Elogio della nostalgia, la fonte da cui nasce l’arte…

La nostalgia si addice a quel che è stato, riguarda il passato. Qualcuno anni fa parlò perfino di nostalgia dell’avvenire ma il significato era trasparente: costruire il futuro sulle tracce di un mitico passato. La nostalgia del presente fu invece il titolo d’una famosa poesia di Borges, dove il desiderio combaciava con la realtà. Al di là di Borges, la nostalgia del presente appare quasi uno scippo di vitalità alla pienezza del tempo in atto, un’emorragia vitale o una schizofrenia mentale, il contrario del carpe diem. È il sentore di non vivere abbastanza il presente, di non trattenere alcuna traccia di quel che sta accadendo, come se finisse prima che se ne prenda pieno possesso. E dunque indica il timore e il dolore di veder sfiorire le situazioni presenti.  La fotografia è una forma tecno-pratica di nostalgia del presente: immortalare il momento o il luogo, cioè fermarlo, depositarlo nella sacca della nostalgia, l’archivio. Il vintage è invece la nostalgia applicata agli oggetti.  La poesia nasce da un sentimento di nostalgia preventiva: mentre vivi un’esperienza, un incontro, una presenza, prefiguri il suo svanire, avverti il presagio della sua assenza. E da quel sentimento di perdita sorge la poesia, che è il tentativo estremo di eternizzare o tesaurizzare quel momento, quel luogo, quell’incontro e di farlo vivere in un altrove, oltre il tempo e lo spazio. Salvare nei cieli della poesia quel che finisce in terra, dissipato nei giorni. La poesia è la dimora della nostalgia, intima e cosmica; la poesia sorge sull’amore perduto o caduco, sul presagio doloroso di una mancanza, passata, presente o ventura.  La nostalgia è il sentimento originario che ha mosso l’arte, il pensiero e la  grande letteratura di ogni tempo: si pensi all’Odissea, il poema della nostalgia.  Il filosofo della nostalgia è Plotino che nel nome di Platone eresse un pensiero incentrato sul conato dell’anima a ricongiungersi all’Uno da cui è sgorgata.  Ma il termine nostalgia, benché evocante due parole antiche – nostos e algos – è  recente e non sorge in ambito filosofico-letterario bensì medico-scientifico. Indicava infatti una malattia diagnosticata poco più di tre secoli fa e riguardava i soldati svizzeri che pativano la lontananza dalla loro valle, la loro patria.  Quel sentimento di lontananza spaziale, che in seguito fu ribattezzata apodalgia, coi romantici si tramutò in lontananza temporale. Non più distanza spaziale che implica la presenza pur remota di ciò che si anela a rivedere; ma distanza temporale, riferita a un tempo trascorso; dunque sentimento disperato che non può essere esaudito.  Il suo più acuto sensore fu Marcel Proust, il suo capolavoro riassume il senso della nostalgia: alla ricerca del tempo perduto. Il suo prologo in cielo, ossia la sua versione metafisica, è il paradiso perduto, che è poi l’unico paradiso da noi conosciuto, secondo Borges. Da Omero a Kavafis, da Saffo a Pasolini, la nostalgia è l’anima della poesia. L’uomo è un animale nostalgico, non sa vivere solo del presente. Vive tra l’attesa ponderata del futuro (Kant) e la nostalgia delle origini (Plotino, Vico, Mircea Eliade).  La follia odierna pretende di abolire la nostalgia e negare il passato. Questo da un verso implica la cancellazione della memoria storica ma dall’altro comporta la velleità utopica di proiettare la condizione di allora nel momento presente. L’infanzia e la giovinezza sono le fonti della nostalgia? Aboliamo la nostalgia e viviamo nell’illusione del puer aeternus, figurandoci come bambini permanenti, sempre giovani.  La sindrome di Peter Pan nega la nostalgia perché rifiuta di considerare il tempo che passa. La nostalgia, invece, accoglie il principio di realtà: quella condizione, quell’atmosfera è passata, è trascorsa da storia a mito. La separazione dal presente rende sacro quel passato. Il fascino della nostalgia è lì: evoca un evento o uno stato irripetibile e irrevocabile. Non puoi rifarlo né puoi cancellarlo. Come i classici, le grandi imprese, gli amori perduti. L’arte che ne scaturisce sublima quella mancanza, e il desiderio esala fino alle stelle (de-sidera). Per il bambino perenne, invece, il desiderio va esaudito e così cessa l’arte, nata dalla nostalgia che è il dono della mancanza.   Analoga pretesa hanno i movimenti nostalgici che vogliono ripristinare un passato concluso. Il passato lo puoi amare e onorare ma non puoi riportarlo in vita. È morto e può vivere solo nel mito. La nostalgia è un nobile sentimento intimo e universale ma non può essere un programma storico-politico.  La storia è una freccia, la nostalgia è invece una curva; la pietà del ritorno che si curva a raccogliere il tempo versato. La nostalgia riconosce il fascino dell’inattuale, irriducibile all’attualità. Ma è ingenuo idealizzare il passato .  La superiorità ontologica del passato sul presente è un’illusione ottica che nasce da due motivi: il rimpianto bioepico della nostra infanzia/giovinezza e l’occhio magico della nostalgia che è selettiva e conserva del passato solo le cose amate.  Ci sono temperamenti più inclini alla nostalgia e altri più protesi alle novità. Ci sono i migranti di prua che amano vedere lo scafo che solca nuove onde e punta nuove terre, appena intraviste, e ci sono i migranti di poppa che amano vedere il paesaggio originario che si perde alla vista e la scia sul mare è il suo estremo cordone ombelicale. Beato chi ama ambedue, le origini e l’approdo, divino chi le combacia. La nostalgia è il canto, e l’incanto, di un tempo che passa al mito. Il passato che vive e non passa si chiama invece Tradizione, che è patrimonio trasmesso, eredità perpetuata, perennità che continua nel corso del tempo.  Ci sono giorni e sere soprattutto in cui avverti il peso ottuso della vita andata. Il male, il nulla, il falso, il poco, il mio, il futile, il labile, sono i sette colori di quest’iride spettrale che va dal nero al bianco, ingrigendo la vita. Senza la luce della nostalgia scema la policromia del mondo. È la nostalgia a dare colore al passato.  C’è un proficuo esercizio d’amore per animare la nostalgia nell’intimità. Chiudete gli occhi e concentratevi a ricordare ad una ad una le voci delle persone più care e assenti. Passatele in rassegna, lentamente, fino a sentirle risuonare nella memoria e nel cuore, associandole allo sguardo, l’ultimo sguardo di loro che vi è rimasto impresso benché remoto e ormai sfocato. Per dare più forza a quell’esercizio ripartite dalla memoria della vostra voce che li chiama. Li vedrete apparire e sentirete la loro voce che vi parla e il loro sguardo che vi guarda.  Questa è l’arte di procurarsi i sogni, di rianimare il passato e di con-vocare gli assenti in un simposio di nostalgia. Un esercizio difficile e delicato, come risalire la corrente, sfidando le rapide impetuose che invece trascinano verso il basso, nella valle dell’oblio. La pietà della vita è protesa a risalire la corrente del tempo.  La nostalgia è quel dolore dolcissimo che pervade l’anima per una lontananza che sentiamo vicina e per un’assenza che sentiamo presente.

