi è convinto che ci troviamo di fronte a un salto quantico nei rapporti uomo-macchina – e magari anche nella creazione di una vera e propria auto-coscienza artificiale. Ora, lasciamo da parte l’elefante nella stanza, ossia la questione dei diritti sulle opere con cui questi software vengono addestrati (vedremo subito che significa) e di quelle che essi producono, e proviamo a proiettarci nel futuro: chi ha ragione, gli apocalittici o gli integrati, per dirla alla Umberto Eco?Non avendo la palla di vetro, possiamo solo affidarci a una serie di considerazioni. Innanzitutto, come funzionano questi software: sono in genere reti neurali, che, nonostante il nome, non sono esattamente cervelli artificiali, ma, attraverso un sistema di nodi, cercano di imitare alcune caratteristiche dei neuroni. Una di queste è l’apprendimento: la rete viene addestrata su un set di dati, a partire dal quale produce poi, nel caso che stiamo considerando, immagini o testi scritti. Va da sé che il software non può realizzare nulla che esuli dalle informazioni fornite nel set iniziale, ma, quando il set è sufficientemente ampio, le combinazioni sono infinite. In questo, l’Ia funziona un po’ come il nostro cervello: anche noi non “inventiamo” tecnicamente niente. I libri, i dipinti, le statue, sono rielaborazioni di ciò che vediamo intorno a noi. Il nostro cervello riceve degli input, che poi combina in qualcosa di differente, anche quando inventiamo mondi fantastici: si tratta comunque di lacerti del nostro, scomposti e rimescolati. Prova ne sia che, se vi chiedo di immaginare visivamente uno spazio a quattro dimensioni, di cui i nostri sensi non hanno diretta esperienza, voi non ne siete in grado. Fin qui, quindi, sembrerebbe che l’Ia sia in grado di duplicare in tutto e per tutto i processi creativi umani; più complessa è la questione della coscienza, che abbiamo difficoltà a definire univocamente e i cui meccanismi di produzione da parte del cervello ci sono per lo più ignoti. Niente macchine senzienti, dunque, ma la cosa non ci rassicura: un computer che sa creare arte, in forma scritta o di dipinto, è ugualmente inquietante. Ma davvero è così? Davvero quelli come me, gli scrittori, hanno i giorni contati? Le versioni dei software attualmente rilasciate non sono in grado di scrivere qualcosa di simile all’Orlando Furioso o a un romanzo. Sono state prodotte delle favole per bambini e dei libri illustrati, ma nulla di più. Questo però non significa niente: un anno fa, Dall-E, che genera immagini, produceva cose inguardabili, oggi si fa francamente fatica a distinguere l’opera di un software da quella di un essere umano. I progressi in questo campo sono continui, e fatichiamo a stare al passo. C’è però qualcosa che mi induce a credere che non sarà mai possibile sostituire del tutto un essere umano nelle faccende creative. I testi prodotti dalle Ia, così come le illustrazioni, risultano quasi sempre appiattiti su un’estetica comune e “media”: non potrebbe essere altrimenti, visto che mediano all’interno di dataset sconfinati e, nel caso di quelle testuali, hanno una serie di limitazioni che cercano di farle apparire meno offensive possibile. Le immagini di Midjourney sono quasi tutte laccate e presentano personaggi per lo più di bell’aspetto, i testi di ChatGpt sono piatti riassunti di informazioni pescate in giro, per lo più vere, a volte goffamente inventate. Cosa manca? Non tanto l’estro creativo, la “scintilla umana”, quanto ciò che rende un libro più interessante di un altro, un dipinto immortale rispetto a tutta la produzione coeva: il punto di vista. Una storia può essere raccontata in molti modi: partendo dalla fine, coi flashback, o in semplice ordine cronologico. Anche un articolo come questo può essere redatto in molti modi differenti: scegliendo da dove partire nella discussione, ad esempio, con una citazione o meno, portando avanti il discorso seguendo un certo filo piuttosto che un altro. Scelte del genere, al momento, sono del tutto al di fuori della portata della Ia, perché quella che si chiama “voce” in letteratura non è frutto solo del “set di dati” con cui il nostro cervello è stato “addestrato”, ma anche della sua struttura neurologica, del nostro vissuto, della nostra psicologia. In mancanza di ciò, il risultato sono, appunto, opere medie, che non aggiungono nulla a quanto detto, e la situazione rimarrà questa finché il funzionamento della Ia sarà quello descritto – e al momento non si vede perché dovrebbe cambiare. E quindi, a che servono? Sono ausili, per chi saprà usarli con intelligenza. Un software che ti fa una ricerca su un determinato argomento, e ti redige un testo di massima sul quale poi interviene lo stile dell’autore è indubbiamente utilissimo: la ricerca è sempre la parte più noiosa della redazione di un testo. Un ChatGpt che genera una trama che poi l’autore modifica in base al proprio gusto è sicuramente un ottimo aiuto. E lo stesso dicasi per le immagini: possono essere una base, da correggere o da modificare secondo la sensibilità dell’artista. Ce lo diciamo spesso, ma forse non ci crediamo fino in fondo: la tecnologia è uno strumento. Il segreto è farne buon uso, senza facili entusiasmi né previsioni apocalittiche. Per il resto, il tempo stabilirà verso dove evolverà il rapporto tra uomo e macchina.

