Dopo il tramonto è sera ad Occidente…

Il tramonto dell’Occidente è alle nostre spalle. Viviamo ormai da tempo la sera dell’Occidente, e cresce il timore della notte che verrà. L’invasione russa in Ucraina, il conflitto in Israele e Palestina, e la percezione netta che il pensiero dominante in Occidente – che pure si configura come Pensiero Unico e globale sia in realtà minoritario nel mondo – accrescono la sensazione di un Occidente assediato, circondato e isolato.
L’Occidente vede all’orizzonte, oltre la minaccia islamista, inquietanti ombre cinesi e persiane, turche e russe, flussi migratori arabi e africani; avverte che pure l’Organizzazione delle Nazioni Unite, l’Onu, non sincronizza i suoi pensieri con l’orologio occidentale e non ne condivide le linee e i canoni. Persino nella Nato il pronunciamento di Erdogan su Israele, ha infranto la compattezza dell’Alleanza militare e mostra una larga crepa sul fronte medio-orientale.
Quel che dalle nostre parti si giudica come un attacco all’Occidente è percepito in modo opposto nel resto del mondo; la mobilitazione antirussa per l’Ucraina riguarda l’Europa e gli Stati Uniti ma non il mondo e le superpotenze asiatiche. E così per Israele, il resto del mondo non condivide la posizione filoisraeliana dei governi occidentali.
Il mondo ha una visuale diversa rispetto a quella occidentale, ha priorità e giudizi differenti, ma soprattutto ha interessi geopolitici, economici e strategici opposti. L’annuncio del Nuovo Ordine Mondiale con cui si aprì la nostra era, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la crisi del Golfo, è ormai un ricordo sepolto nel passato, oggi improponibile. L’idea che gli Stati Uniti siano i gendarmi del mondo, la Superpotenza che stabilisce il diritto e la sua negazione, che sancisce la linea di confine tra stati canaglia e stati democratici, è ormai largamente rifiutata e superata. Ogni pronunciamento euro-americano s’infrange rispetto ai quattro quinti del pianeta, a partire dal Brics, la famosa intesa tra Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica che in realtà è già estesa di fatto a una trentina di paesi.
Dire Occidente è una categoria approssimativa se non sbagliata, perché significa non considerare già in casa propria il cammino divergente della sua parte più popolosa, l’America Latina; dal Brasile alle tentazioni populiste e peroniste, sono forti i conati AntiUsa nel sud America. L’Occidentalizzazione del mondo di cui scriveva Serge Latouche pochi anni fa è ormai nel suo girone di ritorno; dire globalizzazione oggi vuol dire più asiatizzazione dei mercati e africanizzazione dei popoli che estensione del modello americano-occidentale al pianeta. Resistono “isole” ancora legate al mondo occidentale, come il Giappone e l’Australia; ma alla fine quel che ci ostiniamo ancora a considerare come lo Spirito del Mondo e lo Spirito del Tempo (Zeitgeist e Weltgeist) in realtà riguarda solo l’America del nord, il Canada e l’Europa. Una fetta minoritaria del pianeta, un abitante su dieci.
C’è da chiedersi se l’aver interpretato l’invasione in Ucraina e il conflitto in Israele come attacchi all’Occidente, siano stati un segno di lucida prevenzione o un grave errore strategico, militare e politico. Perché l’attacco all’Ucraina, in realtà, è stato un tentativo della Russia di riprendere il controllo della sua antica area imperiale d’influenza, senza insidiare l’Europa o minacciare l’Occidente; semmai temeva che le basi Nato puntate dall’Ucraina sui suoi confini fossero al contrario una minaccia per Mosca. E l’attacco sferrato da Hamas contro Israele non è nato come l’attacco dell’Islam all’Occidente; rischia di diventarlo adesso, dopo il pronunciamento netto degli Usa e dell’Europa a fianco d’Israele, anziché porsi come garanti del diritto dei due popoli ai due stati e la ferma condanna degli orrori e degli stermini ai danni delle popolazioni civili di ambo le parti.
La dichiarazione ripetuta che l’invasione dell’Ucraina come il massacro d’Israele fossero due attacchi all’Occidente acuisce anziché frenare la tensione antioccidentale del mondo; ci dichiara già schierati, cobelligeranti, in attesa di esserlo a tutti gli effetti.
Dall’altra parte, cresce all’interno dell’Occidente una spina nel fianco sempre più lacerante. Prendendo lo spunto dalla sacrosanta istanza di difendere il diritto alla vita di tutti i popoli, la pace e l’umanità, il movimento che scende in piazza contro Israele rischia di diventare un nemico interno dell’Occidente, rafforzato da migranti arabi e neri radicalizzati che inneggiano ad Hamas e all’anticolonialismo. Anche perché questo movimento che si dichiara pacifista e umanitario trae spunto dall’ideologia del disprezzo e della vergogna per la nostra civiltà occidentale, alimentata dai tanti cavalli di Troia: Woke, Black lives matter, cancel culture e tanto odio per la nostra identità, storia, tradizione e religione.
Così l’Occidente dichiara guerra preventiva alle ombre sparse nel mondo, mobilita la fabbrica dell’informazione e della propaganda per dotarsi di un racconto unilaterale; ma patisce al suo interno questa spinta masochista e antioccidentale, sotto le bandiere del pacifismo umanitario.
Così viviamo il paradosso occidentale che mentre va perdendo la sua civiltà e identità, si fa inclusivo e rigetta i suoi stessi confini, pretende poi di difendere il suo ruolo e la sua potenza arbitrale nel mondo. Una specie di Occidente artificiale, come l’intelligenza, privato ormai di una consistenza di civiltà, che vede nemici dappertutto meno quelli che crescono dentro, in casa propria. Ecco l’Occidente a cui “si fa notte innanzi sera”.