Marcello Veneziani                                                                                                                     

Si riparte dall’amore…

L’Amore necessario è il mio nuovo saggio appena uscito da Marsilio dedicato alla forza che anima la vita e muove il mondo. Non è un saggio sull’amore romantico, sulla coppia, sull’eros ma un viaggio nelle varie forme dell’amore che coinvolgono corpi, anime e menti e muovono uomini, animali e forze della natura. C’è l’amore degli amanti e l’amor famigliare, l’amore della vita e l’amore del mondo, c’è l’amor patrio e l’amore del destino, l’amor di Dio e della verità.
Nonostante la retorica pervasiva sull’amore c’è scarso amore nel mondo e nel nostro tempo. E’ largo l’abuso corrente di richiami all’amore, alle sue estensioni e ai suoi nomignoli correnti: diventa intercalare universale, anche in forma contratta, per rivolgersi pure ad amici occasionali, animali e avventori di prostitute. Quando tutto è chiamato amore, l’amore perde senso e profondità; come accade con l’amore per l’umanità. Se l’amore si fa generico, smette di essere amore. Tutti fratelli, nessun fratello.
L’amore comporta dedizione e predilezione, gioia, sacrificio, attenzione al mondo e agli altri; e tutto ciò difetta nella nostra epoca. Viviamo in un mondo disamorato che pure professa amore universale, a partire dai remoti e dagli ignoti; ama gli animali, le piante e il pianeta; vagheggia amori nomadi di passaggio o dipendenze travestite d’amore e proclama l’amore libero, senza limiti, fluido, senza vincoli di tempo, di natura, di sesso e di famiglia. Ma l’amore non è libero, perché la sua legge elementare è il vincolo, spontaneo e inevitabile. Può liberare, l’amore, ma in sé non è libero: è necessario, invece. E dicendo che l’Amore è necessario non si sminuisce l’amore, non lo si confonde con un bisogno impellente ma se ne coglie l’incomparabile grandezza, la sua centralità insostituibile nella vita, la sua prossimità col destino. L’amore libero passa, soggetto ai desideri volubili; l’amore necessario resta perché riguarda l’essere prima del volere; è il fondamento del mondo e la più alta motivazione del nostro essere al mondo. Senza amore si prospetta un futuro da tecnobestie artificiali. L’amore garantisce la nostra umanità. Viviamo la perdita d’amore; avviene con una rapidità che non lascia il tempo di sconcertarsi, tanto è repentina, automatica e inconsapevole l’accelerazione.  Stanchi dell’uomo, gli umani inclinano verso il vegetale, l’animale, il silice, l’artificiale. Una specie d’amore è rivolto al clima e all’aria o al pianeta, o al cane, al gatto, all’orso, allo smartphone, agli accessori o al robottino; l’umano è d’ostacolo, fastidio o residuo tossico, di cui prima o poi, finalmente, il pianeta si libererà. E tireremo un sospiro di sollievo. Da morti.  Cosa sostituisce questo collasso progressivo dell’amore? Quali sono cioè gli amori surrogati che prendono il suo posto? Gli amori superstiti oggi vigenti sono di tre tipi: l’eccessivo amor di sé, egocentrico e autoreferenziale; un vago amore dell’umanità, come una remota, astratta platea globale; un surreale amore per ciò che non c’è, il virtuale o è frutto mentale dei desideri. Tre tipi d’amore – introflesso, generico o irreale – che sorgono dal disamore profondo e radicale. Si perde l’amor concreto dell’altro, l’amore aperto verso l’alto e l’amore per la realtà vivente. Tutto alla fine ruota intorno a una sorta di egoarchia universale e circolare: Io amo Io.  L’Amore necessario affronta le nove forme, anzi i nove gradi dell’Amore, in rapporto con la vita, con chi ami, con la famiglia, col mondo, con la sapienza, e poi l’amor patrio (e familiare), l’amore del fato, l’amor di Dio e l’amor di verità. C’è anche le breve storia dell’amore nel mito e nella filosofia, tornando a Platone che fondò il pensiero dell’amore; per concludere con l’amore della verità, connubio difficile perché l’amore spesso non ama la verità o non la dice; e la verità spesso ferisce e delude l’amore. Al termine della visita ai nove gradi dell’amore, parte una gita fuori porta nel tempo presente per scoprire che l’amore è unico argine e la sola risposta umana al dominio dell’Intelligenza Artificiale: l’amore è un’energia, una molla, uno slancio che non potrà mai scaturire da un essere artificiale. E’ l’amore che lo aziona.  Insomma, l’amore è il necessario punto di partenza, nascita e rinascita, per ricominciare a vivere e pensare.
Però se dici amore, la prima immagine che ti compare è lei, la persona amata. Prima di declinare le mille forme dell’amore, la più ricorrente, sulla bocca di tutti, in forma di parola e bacio, è l’amor di coppia. Poi l’amore si allarga a quelli che vanno sotto il genere di affetti o di passioni. Ma il primo tu è la persona amata che ti infiammò d’amore e che reputi insostituibile. Magari non è la stessa per sempre, perché l’amore non invecchia invece gli amanti e gli amori appassiscono. L’amore è oltre il tempo, gli amanti ne sono dentro, anche se al loro apice si percepiscono fuori, in un tempo sospeso.  Per amor tuo fu l’espressione chiave che aprì le porte dell’amore. Fu pronunciata in un mattino, riferita a minimi risvolti, lasciata cadere forse con studiata noncuranza. Ma portò presto lo scompiglio dell’amore. Irruppe l’ospite inquietante, in forma di voce, di parola; poi si fece corpo, abbraccio, amplesso, unione e passione. E di due vite ignare fece un fascio d’amore. Breve, intenso, indelebile ricordo. Dette fiato a una storia, suscitò energie che covavano sotto la brace spenta, alitò vita nei corpi, l’intrecciò a una sorte; poi svanì. Tutto si fece “per amor tuo”.
Non nominate l’amore invano, è come un dio, aspetta la chiamata, arriva e dispone di chi lo pronuncia e di chi ne è investito.