IArtif

 

Da lettrice vorrei aggiungere che l’uomo, è l’ha ampiamento dimostrato, non si è mai fermato all’uso benefico delle scoperte. Sicuramente madame Curìe, quando scopri come usare la radioattività degli isotopi di diversi minerali per uso diagnostico non immaginava gli sviluppi potenzialmente catastrofici del malo uso della sua scoperta. Allo stesso modo come essere certi che l’Ia  non possa apprendere ad identificarsi con ideologie distruttive della coscienza umana ed essere programmata proprio per avere un mondo di individui ubbidienti a coloro che avessero interesse a questo. Basta tornare indietro di poco tempo per rendersi conto , ora che in molti si è tornati a ragionare con mente lucida, come il Covid possa essere stato un esperimento per testare la percentuale di ubbidienza, che si può ottenere colla paura e il panico.

 

Per alcuni l’intelligenza artificiale è il massimo, per me è un pericoloso nemico dell’intelligenza umana.

Non abbiate timore dell’intelligenza artificiale, ci rassicura il filosofo Maurizio Ferraris dalle colonne del Corriere della sera. Il bersaglio non esplicitato siamo noi conservatori, ritenuti apocalittici, antitecnologici, un po’ heideggeriani e tanto stupidi. “Temere che una macchina possa prendere il potere – replica Ferraris – agitare lo spettro della intelligenza artificiale onnipotente, è soltanto rivelare una nativa mancanza di intelligenza naturale. ”. Dietro il Genio Imbecille, ci saremmo dunque, noi stupidi senza talento .Insomma, ci sono domande, sensibilità, ambiti in cui nessuna macchina potrà mai sostituire l’uomo. Le macchine tendono a portare via lavoro agli uomini? “Niente di male, se un lavoro può essere automatizzato in genere è indegno di un umano”. Semmai, conclude Ferraris, concentriamoci su questi problemi e lasciamo perdere tutti i timori e le vane fantasie sul Golem che prenderà il potere.
Rassicurati come uomini e mortificati come dementi sul fatto che le macchine ruberanno il posto agli umani ma non prenderanno mai il potere, ci resta però la preoccupazione. Nessuno pensa che un bel giorno l’Intelligenza artificiale farà un colpo di Stato o instaurerà un regime schiavista e totalitario. Non amiamo i film di fantascienza, non siamo rimasti all’infanzia delle fiabe e non crediamo all’orco cattivo. Ma più sensatamente osserviamo la realtà presente nel suo contesto. Dunque, da una parte l’Intelligenza Artificiale viene impiegata in ambiti diversi e anche inquietanti; ad esempio per generare, come denuncia il filosofo Byong-Chul Han in Infocrazia, un regime di sorveglianza; trasformandosi da Intelligenza in Intelligence. Dall’altra, ci spiegano, ad esempio Cingolani e Metta, ai vertici dell’Istituto Tecnologico, che in virtù dell’intelligenza artificiale avremo “robot in grado di comunicare tra loro e con gli umani, usando lo stesso linguaggio (verbale e gestuale), capaci di comprendere le situazioni fondamentali e persino di prendere piccole decisioni”, possedendo tra i loro requisiti “autonomia”, capacità di “cooperazione”, “socialità”, sorveglianza, sostegno, guida “compagnia, addestramento, educazione e training” e “sostituzione degli umani in ambienti ostili o per lavori gravosi”.(Umani e umanoidi. Vivere con i robot, Il Mulino). Grazie all’intelligenza artificiale e all’uso delle cellule staminali, ci spiegano Lovelock e Boncinelli arriveremo all’autogeneratività, fino a costruire ”organismi perfettamente efficienti”; siamo ben oltre l’eugenetica. Orizzonti sposati dal filosofo Salvatore Natoli, nel suo recente libro Il posto dell’uomo nel mondo (Feltrinelli), che nota “l’estensione del dominio dell’artificiale sulle regioni della mente” fino “a modificare gli schemi cognitivi”.
Non è l’Intelligenza artificiale in sé che ci spaventa ma l’umana idiozia, il delirio di onnipotenza tecnologica, che ne è complice entusiasta. Qual è il pericolo dell’intelligenza artificiale? La sostituzione del mondo reale, delle identità e della natura, con una grande bolla in cui sparisce la realtà e tutto ciò che la costituisce: la storia, il pensiero, la vita, la presenza, i corpi, la natura per entrare in questo universo virtuale e funzionale. Ne è un segnale, ad esempio, il metaverso, come nota il filosofo Eugenio Mazzarella (Contro metaverso).
Ma tutto quel che abbiamo fin qui detto potrebbe rientrare nel rischio consapevole dell’avventura umana, nella scommessa dell’intelligenza umana, nella capacità di cavalcare la tigre della tecnica. Ma se consideriamo il contesto in cui avviene questa scommessa, allora lo spirito critico nei confronti dell’Intelligenza Artificiale esonda nell’angoscia. La crescita rapida ed espansiva dell’Intelligenza Artificiale coincide infatti con la decrescita altrettanto rapida ed espansiva dell’Intelligenza umana, delle sue connessioni vitali e mentali con la storia, con la tradizione, con il linguaggio, con la capacità di progettare il futuro e governare i cambiamenti, la regressione del pensiero, oltre che della religione, col declino dell’arte e l’atrofizzazione progressiva, come una paralisi, delle facoltà naturali, socievoli e intellettuali dell’uomo e con un calo progressivo e allarmante del Quoziente Intellettivo. Si realizza appieno quel “dislivello prometeico”, di cui scriveva Gunther Anders ne l’Uomo è antiquato: ossia cresce la tecnica e decresce la cultura, cresce l’artificiale e sparisce il naturale, cresce il robot e declina l’uomo. Si ingigantisce cioè la forbice tra tecnica e sapere, il mondo artificiale si espande mentre si contrae la nostra capacità di conoscerlo, di capirlo e dunque di governare gli effetti.
Il pericolo, caro Ferraris, non è dunque il golpe delle macchine, l’autogoverno dell’Intelligenza Artificiale; ma la complice stupidità umana unita all’infatuazione per le macchine, alla perdita dell’umanità e al fatalismo tecnologico secondo cui non si può fermare o frenare né cambiare il corso. Se il procedere è automatico e inarrestabile, non c’è più libertà, intelligenza e dignità umana. Non è l’Intelligenza Artificiale in sé il pericolo ma la disumanizzazione radicale che si attua tramite essa. È una preoccupazione stupida? Se lo è preferisco restare uno stupido umano, anziché un idiota servitore e collaborazionista del robot..