Marcello Veneziani                                                                                                                

L’agosto di Cesare Pavese e non solo…

Agosto, il mese adolescente

Agosto non è un mese ma uno stato d’animo; è l’adolescenza dell’anno, in cui si esce dal mondo e dal tempo e si entra nella natura e nel mito. Il tempo è sospeso anche se corrono i giorni, e ciascuno vive in agosto l’esperienza primitiva del ritorno all’origine. La festa patronale, le stelle di San Lorenzo e l’apoteosi del ferragosto, le cicale e le notti bianche, il caldo e il mare, i corpi liberi e vogliosi di vita; e poi la luna e i falò, la spiaggia, la bella estate, feria d’agosto. Cesare Pavese cantò, sin nei suoi memorabili titoli appena citati, la bellezza e il mito d’agosto e dell’estate.  Da meridionale associo agosto al sud, è il mese del ritorno a sud, della discesa a sud di tanti settentrionali. Eppure se l’agosto naturale e sensuale, marino e salmastro, solare e notturno, è situato al sud, l’agosto in parole e poesie è associato a uno scrittore del nord più profondo che raccontò le Langhe e le sue colline. Lui, Pavese. Agosto, dicevo, è il mese adolescente. In agosto di solito debutta l’adolescenza, i primi amori, le prime scoperte, la libertà e la trasgressione già nel tirar tardi la sera e allontanarsi da casa. Ma in agosto è il mondo adulto che torna adolescente, perché cerca il gioco, il trastullo, la vita senza diaframmi che si mostra nuda, come i corpi e i pensieri. Agosto è poi maledetto perché è mese di folle e di file; tutto si fa meno bello per spalmarsi come una crema abbronzante su più persone. Ma l’età di agosto è l’adolescenza, dimentica gli affanni passati e quelli venturi, è una tregua, un oblio, una fuoruscita dai giorni consueti. Nell’adolescenza, spiega Pavese in Feria d’agosto, c’era un tesoro che noi non sapevamo; c’è fascino e stupore, come dentro una favola. Tutto è visto con altri occhi, sotto altra luce: è l’essenza del mito. Verrà poi la nostalgia a ricordare quel tempo mitico, gremito di simboli, però ci mancherà “la purezza iniziale di vivere nell’essere genuino”. Gli unici paradisi a noi concessi, si sa, sono i paradisi perduti; lo disse Proust, lo disse Borges, lo dice in altri modi Pavese. Quando sei in paradiso non ci fai caso; quando ci ripensi e ne avverti la mancanza il paradiso è già perduto. Prima si vive, poi si conosce, non si vive e si conosce nello stesso tempo; questo è il mistero di vivere secondo Pavese. L’infanzia per lui è il vivaio dei simboli; l’adolescenza sprigiona la voglia di viverli con tutti i sensi, anche quelli nascosti. La vita adulta, avverte Pavese, aggiungerà ben poco al tesoro infantile di scoperte. L’essenza dello stupore, lo stato di grazia, per lui, non è restare dentro se stessi ma spargersi nei luoghi fino a sparire dentro di essi: farsi quel campo, quel cielo, quel bosco; aggiungo, quel mare. Io non esisto, esiste il cielo. Io non esisto, esiste agosto. Nessun bambino ha coscienza di vivere in un mondo mitico, dice Pavese. Nessun bambino sa cosa sia il paradiso dell’infanzia; anzi, l’infanzia è poetica solo per gli adulti. C’è nel bambino “un immediato e originario contatto alle cose”. Che si perde quando si diventa adulti, e finisce agosto. Tornando nei panni dello scrittore, Pavese annota: “quando si prende in mano la penna per narrare sul serio, tutto è già accaduto, si chiudono gli occhi e si ascolta una voce che è fuori dal tempo”. Il poeta cerca di “rinverginarsi” dice Pavese, cioè tenta a ritroso di ritrovare la purezza perduta. La narrazione, l’arte, è il ritorno cosciente all’adolescenza, ossia a quella stagione della vita che è ponte tra il mito e la realtà, tra l’infanzia e la vita adulta, tra lo stupore e la conoscenza. Cosa rende mitico e sacro un paesaggio? È avvertire quello spazio nella sua unicità. Così sono nati i santuari, nota Pavese; isolando un luogo dal mondo, come è d’altronde il significato etimologico di templum. “Feste, fiori, sacrifici sull’orlo del mistero che accenna e minaccia di tra le ombre silvestri. Lì sul confine tra cielo e tronco, poteva sbucare un dio”. Prima che cogliere il significato delle parole, sentite la musica, il ritmo, l’atmosfera propizia, il suono delle parole che cantano quei luoghi. Il mito è lì. La festa ricelebra il mito e insieme lo instaura ogni volta, come se fosse la prima volta. Pavese scriveva queste cose all’indomani della Grande Storia, subito dopo la tragedia della guerra mondiale, in quel Novecento dove tutto era schiacciato sotto il peso della storia. La letteratura come il cinema, si rifugiava nel realismo per applicare la narrazione storica alla vita minuta dei giorni e della gente comune. Pavese invece presta l’ascolto al mito, nello stormire delle foglie, riconosce il battito della natura, volge lo sguardo al piano simbolico, avverte da lontano la danza del dio. La storia nel suo tempo è un divenire incessante, imperativo; una retta che corre verso l’infinito, il progresso è la sua legge inesorabile ed euforica: invece Pavese si rifugia in agosto, nell’adolescenza, nel mito, nella natura, sente il ciclo della vita e delle stagioni, scorge la circolarità dei destini e il loro perentorio accadere. Negli anni trenta si era rifugiato nella letteratura americana, di cui sentiva l’afrore giovanile e selvaggio delle passioni contro il retaggio senile della storia europea. La mitopeia infantile, scrive, ha questo di particolare: le cose si scoprono, si battezzano, soltanto attraverso i ricordi che se ne hanno. È una conoscenza di seconda mano, non si vedono le cose la prima volta, “quello che conta è sempre la seconda”. Ciascuno di noi, avverte, possiede una mitologia personale: e qui la mente di ciascuno si popola di ricordi mitizzati della propria infanzia d’agosto. “A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada, e tutto era bello, specialmente di notte”.