Marcello Veneziani 

L’Occidente contro il resto del mondo…

Il mondo che lascerà Joe Biden al termine del suo mandato è una bomba a orologeria, un pianeta ulcerato ed esplosivo, a sud come a est, tra scenari di guerra e tensioni internazionali, dall’Ucraina alla Palestina, a tutto il Medio Oriente, alla Corea, alla Cina. E dall’Onu alla Corte dell’Aia. L’odio verso l’Occidente è cresciuto nel mondo, i desideri di vendetta e di rivalsa covano in molti focolai e la pace mondiale è oggi come in pochissime altre fasi precedenti negli ultimi 80 anni messa davvero a rischio. Il mondo che aveva lasciato Donald Trump nel 2020, pur assediato dalla pandemia, era meno compromesso, non c’erano conflitti e tensioni, guerre virali in corso, col rischio di propagarsi anche da noi. Trump lo spaccone, Trump lo sbruffone non aveva fatto guerre da nessuna parte, ed era riuscito pure a sedare alcune situazioni di pericolo, come quella con la Corea di Kim. Non c’erano rischi speciali, con l’Islam, la Russia e la Cina. Ma la menzogna mediatica dell’Occidente fa passare Biden (col suo mondo dem) per un pacifista umanitario e Trump per un guerrafondaio pazzo. E ci dicono di temere il futuro in mano a Trump, che abbiamo già peraltro testato nel precedente mandato, quando dovremmo piuttosto temere il presente ancora in mano a Biden (o alla sua cerchia). Al di là di quel che succederà alla Casa Bianca, occorre una riflessione realistica sullo stato delle cose presenti e sui rischi che stiamo correndo in base ad alcuni pregiudizi, alcune preclusioni che non vogliamo superare. Per risvegliarci dal nostro sonno occidentale, è necessario innanzitutto partire da una considerazione: l’Occidente non è il mondo, ma una porzione sempre più ristretta del pianeta e sempre più divergente. Anzi l’Occidente patisce oggi una paradossale, doppia incongruenza, per eccesso e per difetto: è una realtà troppo ristretta per coincidere con la società planetaria e i suoi parametri globali; ma al contempo l’Occidente è un’entità troppo vasta che assembla mondi distinti e spesso divergenti. Dire Occidente, infatti, significa accorpare in una sola dimensione il mondo statunitense e canadese, il subcontinente latino-americano e l’Europa intera, dall’Atlantico agli Urali. Non sono la stessa cosa, non hanno comuni interessi vitali, strategici, economici e geopolitici. La reductio occidentale presuppone in realtà l’egemonia americana, la subalternità europea e la sudditanza sudamericana. Aveva una residua validità il rifermento all’Occidente quando indicava la civiltà cristiana, pur nelle sue diverse accezioni e derivazioni secolari, ben sapendo che esisteva anche un cristianesimo orientale, russo-bizantino; il cristianesimo era il filo d’Arianna che accomunava i tre Occidenti e alcuni paesi sparsi nel mondo. Ma oggi che il riferimento religioso appare assai meno pregnante e influente, anzi si è fatto marginale e viene sempre più emarginato, cos’è l’Occidente? Individuo, libertà e democrazia, si potrebbe forse rispondere, o tecnologia, capitale privato e mercato; ma non sono più tratti specifici ed esclusivi dell’Occidente e non appaiono più vincenti nella forma occidentale. A lungo l’Occidente è stato un tempo più che un luogo: il tempo della modernità rispetto al resto del mondo che pareva arretrato, ma oggi non è più così. A ciò si aggiunge il calo demografico che investe l’Europa e il nord America. Anche dal punto di vista demografico, la Cina, l’India o l’Islam sono universi più popolosi dell’occidente euro-atlantico o riferito ai paesi del G7, che includono pure il Giappone. Al tempo stesso, come hanno dimostrato anche le più recenti situazioni conflittuali, da quella russo-ucraina a quella israeliano-palestinese, la posizione dell’Occidente è minoritaria rispetto al resto del mondo, alla divergente valutazione di quegli eventi che ne danno Cina, Russia, India, Brasile, Africa e Sudafrica, paesi islamici e paesi non allineati. La distinzione tra il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, secondo il metro occidentale, non risponde affatto all’unità di misura del resto del mondo. Bisogna prenderne atto. Nè possiamo imporre la nostra intermittenza etica nel giudicare le catastrofi umanitarie, i genocidi, i massacri delle popolazioni civili e i crimini contro l’umanità. Il resto del mondo non condivide, non comprende i nostri criteri e i nostri manicheismi. Il caso palestinese come il caso ucraino lo dimostrano. Che senso ha persistere in questa cecità e auto-sopravvalutazione e considerare ancora gli Usa i gendarmi del mondo e l’Occidente il paradigma del pianeta? Perché non accettare realisticamente la situazione effettiva e trarne coerentemente le conseguenze? E’ tempo di lavorare per un mondo multipolare, smobilitando le pretese egemoniche dell’Occidente; anzi rimettendo in discussione l’idea stessa di Occidente. Un conto è difendere la nostra civiltà, un altro è illudersi di essere alla guida del mondo; ed invece, da quel punto di vista, il peggior nemico della civiltà occidentale è l’Occidente stesso, in preda al delirio woke, alla cancel culture, al politically correct, al processo permanente contro la sua stessa civiltà, le sue derivazioni e le sue matrici. Anche l’Oriente assomma in realtà mondi assai diversi, irriducibili tra loro per storia, caratteri, religione, cultura. Si può davvero mettere sotto una stessa categoria spaziale, storica e geopolitica l’Islam, la Russia, la Cina, l’India, il Giappone e via dicendo? E l’Africa a quale emisfero apparterrebbe? La diade Oriente-Occidente non è un indicativo spartiacque più di quello tra Nord e Sud del pianeta. Insomma, da qualunque parte lo si osservi, non resta che oltrepassare l’Occidente. Era il futuro per il resto del mondo ma oggi è stato scavalcato da più ardite tigri della tecnologia e del commercio globale. L’Occidente oggi è il vecchio, senza essere l’antico; è il passato, senza essere l’origine. Indica il luogo e soprattutto il tempo del tramonto. A ovest si fa sera, e si teme la notte. Non resta che andare oltre l’Occidente, pur restando italiani, mediterranei, europei.

Marcello Veneziani                                                                                                                        

Italia senza eroi…

Ma chi è il personaggio più amato in Italia, o per dir meglio chi è la figura non divisiva che piace agli italiani di ogni risma e di ogni fazione e riesce in qualche modo a unificarli e a suscitare cordiale convergenza?  La rassegna, per ragioni istituzionali, deve cominciare dal presidente della repubblica che per definizione è la figura istituzionale super partes, l’espressione dell’unità nazionale. Sergio Mattarella può essere considerato il personaggio più amato e meno divisivo d’Italia? Spiace dirlo ma non è così. Mezza Italia non lo ama, non lo sopporta e non lo considera affatto super partes; e non ama la sua storia, la sua biografia, la sua collocazione politica di provenienza da cui non si è mai discostato. Nonostante l’omaggio quotidiano dei media, i peana dei tg e le ovazioni a ogni sua partecipazione e a ogni sua anche banale esternazione, nonostante l’ossequio cerimonioso di tutte le forze politiche e delle istituzioni, Mattarella non unisce gli italiani, ma li divide. Troppe volte è apparso giocatore più che arbitro, alcune sue posizioni sui governi in carica e sulla magistratura, sulla storia del nostro paese e sulle posizioni assunte a livello internazionale, alcuni interventi su temi sensibili e questioni nazionali e civili, hanno spaccato i giudizi su di lui. Sul piano politico Mattarella piace a una parte degli elettori di centro, una parte dei 5Stelle, larga parte della sinistra; ma non piace agli elettori che hanno mandato al governo Giorgia Meloni e che sono la maggioranza del paese. Suppongo che la stessa cosa si debba dire della mezza Italia che non va a votare: penso che larga parte dei non votanti sia refrattaria a Mattarella o comunque non si senta rappresentata da lui. Per la ragione simmetrica, anche la Meloni è amata da coloro che l’hanno mandata al governo ma non dagli altri. Magari nel corso di quest’anno e poco più di governo avrà perduto la fiducia e la simpatia di una parte dei suoi elettori per il suo inevitabile cambio di passo e avrà conquistato in compenso una fetta di chi non l’ha votata. Resta una figura divisiva, come Mattarella: ma a differenza del Capo dello Stato, è normale che il Capo del governo sia una figura divisiva che non ha il consenso generale della popolazione.  Ma anche altre figure istituzionali sono divisive: lo sono i presidenti del Senato e della Camera, lo sono naturalmente i leader di partito, I commissari europei, i sindaci e i governatori, i magistrati.   Qualcuno dirà allora che figura ecumenica per definizione è il Papa, che dovrebbe rappresentare per il suo ruolo di paciere e di figura super partes, un riferimento universale, anche per i non credenti. E invece sappiamo bene che Bergoglio suscita reazioni contrapposte, divide gli stessi cattolici e credenti. Dichiarazioni di ostilità, di antipatia, di dissenso sono all’ordine del giorno nel suoi confronti. Non meno divisive sono alcune figure che pure vengono sbandierate come istituzionali, super partes; come per esempio Liliana Segre, che al di là della sua storia e delle sue stesse intenzioni, è comunque “usata” da alcuni media e da alcune forze politiche, “contro” qualcuno, definito a torto o ragione fascista e nazionalista. Grandi vecchi considerati super partes, non sono riconosciuti in questi momento in Italia. Nemmeno grandi artisti o grandi autori, presentatori o attori, figure pubbliche o influencer; quasi tutti sono considerati controversi, di parte, e comunque non amati da tutti. Taluni personaggi assurti nel 2023 a fama e primato,  come Paola Cortellesi al cinema e il generale Vannacci col suo libro “contro”, sono divisivi. Anche nel regno della tv, è difficile trovare personaggi che suscitino condivisione e simpatia universale; c’è chi ha un bacino anche largo di consenso ma senza suscitare simpatia trasversale, unanime e super partes. Bisognerà piuttosto accontentarsi di qualcuno che sia extra partes, non partigiano.   Alla fine dei conti chi suscita questa corrente di simpatia, pur nelle lievità del suo personaggio, è prima di tutti Fiorello. E’ lui il personaggio che unifica i versanti o meglio li attraversa con la sua leggera permeabilità, con la sua ironia e la sua satira che non ferisce mai nessuno, fuori da ogni schieramento. La bravura e la simpatia di Fiorello resistono nonostante l’abuso di Fiorello che viene fatto dalla Rai e da Amadeus in funzione della religione civile e istituzionale di Sanremo. Sulla stessa lunghezza d’onda si possono ritrovare altre figure non divisive nel regno dello spettacolo, come Renzo Arbore o Andrea Bocelli, comici come Nino Frassica o Checco Zalone, campioni sportivi (l’ultimo è Sinner).  Ma sconforta pensare che dobbiamo scendere al livello dell’intrattenimento, della tv leggera, giocosa, sportiva o simpaticamente cazzara per trovare figure non divisive del nostro Paese, ben accettate da tutti. Ci sono poi alcune icone del passato, e ci sono le vittime, anche recenti, di tragici fatti di cronaca, su cui anche volendo non ci si può dividere. Ma non ci sono figure morali, civili e intellettuali universalmente riconosciute, non ci sono santi, geni, eroi o maestri ritenuti tali da tutti sopra le parti. Italia senza eroi, titolava alla fine degli anni settanta, un saggio di Ludovico Garruccio (pseudonimo del diplomatico Incisa di Camerana), che occhieggiava nel titolo al Risorgimento senza eroi di Piero Gobetti. Quest’Italia senza eroi, maestri e riferimenti riconosciuti da tutti, la dice lunga sullo stato di salute mentale e morale del nostro Paese. Un paese diviso ma anemico, senza passioni civili e ideali.