MV

A Indianapolis è già futuro…

Indianapolis, sulla griglia di partenza due monoposto aspettano di scatenare tutti i loro cavalli all’accensione del semaforo verde. Una scena consueta, cristallizzata da numerosi film e videogiochi ambientati nel celebre autodromo americano.

Ma il 23 ottobre tutto sarà diverso dal consueto: per la Indy Autonomous Challenge i piloti saranno sostituiti da un’intelligenza artificiale che guiderà al posto loro una monoposto sfidandosi in una gara testa a testa su 20 giri per un primo premio di un milione di dollari. La Indy Autonomous Challenge, organizzata dal circuito di Indianapolis e da Energy Systems Network, porterà in pista delle Dallara IL-15 di Indy Lights, opportunamente modificate per ospitare sistemi di guida autonoma. Una gara senza piloti in carne e ossa e con un ricco montepremi, da 1,5 milioni di dollari.

A partecipare saranno squadre universitarie provenienti dai migliori istituti Tech negli Stati Uniti e nel mondo, e comincerà a tutti gli effetti con un test di qualificazione a maggio. Cioè nello stesso periodo nel quale si troveranno a Indy anche i veri piloti della Indycar per la 500 Miglia tradizionale. Più di 500 studenti universitari, laureati e ricercatori, esperti nello studio e nella progettazione dei software di intelligenza artificiale, hanno risposto alla sfida, rappresentando 39 università in 11 paesi su quattro continenti e 14 stati degli Stati Uniti.

Il telaio Dallara modificato sarà dotato di un computer di bordo ad hoc, che consentirà le comunicazioni tra veicoli, e di sensori per regolare la posizione in pista rispetto alle altre vetture. i controlli drive-by-wire e la gestione dell’intelligenza artificiale saranno elementi fondamentali per vincere la corsa

.Il circuito di Indianapolis ha presentato la gara in una conferenza tenuta nell’ambito del Consumer Electronics Show 2021, nel quale è intervenuto anche Giampaolo Dallara. Il quale ha detto che questa nuova sfida “combina la sua passione per l’automobilismo da corsa e quella per l’innovazione” e che le auto a guida autonoma “saranno qualcosa di normale nel futuro della mobilità“.

Indy-autonomous-challenge