Fu proprio in agosto che Pavese si tolse la vita. D’estate era nato, d’estate chiuse il suo cerchio. La bella estate.

Marcello Veneziani

Avanti popolo, indietro tutta!

Avanti popolo sarà il titolo del programma che Nunzia De Girolamo condurrà su Raitre al posto di Carta Bianca della Berlinguer, passata sulle reti Mediaset. Titolo audace, e azzeccato, a mio parere, perché scompiglia gli schieramenti ma che ha creato subito indignazione presso i custodi dell’ortodossia progressista. Ma come, su Raitre, al posto della Berlinguer, con un titolo che sembra uno sfottò della sinistra, o per dir meglio, del comunismo… Un oltraggio alla memoria di Berlinguer e del suo partito. Vorrei far notare, senza alcuna polemica, che l’oltraggio alla memoria di Berlinguer semmai l’ha compiuto la stessa Bianca Berlinguer preferendo, presumibilmente per una questione di ingaggio, una rete del nemico storico della sinistra, Berlusconi, alla rete storica della sinistra italiana. Nunzia De Girolamo stava smaltendo il suo precedente impegno politico nel centro-destra, e si stava ripresentando in veste di animatrice della tv d’intrattenimento. Poi, per una vicenda particolare, ossia per l’impreviste dimissioni della Berlinguer e il forfait di Nicola Porro, rimasto anch’egli a Mediaset con un doppio contratto, si è pensato di puntare sulla De Girolamo, che è sveglia e duttile, multitasking, e con l’ispirazione di sinistra della rete ha un curioso legame di parentela: è sposata con Francesco Boccia, uno dei leader del Pd.
Incuriosisce l’impasto che si va profilando: in una rete tradizionalmente di sinistra, un ex ministro del centro-destra che stava dedicandosi ai programmi d’intrattenimento e perfino a ballare in tv, va a condurre un programma dal titolo così forte e impegnativo e annuncia di voler inventare un format un po’ Funari un po’ Costanzo, sulla linea di confine tra politica e antipolitica.
Perché ci siamo soffermati a parlare di un programma, attaccato prima di nascere che vedrà la luce solo il prossimo 3 ottobre? Non per i suoi protagonisti, le polemiche, il tema della Rai e la linea di Raitre, ma per una questione di fondo: dove è finita la spinta al cambiamento nel nostro Paese, dov’è e da che parte sta il nuovo che avanza?
Per anticipare il senso di una risposta abbiamo affiancato il titolo della nota canzone socialista Bandiera rossa, scritta nel 1908 da Carlo Tuzzi, che annunciava un popolo alla riscossa verso il suo trionfo, al titolo di un programma di culto della Rai negli anni ottanta, di Renzo Arbore, con la presenza scintillante di Nino Frassica e tutta la banda arboriana: Indietro tutta! Cosa vogliamo dire? Che la speranza, l’attesa, la passione del cambiamento non c’è più in questo momento in Italia e forse non solo in Italia. Nessun popolo è in marcia, avanza o aspetta cambiamenti, né a destra né a sinistra, né tra i Cinque stelle né altrove. Con l’arrivo per la prima volta nella storia politica del nostro Paese, della destra nazionale e sociale alla guida del governo, abbiamo completato il ciclo: abbiamo avuto al governo il centro-destra e il centro-sinistra, abbiamo avuto i tecnici e i grillini, ci mancava solo la destra-destra, che viene da An e prima ancora dal Msi. Ora abbiamo anche quella da circa un anno alla guida del governo. E avvertiamo tutti, da tutte le parti, che è finita l’epoca in cui aspettavamo cambiamenti, svolte e nuovi corsi. La linea che prevale è sempre la stessa ed è dentro le coordinate imposte dagli scenari sovranazionali, tra Unione Europea, Patto Atlantico, Nato e Usa, indirizzo economico nel segno di Draghi e della Banca centrale europea, conformità al mainstream. Solo divergenze sul piano simbolico, o su temi che non hanno una ricaduta economica e non comportano cambiamenti di rotta, come per esempio i temi civili, la toponomastica, le questioni sensibili, l’orsa Amarena…
Non c’è una forza che oggi rappresenti il cambiamento e la voglia di imprimere una svolta al Paese: la destra della Meloni procede con i piedi di piombo, è prudente, non fa passi falsi, non accoglie nemmeno chi agita le sue stesse istanze di un anno fa, si attiene alle linee maestre tracciate dai poteri sovranazionali. La sinistra pure, si limita ad agitare principi in temi che non hanno una vera ricaduta civile, sociale e soprattutto economica, dai diritti lgbtq+ all’antifascismo, con l’accusa ridicola al governo Meloni di essere contro i migranti e insieme di aver consentito il loro raddoppio da quando è al governo. Nessuno si aspetta più dalla sinistra il cambiamento, al più la restaurazione del dominio precedente. E in fondo, alla restaurazione punta anche il Movimento 5stelle, con le sue battaglie in difesa del reddito di cittadinanza e del superbonus e il costante paragone tra una surreale età dell’oro quando c’era Giuseppe Conte al governo, e la tragedia in cui saremmo caduti da quando c’è Meloni a Palazzo Chigi. E da lontano, in piccolo, un nuovo “partito” nostalgico muove i suoi primi passi: il centro di Matteo Renzi che fonda il suo appeal sul ricordo di quando c’era lui alla guida dell’Italia.
Se esaminate i loro messaggi, da destra a sinistra, nessuno punta sul cambiamento, tutti sulla continuità, il ritorno, la restaurazione, il ripristino. Il futuro è visto più come minaccia che come promessa; suscita paura più che speranza. A questo quadro di vertice corrisponde un paese che ha smesso di confidare nel nuovo, scottato da un turn over di aspettative deluse o presto risoltasi  in senso contrario. Il risultato che ne deriva è appunto quello descritto in partenza: Avanti popolo, indietro tutta!