Marcello Veneziani                                                                                                                  

Il personaggio dell’anno stavolta non è umano.

 

Chi è il personaggio dell’anno del morente 2023? La ditta umana non ha sfornato quest’anno un protagonista assoluto, ma tanti deuteragonisti, e tanti scomparsi. Sicché, se vogliamo essere obiettivi e universali dobbiamo ammettere: il personaggio globale dell’anno è I.A. che non è il raglio di un asino, ma l’Intelligenza Artificiale. E’ lei, è essa, è costei, non so come definirla, la vera regina dell’anno che si spegne e forse non solo di quello. Mai si è parlato di Intelligenza Artificiale come in quest’anno, anche se la Signorina imperversa ormai da alcuni anni. Mai si è scritto, detto, benedetto e maledetto tanto intorno a lei e alla Sostituzione che tramite lei si sta compiendo della vecchia, sfatta umanità, cresciuta enormemente di numero, decresciuta di peso, per non dire di prestigio. L’umanità è finita tra asterisco e cancelletto, ovvero fuor di metafora da tastiera smartphone, tra la negazione della natura e l’adozione simbolica dell’asterisco per denotare la totale reversibilità, transitorietà e insignificanza dell’identità di genere; e la cancellazione della storia, della tradizione, della civiltà, della realtà. La prima si chiama in sigla schwa, la seconda nella formula magica di cancel culture, due forme parallele e convergenti di imbecillità autolesionista, e che siano parallele e al tempo stesso convergenti conferma la loro infondatezza e la loro stoltezza.
Ma il risultato finale di quell’idiozia doppia è che al posto dell’umanità, la protagonista assoluta dell’ultimo anno, con affaccio sul futuro, è l’Intelligenza Artificiale e il suo inserviente, il robot. Anzi, per essere precisi, l’umanità è schiacciata tra due follie: il macchinismo e l’animalismo. Stiamo diventando un ponte superfluo tra le due sponde: il robot e l’animale che ci sembrano meglio di noi.
Ho capito che siamo arrivati a un punto di non ritorno nella corsa verso il robot supplente che sostituisce l’uomo, quando ho visto che perfino i carabinieri hanno adottato Saetta, il carabiniere robot a quattro zampe, agile e disinvolto, in grado di fare le veci dei suoi colleghi umani, con una professionalità, una fedeltà, una precisione e un’abnegazione che non t’immagini. Cammina un po’ strano, il quadrupede tecnologico, sembra quasi un granchio di grandi dimensioni, seppure vestito con i colori dell’Arma. Ma è la rappresentazione in divisa dell’Intelligenza Artificiale nei secoli fedele. In altri tempi, quando imperversavano le barzellette sui carabinieri, avrebbero detto che la robotica vuole vincere facile se si propone di sostituire l’intelligenza di un carabiniere. Barzellette che hanno avuto successo finché erano considerate irriverenti e oltraggiose; ma da quando i primi a raccontarle sono diventati i carabinieri stessi, che hanno così dimostrato un sano senso dell’autoironia, si è capito che non avevano più ragion d’essere e di accanirsi con l’Arma. Però ora arriva Saetta e siamo punto e a capo.
A volte ho l’impressione che l’Intelligenza Artificiale si sarebbe comportata meglio in molte situazioni che stiamo vivendo, sostituendo leadership, governi, banchieri e militari; la stupidità intelligente dell’umanità a volte ti fa invocare i robot.
Giro intorno e ci scherzo su, preferisco andare sul paradosso per non dire la verità: ma l’egemonia intellettuale dell’Intelligenza Artificiale, giustamente indicata come il personaggio dell’anno, è una sconfitta che non ci dovrebbe rendere orgogliosi. Facile dire che comunque è un prodotto dell’uomo, e dunque la sua gloria è in realtà solo riflessa, secondaria, subordinata a coloro che l’hanno realizzata. Ma vedendo la progressiva espropriazione/abdicazione di funzioni, processi e pensieri, col relativo travaso dall’umano all’artificiale, hai la netta sensazione che d’ora in poi non ci chiederemo più di chi è figlia l’Intelligenza Artificiale, perché ormai è maggiorenne, adulta e in via di autonomia. L’Intelligenza Artificiale lascia la casa famigliare e va a vivere per conto suo, da single o insieme con altre intelligenze artificiali. L’apprendistato sta per finire, tra poco si metterà in proprio.
Qualcuno insiste a dire che noi abbiamo solo da guadagnarci, scaricheremo su di lei un sacco di funzioni, di compiti, di fatiche ingrate. Ma non avete capito che una volta svuotati di ogni mansione, missione, funzione, l’uomo sarà prima dipendente dalla prima e poi si renderà prima irrilevante, poi superfluo, infine dannoso, d’ostacolo all’espansione libera e possente dell’Intelligenza Artificiale.
Un tempo Lenin scriveva che il capitalismo avrebbe offerto al proletariato la corda con cui farsi impiccare. La storia non è andata proprio così, ma non è impossibile immaginarsi che l’uomo stia fornendo all’Intelligenza Artificiale, il tasto, il chip, con cui verrà cancellato.
Ci sarà un momento in cui non ci accorgeremo più di questo processo, non sentiremo il bisogno di denunciarlo e nemmeno di comunicarlo: quel momento indicherà lo switch off, ovvero il passaggio dall’umano-naturale all’artificiale-tecnologico, il momento in cui si spegnerà l’umano e il suo posto verrà preso dall’IA. Ma appena avverrà avremo smesso di preoccuparcene, perché sarà disattivata la nostra facoltà critica, previsionale, oltre che la nostra capacità di guidare il processo, di orientarlo.
No, non c’è fatalismo in quel che dico, e non c’è nemmeno luddismo né odio e paura ancestrali per la macchina e per il futuro.
Non c’è nemmeno la convinzione che l’Intelligenza Artificiale sia un male. Al contrario, i risultati che stiamo ottenendo suo tramite sono prodigiosi, molti vantaggi di cui già usufruiamo, sono indubbiamente positivi. No, quel che più ci preoccupa non è l’avanzata dell’intelligenza artificiale ma la ritirata dell’intelligenza umana. Non siamo in grado di governarla. Ne spiegheremo meglio il senso prossimamente. Intanto approfittando dell’allegria natalizia  festeggiamo IA, personaggio dell’anno.