 Marcello Veneziani 

Se stasera ci sarà la fine del mondo…

Che succede se in un tranquillo week end al mare in casa d’amici vieni a sapere che nel giro di poche ore il mondo finirà? È la trama di un film, che la novantenne gagliarda Liliana Cavani ha lanciato nelle sale nel settembre che odora di Mostra del cinema di Venezia. Il film è ispirato sin dal titolo a un saggio del fisico e divulgatore Carlo RovelliL’ordine del tempo. Titolo bellissimo, tema importante, l’illusoria durata del tempo che non si misura in lunghezza e quantità ma in qualità e intensità, come diceva anche il filosofo Henri Bergson. Ma soprattutto il tema del film è cruciale, assoluto: l’umanità di oggi sorpresa davanti alla prospettiva di morire, tutti, simultaneamente, improvvisamente, nel giro di poche ore. La causa della fine del mondo sarebbe un grosso asteroide che viaggia velocemente verso la terra, il cui impatto sarebbe letale per il pianeta, senza possibilità di salvezza. Gli apostoli dell’apocalisse nel film sono due fisici che dicono e non dicono agli altri quel che sta succedendo ma che annunciano La Notizia delle Notizie: il finimondo è a momenti, non c’è scampo.
La trama è intrigante, il film è piacevole anche se gli aggettivi sono inappropriati rispetto al tema immenso che si affronta. Gli attori interpretano un campione della borghesia romana, benestante, un po’ attempata e un po’ radical, quel che si direbbe “il generone” romano con casa al mare a Sabaudia: Claudia Gerini, Alessandro Gassman, Edoardo Leo ed altri. Curiosamente, la sala in cui ho visto il film era costituita da un pubblico esattamente analogo a quello che era sullo schermo; attempati romani, borghesi e benestanti, forse un po’ radical anche loro.
Anni fa mi aveva molto colpito il film di Lars von Trier, Melancholìa, che verteva sullo stesso tema: l’imminente fine della Terra a causa di una collisione con un pianeta “malinconico”. Film straordinario che trasmetteva con potenza l’angoscia disperante di un mondo desolato alla fine del suo corso.
Il film della Cavani, invece, è totalmente diverso. La location è ridente, non certo da ultima spiaggia dell’umanità. I dialoghi mostrano l’assoluta sproporzione tra l’evento cosmico, tragico e apocalittico che si sta compiendo e le preoccupazioni minime, banali, dei “morituri” nel loro amabile rifugio sul mare, tra dolci chiacchiere, tenui rimpianti e residue vanità. Anche quando si cerca di scavare più a fondo, non emergono temi, domande, angosce che pure sarebbero spontanee davanti al disastro annunciato; si gira intorno a piccoli risvolti della propria vita, rapporti di coppia, frustrazioni umane o professionali, apprensioni ordinarie per i figli che non rispondono al cellulare. Non manca l’ironia, tipo non lavarsi i denti l’ultima sera prima della fine del mondo, ed è forse la chiave più simpatica del film, che cavalca la sproporzione tra l’immane tragedia e la vita di ogni giorno. I maschi nel film sono un disastro, tra bonaria coglioneria e miserabili ipocrisie; un po’ meglio le donne, più sveglie, come vuole il cliché femminista imperante. Mentre finisce il mondo, la confessione più forte che si ascolta è l’amore lesbico della moglie di Gassman per una sua amica presente all’addio. Davanti alla fine dell’umanità e a un evento che non si verificava, dicono i fisici, da 69 milioni di anni, l’unico male che viene evocato è il nazismo e la concorde condanna verso chi oggi ne sarebbe complice d’opinione… Ma come, finisce l’umanità, accade qualcosa che non accadeva da milioni d’anni e questi poveri imbecilli restano ancora aggrappati ai temini del politically correct, ai femministi e al gender, ai coming out, al pericolo nazi e menate varie? Temi che inquinano anche l’unica breve parentesi fuori dal banale: l’incontro di una di loro con una suora che vive serena la fine del mondo perché si affida alle mani di Dio. Il resto, niente.
Non mi interessa descrivere o recensire il film, invogliare o scoraggiare chi pensa di vederlo. Interessa invece porre la domanda: ma davvero l’umanità, noi contemporanei, non solo i cittadini romani in vacanza sul Tirreno, davanti all’Evento Supremo della nostra vita, davanti alla catastrofe finale, alla morte della vita sulla terra, siamo così radicalmente incapaci di capire cosa sta succedendo e siamo così ciechi, sordi, muti, meschini? Davvero non sappiamo far altro che raccontare alla vigilia della fine del mondo piccole infedeltà di coppia, riprendere storie d’amore interrotte, confessare gli orientamenti sessuali o dibattere sul nazismo e tacere di tutto, della nascita, della vita, della morte, di cosa resta di noi, la coscienza, se tutto si cancella? Davvero non sentiamo di fare null’altro alla vigilia della nostra scomparsa che restare nella casa al mare di un amico a conversare e ammazzare l’attesa; e non vedere in extremis qualcuno, rivedere qualcosa, ritirarsi a pensare, ripensare la vita, fronteggiare il panico? Non dico che ci vorrebbe un simposio di filosofi, ma davanti alla fine della vita e del mondo chiunque avrebbe tirato fuori tutti i misteri e le paure che sono dentro di noi, tutti i pensieri non detti, i sentimenti e gli impulsi più profondi. E allora la domanda è: siamo davanti a un film piccolo su un tema immenso, ovvero un film non all’altezza del tema che vorrebbe raccontare o siamo davvero così come ci rappresenta il film, un’umanità che anche davanti all’apocalisse pensa a che vestito mettersi stasera? Non un rimorso, non una scoperta in extremis della fede, una preghiera, non un pianto disperato o un gesto assoluto, non un pensiero universale sul destino dell’umanità. Solo piccole, ridicole inezie da fine serata più che da fine del mondo…
L’unico alibi, l’unica attenuante, è la sostanziale incredulità rispetto all’annuncio apocalittico, la convinzione che la catastrofe non ci sarà (come infatti succede) e i fisici magari sbagliano, si fanno prendere la testa dai loro astratti teoremi. Troppo poco per salvare un film; figuriamoci per salvare il genere umano…Alla fine l’umanità la scampa ma è bocciata per indegnità.

              Marcello Veneziani   

Un piacevole articolo di M. Veneziani su un evento di cinquant’anni fa…

 Le cozze, il vibrione e Baudelarie

 

Quando i pride erano dedicati ai santi .

Una volta gli italiani si vestivano a festa, scendevano in piazza, andavano in corteo, chiamato processione, o festeggiavano in casa il Dei Pride. Letteralmente vuol dire Orgoglio di Dio, in anglo-latino, ed è il nome consono al tempo nostro per indicare la festa del santo, fiero e devoto servo del Signore, e all’orgoglio del campanile. Sant’Antonio il 13 giugno, San Giovanni il 24 giugno, Santa Maria in più date; e tanti santi patroni, alcuni famosi, altri solo locali, taluni perfino rurali o marinari. Tutti miracolosi. La Regina di quella feste, oggi diremmo la Star, non era una Queer ma la Madonna, nelle sue svariate vesti e versioni. Solo a Napoli se ne contavano 250.
Ma il Dei pride non era solo una mobilitazione popolare di piazza né si celebrava solo nella Casa del santo, la chiesa a lui dedicata o dove c’era una sua statua, una sua reliquia, una tela o una pala d’altare a lui/lei dedicata. C’era il pellegrinaggio nelle case degli Antonio, Giovanni, Peppino, Maria per il loro onomastico, che valeva più del compleanno; un via vai di amici e parenti, visite e garzoni, cremolate e spumoni, per non dire di altri dolciumi che da noi si chiamavano “complimenti”.
Come avrete capito, vi sto parlando in particolare del sud, che esibiva più vistosamente quel che in tutta la cristianità cattolica era d’uso. Era la linea di distinzione tra il nord protestante e il sud cattolico; tra l’austero, lugubre e solitario luteranesimo e il chiassoso, corale paganesimo in chiave cattolica. Variopinto e festoso, anch’esso, ma senza essere circense o carnevalesco.
Perché vi parlo dei santi all’indomani del solito gay pride? Non solo per paragonare due mondi paralleli e opposti, tra sorprendenti analogie e radicali capovolgimenti. Ma per ricordarvi il ruolo dei santi da noi, l’importanza dei nomi ereditati, spesso dedicati a quei santi, e ripensare la religiosità nel tempo della sua scomparsa o meglio della sua sostituzione con i gay pride e affini.
Per farlo, non cito le innumerevoli fonti sulle vite dei santi, i loro culti e le loro feste “a divozione”. Ma il libretto simpatico, intitolato L’altra scommessa (Marsilio) di un autore televisivo e divulgatore scientifico, Antonio Pascale, che si definisce “ateo ma meridionale”. In che senso? Un po’ come l’ateo devoto, ma con un sapore etnico tutto particolare. A sud, anche gli atei non possono fare a meno di essere devoti ai santi, o perlomeno di rispettarli. Pascale venera in particolare i due Sant’Antonio, abate, “chillo cu puorc” e il santo portoghese da Padova. In loro anche chi è ateo può rispettare un modo di vivere, un sentire comunitario, una tradizione di popolo, il ricordo delle loro madri, del passato e dell’infanzia, il bisogno di sacro, di simboli e riti, l’affabilità domestica del divino, altrimenti troppo lontano, irraggiungibile.