Però se mi ferma il brigadiere Saetta parlo solo in presenza di Alexa.

Marcello Veneziani             

Torniamo al mondo piccolo di casa nostra…

Com’era piccolo il mondo ai tempi in cui nacque Gesù Bambino. Era piccolo anche mille e duecentoventitré anni dopo, quando san Francesco a Greccio inventò il presepe, giusto otto secoli fa. O quando Dante scrisse la storia universale di tutti i tempi e dell’umanità, parlando in realtà quasi sempre di vicende accadute tra la Toscana e dintorni e trasferite in cielo o negli inferi. Era un microcosmo ancora piccino, entrava tutto in uno sguardo, come nel presepe; la terra era al centro dell’universo, il sole la riscaldava e la luna vegliava la notte. Il sole paterno, la luna materna, tutto era in famiglia. E al centro la terra, come il Bambino tra il padre e la madre, l’asino e il bue, e un piccolo popolo che andava da Lui. L’intero universo convergeva a Betlemme, ombelico del mondo. La terra era poco abitata, le città erano rare, le altre poco più che villaggi. Un impero che sembrava dominare la terra, valicare i monti, attraversare i mari, era in realtà un centro abitato in mezzo alla natura, una civiltà circondata dall’ignoto.  Il lontano era rappresentato dai Re Magi che  venivano da terre remote, ma in fondo non molto lontane, a testimoniare che tutto l’universo si dava appuntamento in un luogo, che si pensava cruciale per l’intero creato, ed era solo un punto illuminato immerso tra ombre sconfinate e oscuri cammini. Altri continenti restavano ignoti. Un punto di raccolta ben indicato dalla segnaletica celeste, raggiungibile attraverso il primo navigatore satellitare e terrestre, la stella cometa, che guidava verso quella meta. Le stelle in quel tempo punteggiavano il cielo, quasi affabili, raccolte intorno alla terra per accudirla e decorarla; e si facevano ancora più splendenti per incoronare il piccolo Re del mondo, disceso dai cieli in una grotta della Palestina.  Le distanze non erano siderali, l’infinito era un modo di dire che indicava le vie del Signore, che aveva mandato dal cielo in terra Suo Figlio, a mostrare la contiguità dei due mondi, il rapporto filiale dell’una dall’altro. Quel piccolo mondo non era affatto perfetto, era povero e crudele, a volte cruento, ma tutto sembrava a portata di mano, anche la morte e la santità erano di casa, si viveva di vicinanza. Poi si è perso quel mondo piccolo e circoscritto scagliato come una biglia tra le galassie, smarrito tra pluriversi e tempi infiniti. Tutto è svanito nella solitudine cosmica dove il tutto è niente, solo un minuscolo frammento di tempo e di spazio sperduto nell’immensa amnesia di astri, costellazioni, miliardi d’anni e pianeti. E la vita umana, la vita terrestre si riduceva a una piega trascurabile dell’universo, un lembo sottile e passeggero, come una virgola nell’infinito. Il mondo era piccolo, allora, e non conosceva altri mondi e altre vite, oltre quella che si chiamava storia dell’uomo.  Non era il piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro e nemmeno il mondo piccolo di Giovannino Guareschi, che alludevano uno al piccolo mondo di ieri, l’altro al mondo paesano, della provincia padana. Ma era il mondo intero a essere piccolo agli occhi di chi ci viveva dentro. E il presepe ne era la rappresentazione, la mappa. Perduto quel piccolo mondo raccolto intorno a un evento divino ma familiare, venne lo spaesamento, la fluttuazione gratuita tra essere e sparire. L’infinito è il Niente. La fisica ha ingoiato la metafisica, il buio ha inghiottito la luce, il caos ha risucchiato l’ordine del mondo; tutto svanisce negli interminati spazi e nei sovrumani silenzi, e dissolve quel presepe vivente e morente che sembrava al centro di tutta l’esistenza dell’uomo, della storia e della natura. La perdita del centro produsse effimere illusioni policentriche e poi onnicentriche, fino a che si colse la vanità di ogni confine e l’evanescenza di ogni centro. Estraneità incommensurabili, l’immenso vanifica il concreto a noi più vicino. La ricerca oltre gli spazi domestici deve continuare, la sete di conoscere è necessaria e feconda, l’esplorazione di mondi sconosciuti, l’avventura del sapere nell’ignoto non deve fermarsi; ma non può diventare il buio la misura della luce, l’infinito la misura del finito, il non essere la misura dell’essere. Altrimenti ci disperdiamo nel vuoto e nel nulla. Bisogna che il mondo resti dentro la sua misura confacente. Il piccolo, nella sua prossimità, è l’autentico, il genuino, l’identità. Per continuare a vivere, a credere, a pensare e sperare, forse dovremmo, dico forse, fermarci dentro quei limiti, non scrutare gli abissi, accettare di vivere dentro il nostro orizzonte, ancorarci alla realtà, alla natura e ai suoi confini; non siamo déi ma uomini, mortali e imperfetti. Facciamoci bastare quel mondo, quella vita, quel presepe, quella carezza, quel Bambino. E più non dimandate . I greci saggi avevano orrore per l’infinito (Apeiron) e figuravano la perfezione come un cerchio e non una retta che si perde nell’infinito come si perde la mente nella notte della pazzia. Ritenevano che la peggiore insolenza dell’uomo fosse l’hybris, la tracotanza smisurata che rende superbi e poi dementi. Non misurate la realtà coi desideri illimitati. La civiltà è un perimetro delimitato dai propri confini, non solo geografici, e dal proprio cono di luce. Salvo gli ardimentosi esploratori e le loro missioni nell’ignoto, la vita è accettazione saggia del nostro destino e dei suoi limiti. Amor fati.  Perciò conviene ripartire dal piccolo, riprendere a pensare e a vivere nella prossimità, nella realtà accessibile, tra mete raggiungibili e illuminate, in un mondo amico, vicino e comprensibile, alla nostra portata. Dovremmo forse, dico forse, rientrare in quell’habitat, accettare quel che avemmo in sorte, abbracciare i presenti, ricordare gli assenti. Rientrare nel presepe, trovare il nostro posto, riconoscere gli altri, riaffermare la vicinanza, assumerci il fardello che ci tocca in sorte. Ripartire dal piccolo, come il Bambino, ritornare alla prossimità, ritrovarsi in un mondo che non è aperto all’infinito, ma alle vicine latitudini, nella comune finitudine. L’infinito lasciamolo all’infinito; noi torniamo a casa, per Natale.