I santi sono la prima rappresentazione della mediazione, di cui abbonda il sud, e il mondo cattolico, a ogni livello. C’è sempre qualcuno che si mette di mezzo; e quando si rompono gli argini e si passa a un’azione violenta, la parola d’ordine è “levateve a’ miezze”, toglietevi di mezzo (minaccia oggi superflua, perché nessuno si mette più in mezzo). Il clientelismo ha un antefatto celeste nella protezione dei santi: avere santi in paradiso è un modo di dire ancora corrente per la raccomandazione. I santi patroni, i santi più amati, i santi pop più recenti, su cui primeggia Padre Pio, erano le app più diffuse per accedere a favori e benefici altrimenti inaccessibili. Ai santi si chiede la grazia, l’intercessione, i numeri al lotto, il zito o la zita, tutto.
Sono i rappresentanti del sacro a portata di mano; un tempo uomini come noi, dunque ci capiscono, ci vengono incontro.
I santi sono la rappresentazione più alta dell’ascensore sociale: anche un umile mortale, un poveraccio, può diventare santo, salire in cielo. Non l’umanizzazione del divino della teologia della secolarizzazione, ma la santificazione dell’umano per avvicinarsi a Dio. Buon esempio, bella lezione. I santi erano gli influencer dell’antichità, i top model della vita buona.
Un mondo agli antipodi del nostro, anche se per la verità, nel sud dei santi e delle madonne, c’erano pure i femminielli, che erano l’archeologia degli lgbtqiazxgnboh+ (aumentano sempre le lettere, non saprei spiegarle). Ma il loro gay pride era devoto, andavano nel giorno della Candelora, il 2 febbraio, al Santuario della Madonna di Montevergine per chiedere benedizione e protezione. Era la juta dei femminielli; c’era pure lo “spusalizio mascolino” e la “figliata dei femminielli”.
Me le ricordo cos’erano le feste dei santi dalle nostre parti; lo sono ancora ma sono echi del passato; mi ricordo soprattutto come era bello per noi bambini assistere al via vai delle “visite” a casa, che facevano il giro dei Giovanni o degli Antonio di casa in casa. Era il tempo dei santi, dei dolci ma anche della frutta, dei magnifici fioroni, dei cibi del paradiso, dei gelsi e delle cerase. La natura concorreva alla festa con le sue primizie.
Di quella civiltà, e perfino delle sue esagerazioni e superstizioni, ho nostalgia e comunque ricordo con affetto quel mondo in confidenza coi santi, caloroso e verace, pieno di umanità e di fervore, religioso e gioioso, pur tra sacrifici, afflizioni e penitenze.
E ricordo tra i tanti, un lascito prezioso che stiamo perdendo. Un tempo, quando nascevano molti bambini, il nome dato loro non doveva essere “figo”, spiritoso o alla moda; i nomi non dovevano essere originali, online, ma dovevano significare qualcosa e ricordare qualcuno. E infatti erano i nomi dei loro nonni, dei loro zii, o i nomi dei santi a cui erano devoti, in particolare i patroni. Perché la vita era una sanguigna poesia a rime alternate, in cui i nipoti portavano il nome dei nonni, o dei santi venerati nella loro comunità. Ora senti in giro tra i rari neonati, nomi-fiction, alieni, nomi astratti, hi-tech, in silice, vegani o vegetali, global, netflix… Sono come i tatuaggi, che magari ti piacciono appena fatti ma poi devi tenerteli per una vita, quando perderanno il colore del tempo e della moda. Allora ripensi ai Dei pride e dici: ma siamo davvero meglio noi rispetto a quelli che portavano i nomi dei santi e andavano in processione?

MV     

La deriva autoritaria di Giorgia Meloni…la nuova parola d’ordine.