Marcello Veneziani 

Elogio del presepe…

Ottocento anni fa, in vista del Natale dell’anno di grazia 1223, Francesco d’Assisi a Greccio mise al mondo il primo presepe. Era vivente, una rappresentazione teatrale sacra; poi sarebbero venuti i personaggi, le icone, i paesaggi ricostruiti, le belle statuine dei presepi nati dall’artigianato devoto. Il presepe è la rappresentazione più viva e compiuta della comunità cattolica, della famiglia cristiana, della coralità italiana. I più acuti e i più ottusi diranno in coro che il presepe è la sintesi domestica di Dio, patria e famiglia. Perché celebra in modo tenero, casereccio, concreto l’amor di Dio, il senso religioso della vita e l’evento più importante per la storia della cristianità; perché è un frutto della nostra naturale, italica socievolezza, della nostra fantasia domestica e dell’arte di arrangiarsi nonché del nostro senso estetico, scenico e teatrale; infine il presepe è famiglia, narra della sacra famiglia, e fa famiglia in casa. Per lunghi anni ha serpeggiato un bipolarismo natalizio tra i fautori del laico, nordico, protestante e ora green albero natalizio e del cattolico, personalista e comunitario, mediterraneo e sudista presepe; fino a che non si è insinuata la tendenza filantropica, inclusiva, verde e umanitaria, di bocciare ambedue perché offenderebbero sensibilità atee o religiose differenti, escludendo i non cristiani; in più è il segno di uno scempio ecologico se l’albero issato in casa non è sintetico ma è rubato alla natura.  Anni fa spiazzò la confessione di Umberto Eco: da ragazzo, confessò, faceva la Madonna nel presepe vivente del suo paese. Ho l’impressione che avesse continuato a fare la Madonna nel presepe intellettuale del nostro Paese. Spero che non avesse già la barba all’epoca in cui interpretava il ruolo della Santa Vergine. Ma non lo faceva per devozione o spirito natalizio, ammise; solo per vanità e privilegio, per stare al centro dell’attenzione e al riparo della grotta.  Amo il presepe ma non quello vivente; capisco quelli che si tramandano da tempo, ma quei festini in maschera sponsorizzati dalla pro loco e dalle associazioni umanitarie, danno un po’ fastidio. In primo luogo stridono col presepe morente del Medio Oriente, dove le grotte e i cunicoli sono abitati dai terroristi e Betlemme è zona di guerra. I presepi viventi animano poi una gara campanilista ma soprattutto sono concepiti come piccole orge di retorica umanitaria: il presepe è un piccolo congresso delle nazioni unite, i Re Magi sembrano rappresentanti di Ong o Amnesty International, i pastori sfilano come in un corteo pacifista, san Giuseppe è una specie di Casarini dell’antichità, la Madonna una hostess multilingue e magari pure fluida, della società multirazziale e multisessuale; e il Bambino se è di colore vale il doppio. Ma se è nato in provetta, con l’utero in affitto, è ancora meglio. Gli angeli svolazzanti sulla grotta sono una via di mezzo tra i caschi blu e il gay pride, con quell’alone transessuale, variopinto, con polvere bianca, da paradisi artificiali. Il presepe diventa un pretesto per piazzarci la solita stucchevole menata sulla pace, l’antirazzismo, Buone Parole e Tutti Fratelli, dimenticando il miracolo della Santa Natività. Come i bambini, nei presepi viventi anch’io sono attratto dal bue, dall’asino, dalle galline e dal cammello, piuttosto che dalla sacra famiglia, di cui si avverte la finzione, ridotta a una specie di stand filantropico-turistico in costume. Gli animali invece non fingono.

Il presepe che portiamo nel cuore è quello dell’infanzia, con l’ovatta per la neve, la carta d’imballaggio per le montagne, i laghetti ricavati dagli specchietti della vanità femminile e il muschio rubato dai cortili. Era un piccolo miracolo di edilizia sacra, di urbanistica domestica a sfondo infantile e religioso, dai risultati goffi e commoventi. Ricordo i personaggi raccogliticci: i re Magi, per esempio, erano tre ma due appartenevano a una collezione e il terzo a un’altra più bonsai, sembrava un nano imbucato. Poi due arrivavano col cammello, il terzo a piedi; sarà arrivato con l’autostop, in taxi o in autobus? Impressionava Gesù Bambino che era un bambinone più grosso di sua Madre e, quel che più impressionava, perfino del bue e dell’asino. A san Giuseppe si spezzava ogni Natale il bastone ed era sempre in riparazione; si rimediava col fil di ferro. Di Madonne ne avevamo tre, come le Marie del panettone; le altre due erano mescolate tra i pastori ma stavano lì in lista d’attesa; in caso di necessità si rendevano disponibili, come dicono le hostess per le maschere d’ossigeno. Tra i personaggi c’era un venditore di cocomeri clamorosamente fuori stagione; ma se è per questo i personaggi erano per metà vestiti d’estate e per metà d’inverno. I primi erano giustificati dal luogo (è pur sempre continente africano), i secondi dal tempo (è pur sempre dicembre). Nel presepe c’era quasi sempre un infiltrato, un personaggio fuori tempo, magari vestito con abiti borghesi dei nostri giorni, forse un agente del Mossad. Ricordo la difficoltà di sospendere in alto la stella cometa, attraverso fili invisibili che tanto invisibili non erano. Più drammatico era piazzare sulla grotta i due angioletti che sistemati precariamente cadevano in continuazione provocando stragi di papere e pastori, giustamente protestanti verso i due involontari terroristi caduti dal cielo. Era un po’ grottesco il presepe domestico, così raffazzonato. Ma emanava calore umano e davvero sembrava che in quei giorni ad abitare la casa non fossimo solo noi della famiglia.

Marcello Veneziani                                                                                                               

Cretini ma presuntuosi, ignoranti ma arroganti…

I cretini sono sempre stati tanti al mondo. Gli ignoranti sono stati anch’essi una forza gigantesca nella storia dell’umanità. Gli arroganti pieni di sé sono stati una forza considerevole seppure non paragonabile alle prime due. Il mondo in fondo ha retto sulla separazione delle loro carriere. Ovvero la folla dei cretini e la massa degli ignoranti in fondo non avevano la pretesa di guidare e giudicare il mondo, magari erano consapevoli dei loro limiti, tiravano a campare, non si mostravano arroganti. Il più delle volte avevano l’umiltà di chi non sa o non capisce e ne è in fondo cosciente; non si azzardavano a erigersi a giudici, a trinciare giudizi su tutto ciò che non sapevano o non capivano, o che non era semplicemente alla loro portata e alla loro comprensione.

La novità perversa dei nostri anni è invece che l’ignoranza si è fatta presuntuosa, come la stupidità, e non solo: si compiace di sé, si esibisce, è pure vanitosa. E’ salita in cattedra, sul ponte di comando, emette sentenze. La distorsione del cittadino sovrano e del diritto di voto universale, l’avvento della società dei consumi di massa e del regno della quantità che prevale sulla qualità, a ogni livello, unita all’uso recente dei mezzi di comunicazione come i social e gli smartphone, ha permesso la sciagurata fusione delle carriere: nasce così il cretino presuntuoso e l’ignorante-arrogante, a loro volta fusi in una sola persona, col disvalore aggiunto della vanità, della pretesa di celebrità e riconoscibilità. L’ignorante e il cretino si sentono in diritto di giudicare il mondo e di pensare e agire come la loro testa, o quel che credono partorito dalla loro testa, decide di dire e di fare. Si illudono di giudicare con la loro testa perché non hanno nemmeno il minimo spirito critico di capire che aderiscono a giudizi prefabbricati e modi, mode e modelli prestampati. Senza sapere nulla di ciò di cui parlano, senza conoscere l’interlocutore se non attraverso un’etichetta, un dettaglio o un pregiudizio, esercitano così la loro supponente idiozia e la caricano pure d’ironia e di sarcasmo perché hanno capito che la ridicolizzazione dell’altro certifica la loro superiorità etnica, etica, intellettiva.