 

Dal mese di giugno è partita una nuova moda pret-a-porter: la deriva autoritaria. Si porta così, come uno scialle trasversale, tra i fianchi e il collo, e avvolge tutto; si sfila con la mano alzata in segno di saluto romano, il passo dell’oca, e sono botte da Orban per giudici, corte dei conti, stampa e gay pride. Sullo sfondo i cadaveri appesi di Fazio, Littizzetto e Annunziata, che si sono suicidati preventivamente per accusare il regime di strage.
Me la sono vista, la regina de noantri, la Giorgia de Melonis, andare spedita verso la deriva autoritaria mano nella mano a Joe Biden, l’altra manina che tocca il Papa, l’agenda Draghi sotto il braccio, gli abbracci appassionati a Zelenskij, gli stivaloni da vecchio regime che gli ha donato il ducesco Bonaccini per guadare il fango e gli occhioni minacciosi fuori dalle orbite e dall’orbace, come la Buonanima. Il battesimo del regime è annunciato urbi et orban dai quotidiani dei proletari italiani, fino a ieri del compagno lavoratore Carlo De Benedetti e oggi del compagno lavoratore John Elkann, operaio della Fiat, esule all’estero con la sua botteguccia, per amor di libertà e di fisco.
Se la Meloni proroga le norme introdotte da Mario Draghi sulla Corte dei Conti in quel tempo si chiamava efficientamento e modernizzazione, oggi si chiama ducettismo e svolta autoritaria. Se a finanziare le armi in Ucraina lo fa la Meloni col suo feldmaresciallo Crosetto, è guerrafondaia, se lo fa Draghi, la sinistra, e ampi paraggi è per la pace e la democrazia contro il tiranno. E poi se la Regione Lazio nega il patrocinio al gay pride perché sostengono gli uteri in affitto, che è reato, la deriva autoritaria si colora di omofobia, persecuzione dei trans, negazione della libertà e del diritto d’opinione. Non capiscono la differenza elementare tra il diritto di manifestare – che nessuno tocca, lede o minaccia – e il dovere degli enti pubblici di unirsi a manifestare per il gay pride, sottoscrivendo le loro battaglie senza battere ciglio.
Se un ente locale desse il patrocinio a una processione religiosa, griderebbero all’oscurantismo, alla deriva autoritaria. Invece il patrocinio al gay pride va dato, e se non lo dai sei liberticida. E’ un’Ideologia di Stato da osservare. Questa è la protervia della sinistra italiana guidata dallo Zan Alessandro: la libertà non è il tuo diritto di sfilare, comiziare  e manifestare, ma è l’obbligo della Repubblica di essere dalla tua parte, dare un carisma di ufficialità e di protocollo al tuo corteo e ai tuoi slogan. Ma non ho fatto in tempo a pensare che la decisione della Regione Lazio dovrebbe essere estesa a tutti gli enti locali, che la stessa Regione Lazio, impaurita dalle reazioni, ha fatto retromarcia, ed è pronta a dare il patrocinio purché non si faccia campagna sulla maternità surrogata. Il sindaco di Roma, Gualtieri, si è affrettato a dare il patrocinio. Avesse la stessa solerzia per pulire una città che è riuscito nel miracolo di peggiorarla rispetto ai tempi della Raggi… Perché non dare il patrocinio anche a chi sostiene tesi e visioni opposte, come Pro Vita e altre associazioni in difesa della famiglia e delle nascite?
La svolta autoritaria ha ormai quasi trent’anni, se non vogliamo risalire ai governi democristiani (vi ricordate ad esempio il fanfascismo?) Da quando arrivò Berlusconi al governo si gridò alla dittatura, alla svolta autoritaria, all’epoca sudamericana anziché polacco-ungherese. Berlusconi andò tre volte al governo con libere e democratiche elezioni, accettò i verdetti elettorali che lo davano per sconfitto e l’ultima volta andò via senza resistenza anche quando fu fatto fuori da un mezzo golpetto bianco, rosso e merdone; votò perfino a favore del suo successore tecnocrate e poi addirittura per la conferma al Quirinale del suo mandante. E nel mezzo, durante i suoi governi, fu attaccato come mai nessuno da magistrati, stampa e poteri grossi su tutti i fronti, persino dentro le mutande. Insomma questa fu la dittatura di Berlusconi, che semmai può essere accusato del contrario, di aver cambiato davvero poco. Il suo difetto non era l’autoritarismo semmai il contrario, la compiacioneria.
Ma a fronte di tutto questo, impunemente, gli stessi che ieri gridavano alla dittatura berlusconiana oggi gridano alla dittatura meloniana (che il mio correttore automatico, chissà per quale allergia ai cocomeri o ai conservatori, traduce in melanzana). E tutti sanno bene che una cosa del genere non la vuole nessuno, nessuno è in grado di instaurarla e a nessuno sarebbe permesso farlo, nel contesto interdipendente e subalterno in cui viviamo. Se c’è una cosa da notare del governo Meloni è il suo essere del tutto allineato alla Nato, agli Usa, alla Ue, alla linea Draghi, a Mattarella e all’establishment che contestava dall’opposizione. Di tutto la si può accusare, inclusa l’abdicazione alla sovranità, meno che di instaurare un regime dittatoriale (o per i comici della sinistra radicale, il fascismo). Ma la denuncia di un governo “d’estrema destra” che scivola verso l’Ungheria, dopo la fatwa lanciata dal vecchio ayatollah Romano Prodi, diventa subito parola d’ordine: deriva autoritaria. Ecco pronto il kit della collezione partigiana primavera-estate che l’indossatrice Elly Schlein, consigliata dall’armocromista, lancerà nel campo della moda politica. E pubblicherà il suo manifesto su un altro organo dei lavoratori, detenuti nella Ztl, Vogue, con tanto di sue foto in posa mentre con un décolleté libero, uguale e transessuale partirà eroicamente per la guerra di liberazione cantando fieramente: Orchetta nera, belva missina. E i vecchi neofascisti così pochi, così sconfortati, sentendo la vaga assonanza con Faccetta nera bell’abissina, si sveglieranno dal loro antico, mesto torpore e sogneranno per un momento che stia davvero tornando il Duce. A Elly, e ai suoi compagnucci della stampa e propaganda, sono affidati ormai i loro sogni nostalgici.