E’ comprensibile che di fronte a questo avvento barbarico di massa, si rimpianga la beata ignoranza o ingenuità della società contadina premoderna, che si accompagnava all’umiltà, a volte perfino alla vergogna, al pudore della propria insipienza e che poteva almeno aspirare a una minima estrema forma di saggezza, che ben espressero in epoche diverse Socrate e Nicola Cusano: so di non sapere e capisco di non capire, aspiro al più alla “dotta ignoranza” e al senso dei propri limiti. E di fronte al baconiano principio “Sapere è potere”, poteva obiettare, abbassando la cresta, che da un verso so di non sapere e dall’altro so di non potere; ossia non tutto è possibile, accessibile e a disposizione della mia volontà.  Chi intuì quasi un secolo fa questa fatale involuzione della specie in atto nella società di massa, fu un pensatore e sociologo famoso, José Ortega y Gasset. Ne La ribellione della masse del 1930, osservando i regimi totalitari di massa ma soprattutto l’americanizzazione in corso, il filosofo osservò: “l’anima volgare, riconoscendosi volgare, ha l’audacia di affermare il diritto alla volgarità e lo impone dappertutto”. Non è la volgarità il male, trattandosi di un limite inevitabile, diffuso e perenne; ma la pretesa di rendere sovrana la volgarità, le idee volgari, i gusti volgari, con la forza del numero e l’arroganza dell’ideologia che si fa spirito del tempo, forza storica. Questo tipo umano non ha una definita collocazione politica e ideologica, anzi nasce dal collasso delle categorie ideologiche e politiche. Se vogliamo, si profilò sull’onda del Sessantotto ma diventò presto fenomeno trasversale. A voler essere più analitici potremmo dire che a sinistra è più facile trovare il mix tra arroganza, ignoranza e stupidità, per via della loro pretesa superiorità; mentre a destra l’ignoranza e la stupidità, seppur diffuse, sono ancora sfuse dalla pretesa di interpretare lo spirito del mondo e si arrogano meno il presuntuoso diritto di ritenersi i depositari del vero; parlano a titolo personale e non nel nome della storia. O si affidano ad autorità venute dall’esperienza, dalla tradizione, dal sentire comune, da ciò che si è sempre fatto, detto e ripetuto. A volte i due versanti sono uniti da una specie di disprezzo verso il mondo, quel rancore che inverte un originario complesso d’inferiorità in un complesso di superiorità, derivato dalla loro pretesa estraneità a quel contesto. Il canone vigente ha rifornito questa pretesa superiorità e questa tendenza a disprezzare il prossimo di potenti pregiudizi che sono divenuti lessico comune in ordine alle varie, presunte fobie (omofobia, sessuofobia, xenofobia, islamofobia), e all’accusa onnicomprensiva e onnivalente di fascismo.  Ma al di là di questa tendenza, il vero problema è la corsa sempre più veloce della società in cui noi viviamo verso la deculturazione radicale di massa. Attenzione, pericolo caduta masse. Stiamo procedendo con una rapidità impressionante verso una cancellazione radicale dell’habitat di saperi, concezioni, visioni, modelli di comportamento stratificati nel tempo. L’arroganza degli ignoranti si alimenta di questa desertificazione della cultura ma per altri versi la alimenta, la produce. L’irrilevanza del sapere, o quantomeno di porsi domande e conoscere i propri limiti, è alle origini di questa tendenza, su cui torneremo più ampiamente in seguito. Quel che si può dire è che di fronte a questa tendenza sono praticamente ininfluenti i governi, siano essi pseudodestrorsi che sinistrorsi. Non incidono, non ne hanno le capacità, forse la volontà e la possibilità di farlo. Scivolano come acqua o liquame sulle superfici lisce o porose della società e non producono cambiamenti, inversioni di rotta, segni di mutazione… L’intelligenza è in pericolo di vita e non sai a chi lanciare l’allarme.

Marcello Veneziani 

La terrificante utopia di Elon Musk…

Melon Musk sarà il temibile centauro, metà premier metà magnate, che sarà protagonista oggi ad Atreju, la festa di Fratelli d’Italia.

Per la precisione, Elon Reeve Musk, l’imprenditore australiano-canadese-statunitense, ammirevole e inquietante, torna sei mesi dopo in Italia, nuovamente ospite della Meloni, anzi ospite d’onore, con grande scuorno dei suoi avversari politici. Musk è l’uomo più ricco del mondo, secondo Forbes, con un patrimonio di oltre 250 miliardi di dollari, è il principale impresario del futuro. Ha una compagnia aerospaziale, SpaceX, che sforna imprese e lancia razzi in orbita nello spazio; ha la Tesla, leader delle auto elettriche; è da poco proprietario di Twitter che ha ribattezzato X; ha un sistema di trasporti avveniristico denominato Hyperloop e tante altre cose ma soprattutto ha due temibili mostri futuristi che sono Neuralink e OpenAI: la prima si occupa di neurotecnologie e punta a immettere nel cervello un chip per correggere malformazioni ma non solo. La seconda, invece, vuol rendere proficua, amichevole (friendly) l’Intelligenza artificiale. E’ considerato nel bene e nel male un visionario, si preoccupa del futuro sul piano scientifico e tecnologico e di temi rubati alla metafisica e alla religione, come per esempio l’immortalità e la sopravvivenza oltre la vita e oltre la Terra, usando la luna come stazione di servizio per Marte. (Fascisti su Marte, dirà qualcuno).

Come tutti i visionari che maneggiano cose e non solo parole, fa paura, anche perché se una persona limitata, come lo è ogni uomo, dispone di poteri che eccedono di gran lunga la sua capacità di conoscere e di capire gli esiti a cui vanno incontro le sue realizzazioni, si aprono scenari assai inquietanti. Il fatto che non sia uno Stato, o meglio un’unione di Stati ma un singolo individuo a occuparsi del futuro dell’umanità non rassicura ma genera ulteriore inquietudine. Non che gli stati ci lascino tranquilli, ma sono bene o male entità collettive, di solito con sistemi bilanciati di poteri e contropoteri, a volte devono rispondere anche ai popoli. I singoli imprenditori possono invece impazzire, lasciarsi prendere dal delirio di onnipotenza, o semplicemente credere che sia un bene per l’umanità quel che può invece rivelarsi una catastrofe.

Sto leggendo un’opera terrificante di un pensatore assai alla moda, Michel Onfray, pensatore ateo e irregolare. Si chiama Anima (ed. Ponte alle grazie), è un librone di 500 pagine, che l’autore presenta come un’inchiesta filosofica, dalle origini al transumano. E si conclude proprio con Elon Musk. Onfray vede nel progetto transumano di Musk un ulteriore aspetto inquietante: Musk definisce l’anima come la traccia digitale lasciata da un essere umano e riducibile a dati scaricabili e trasferibili. Ossia l’anima è un po’ come una pen drive, una chiave usb che si può trasferire dall’encefalo di un essere umano a un altro. E’ questo sarebbe il succo del suo progetto di installare un microchip nella testa dell’essere umano fino a creargli un’altra identità. Il totem di questa scienza, la cavia, è una scimmia chiamata Pager; attorniata da maiali, di cui una femmina, Gertrude. Sembra di vedere un cartoon horror, che però non serve a divertire i bambini ma a cambiare la testa degli umani. E qui ci spostiamo da Neuralink a OpenAI, dove Musk studia come produrre intelligenze artificiali superiori alle intelligenze naturali; anche qui il progetto è andare oltre l’umano, in una specie perversa di superuomo nietzschiano. Il progetto prevede la connessione tra i nostri smartphone o simili, i nostri dati digitali, e la corteccia cerebrale, creando una vera e propria telepatia tra l’uomo e la macchina. C’è un nome a questo progetto: è Neural Lace, che dovrebbe essere una specie di bluetooth neuronale, in cui collegare il cervello ai pc, cioè all’intelligenza artificiale. Avremmo così un’espansione infinita di memoria e di dati a disposizione; ma spariscono la mente, l’anima, l’identità di un soggetto che si limita a essere solo un porto in cui approdano e salpano dati, una stazione postale di passaggio. L’intelligenza naturale, spiega Onfray, sarebbe sostituita dall’intelligenza artificiale, con gigantesche capacità cognitive ma non più riconducibili a un umano ma a un incessante flusso extraumano, metaumano, transumano, verso un nuovo biotopo. Chi ne disporrebbe delle chiavi? Il processo sembra svolgersi autonomamente dai soggetti, realizzando quell’autonomia sovrana della tecnica, paventata da Martin Heidegger, che si svincola dall’umano e lo piega al suo dominio.

In cambio di questa alienazione radicale, il progetto prevede una sopravvivenza post mortem, ricaricando il nostro “essere”, la nostra “anima”, il nostro “io” (ma in cosa consisterebbe così ridotto?) su un altro corpo, per esempio un robot. Musk avrebbe i mezzi tecno-economici per portare avanti la sua “follia”.

L’ateo Onfray si chiede: Chi potrà opporsi? E soprattutto in nome di che cosa? Di quale morale, di quale etica, di quale super-Io, di quali divieti, valori o tabù, o noi diremmo di quale Dio?  La sua conclusione è amara e in fondo classica, pascaliana: chi vuol fare l’angelo, come Musk, è destinato a fare la bestia; o meglio il demonio. Solo un dio ci può salvare, ma Lui non c’è, dice l’ateo.

Lasciamo aperto il quesito, promettente e minaccioso. Tornando sulla terra, a Roma, dove Musk verrà a portare il suo Verbo, mi chiedo e vi chiedo: ma tutto questo non vi terrorizza? Affidare il futuro al sogno di un visionario o invasato, al suo delirio di onnipotenza che va oltre la politica, la religione, gli stati, la tradizione, la cultura e la storia, non vi spaventa? Dove finisce l’identità, la storia, l’anima di un uomo e di un popolo, temi cari a quel mondo che si dice conservatore?

L’unico precedente di casa è il futurismo, anzi per la precisione il romanzo scritto nel 1909 in francese da Filippo Tommaso Marinetti, Mafarka il futurista. Mafarka vuole creare l’uomo nuovo, sogno condiviso nel primo novecento da americani, russi e italiani, comunisti e fascisti. E lo vuole creare “senza il concorso e la puzzolente complicità della matrice della donna”, un maschilismo che procrea senza donne, con l’ausilio delle macchine. Visionario anche lui, ma in questo caso era solo letteratura. Per fortuna.

       Marcello Veneziani     

Il secondo referendum truccato contro i Savoia…

 

Se è vero, come diceva Marx, che la storia si presenta prima come tragedia e poi come farsa, la vicenda del referendum truccato a Sanremo per impedire la vittoria di Emanuele Filiberto di Savoia al festival della canzone italiana, ne rispetta tutti i canoni.
Il 2 giugno del 1946, dissero in quel tempo i monarchici, il referendum tra monarchia e repubblica fu truccato a vantaggio della repubblica; e il re di maggio, Umberto II di Savoia, nonno di Emanuele Filiberto e figlio dell’ultimo re in carica, Vittorio Emanuele III, dovette andarsene in esilio. Di quei brogli elettorali si è parlato a lungo, l’ombra è rimasta sulla repubblica come una specie di peccato originale; il dubbio non è mai stato dissipato.
Ma la vittoria negata al re si sarebbe ripetuta 64 anni dopo anche a Sanremo, che è diventata la capitale della nostra identità nazionale e dell’autobiografia popolare; una specie di luogo simbolico in cui si elegge quello che un tempo si chiamava il reuccio della canzone, seppure dalla durata di un solo anno. Racconta Pupo, l’eterno puer della canzone italiana, che nel 2010, il brano Italia amore mio cantato con Emanuele Filiberto e Luca Canonici al festival di Sanremo, stava vincendo la rassegna canora, con picchi d’ascolto e record nel televoto; quando arrivò dal Quirinale, da Napolitano e dal suo staff, una specie di veto repubblicano su quella canzone dal titolo programmatico e sull’erede al trono vincente al festival. E improvvisamente il televoto lasciò al secondo posto la canzone patriottica e monarchica per far vincere ancora una volta la Repubblica. Napolitano, secondo la versione pupesca, temeva un rigurgito monarchico: all’epoca al governo c’era Silvio Berlusconi e l’Italia si apprestava a celebrare i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, quando fu proclamato a Torino, il 17 marzo del 1861, il regno sabaudo. Insomma, il clima in quell’anno sarebbe stato favorevole a una revisione della nostra storia, il palcoscenico era il più seguito a livello popolare. Poteva dunque insinuarsi una specie di revanscismo monarchico. D’altra parte non era stato il mundial vinto dall’Italia nel 1982 a sdoganare nelle piazze e in politica la ripresa del tricolore e dell’amor patrio? Napoli è sempre stata città monarchica e ai tempi del referendum lo confermò; e poi dette alla repubblica il suo primo presidente, Enrico de Nicola, che era, guarda la combinazione, monarchico e aveva votato monarchia al referendum del 2 giugno… Ma col passare degli anni, la nostalgia monarchica in Napoli ha preso un’altra piega, quella borbonica, anche perché quella Napoli era assai più gloriosa e importante di quella postunitaria sotto il tallone piemontese e garibaldino.
Pupo ha rivelato la magagna presunta al Festival con tredici anni di ritardo e alla morte di Napolitano, non si sa se per rispetto o per furbizia. E l’ha rivelata proprio al quotidiano la Repubblica che poi fu fondato da un giornalista che all’epoca aveva votato monarchia e che si era sempre comportato da monarca nel suo giornale. Parlo di Eugenio Scalfari. Vedi i casi della vita…
Naturalmente l’ex portavoce del Capo dello Stato, Giovanni Matteoli, ha smentito la tesi di Pupo, parlando di fandonie e di ridicoli complotti. Resta però un mistero il golpetto del televoto dove nel giro di pochi minuti il responso delle urne fu rovesciato ed Emanuele Filiberto perse di nuovo il trono, insieme al ministro della Real Casa, Pupo, al secolo Enzo Ghinazzi l’aretino, proveniente da Ponticino, che faceva le veci di Falcone Lucifero ai tempi del Re in esilio.
I dietrologi e i maligni potranno aggiungere che Napolitano aveva un antico conto in sospeso con i Savoia. Per anni nel Partito Comunista rinfacciarono a Napolitano la sua spiccata somiglianza con Umberto II di Savoia. Pure il titolo di Principe di Napoli, di Umberto si adattava a Napolitano, che era tale di nome e di fatto. Un fantagossip che circolò per decenni s’inventò che Giorgio fosse addirittura un fratello separato dalla nascita di Umberto. Ma sui figli spuri è ricca e movimentata la retro-storia dei Savoia…
Togliatti stesso ironizzò su quella somiglianza tra il compagno Giorgio e il re in esilio e reputò improbabile affidare al sosia del re un ruolo centrale nel Pci. Invece il destino beffardo dette proprio a Napolitano la possibilità di essere il primo comunista ad assumere la carica più alta della repubblica italiana, andando ad abitare proprio il Quirinale da cui erano stati sfrattati i Savoia. A far crescere la diffidenza nel Pci verso Napolitano si univano i suoi modi cortesi da figlio della buona borghesia napoletana e la sua passione per il palcoscenico e i ruoli di attore, sin dai tempi in cui era iscritto al Guf, i gruppi universitari fascisti. A cui si è aggiunto negli anni al Quirinale, l’appellativo di Re Giorgio che pareva alludere a tutto questo. Per dissipare queste dicerie, e rimuovere il significato di queste somiglianze, Napolitano avrebbe dunque bloccato o fatto bloccare il suo “nipote virtuale”, Emanuele Filiberto nella gara canora, temendo un effetto politico e simbolico. Di certo possiamo dire che non difettava a Napolitano un certo interventismo diffuso…
È divertente pensare che in piena bagarre politica sulla riforma costituzionale e sulla necessità di ridisegnare i ruoli del presidente della repubblica e del premier, risalga l’opzione in ombra della monarchia, grazie a Pupo, che come il pupo proverbiale della favola, ha rivelato: il re è nudo…
Questo Paese cancella la sua memoria storica; così la storia viene a visitarci con i fantasmi, evocati dal candore perfido di un Pupo

Marcello Veneziani