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Il primo tagliando alla Meloni…

Rovesciamo la frittata. Sento dire in giro, e accade abbastanza spesso, che Giorgia Meloni sta facendo esattamente quello che avrebbe fatto Mario Draghi, Enrico Letta o chi volete voi, in tema di Nato, armi all’Ucraina, direttive europee, linea economica, ecc,; dunque a cosa vale avere la destra al governo? Sono d’accordo sulla premessa, avendo anzi avvertito sin dall’inizio e anche prima, al tempo del voto, che sarebbe andata così. Ma provo a rovesciare le conclusioni e dire: preferisco che la stessa linea, che avrebbero tenuto Draghi, Gentiloni, Letta & C., la porti avanti la Meloni piuttosto che loro. Lo preferisco perché preferisco l’interpretazione di “destra” dello stesso copione, a quella tecnocratica o di sinistra; perché preferisco chi almeno proviene da una storia diversa, ed è più attenta almeno sul piano delle intenzioni e dei discorsi, ai temi della sovranità, della nazione, della tradizione; ed è avversa, almeno nelle intenzioni e nei discorsi, al predominio del politically correct e di tutta l’ideologia e la prassi che ne consegue. Da lei posso ancora sperare almeno minime cose positive; da loro no, vanno in un’altra direzione.
Se vogliamo, è la solita, vecchia teoria del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, anche se poi la vera questione è capire che liquido c’è dentro quel benedetto mezzo bicchiere, se è nettare o urina. Ma è l’unico criterio realistico per giudicare la situazione, e non sbrigarsi con un giudizio apocalittico e sconfortato.
Come avrete forse capito, il mio ideale sarebbe ben altro e ben più alto; e come forse avrete notato, non sono per niente d’accordo su molte di quelle posizioni assunte, soprattutto in politica estera. Anche a me capita di osservare, quando vedo imperversare la tirannia del conformismo progressista, che nulla è cambiato con l’avvento della destra al governo, e nulla sta per cambiare. Tutto si ripete come prima, stessi temi e stessi interpreti.
Però immaginare altre scelte, soprattutto in politica internazionale, significa poi vedere la Meloni buttata fuori dal governo: perché viviamo davvero sotto una cappa e se non sei allineato e coperto, ti fanno fuori in poco tempo dal governo, sguinzagliano i cani più feroci per sbranarti, costringerti a chiedere aiuto o farti fuggire a gambe levate.
A voler fare un primo bilancio di questi primi quattro mesi, che sono comunque un lasso di tempo troppo breve per giudicare un governo, io trarrei un’impressione complessivamente positiva, relativamente ad alcuni punti. Dunque, siamo contenti che dopo il governo tecnico sia tornata la politica, almeno come immagine, cornice e frasario. E che sia tornata con un timbro di destra, seppure su un foglio bianco.
La Meloni mostra di essere accorta, non scivola su bucce di banana, studia e lavora seriamente, mostra davvero – come gli riconoscono gli avversari- di essere capace. Ha schivato le accuse di fascismo e nazional-populismo, sa comunicare direttamente ed efficacemente, risulta affidabile e credibile quando parla, non va mai sotto o sopra le righe (un po’ meno i suoi uomini, alcuni veramente modesti). A volte si accanisce con alcuni del suo partito, un tempo della sua stessa parrocchia (es. Fabio Rampelli): ma chi come lei è in una posizione di forza potrebbe mostrare maggiore magnanimità e avrebbe tutto da guadagnare. Tiene a bada il malcontento di alcuni suoi alleati, sa dialogare con le opposizioni, si confronta con alcuni settori della società civile. Nel complesso tiene diritta la barra, sta sempre sui problemi, con equilibrio e senso pratico, mostrando anche una certa competenza, o quantomeno di aver studiato. Spicca in solitudine. Funziona bene nei rapporti internazionali, ha superato la difficile prova di essere accettata. I torti che l’Italia subisce, li avrebbe subiti anche con Draghi o altri, perché quando sono in gioco gli interessi nazionali, ad esempio francesi o tedeschi, non c’è premier che tenga. Magari avrebbero trattato Draghi con più riguardo, avrebbero fatto la foto con lui in prima fila, ma non avrebbero certo abdicato ai loro interessi.
Rispetto invece alla situazione interna, salvo qualche comizio per galvanizzare le “maestranze” e gli italiani, con qualche apericena identitario, la Meloni segue una linea di spoliticizzazione e di neutralizzazione dei conflitti. Non interviene dove si creano zone calde e radicalizzazioni bipolari (tipo Sanremo, temi civili e biopolitici, piazzate, risse e polemiche sui diritti); tende a raffreddare anziché riscaldare le tensioni, e a sopire i contrasti. Interamente presa dalla manutenzione del governo, affida solo a qualche fervida orazione la sete di rivoluzione conservatrice. Certo, col tempo qualcosa dovrà pur fare che rechi un segno concreto e una traccia che di lì è passata la destra al governo. Certo, il grande politico sa essere un po’ volpe e un po’ leone, per dirla con Machiavelli; deve sapersi destreggiare – parola santa – tra la prudenza e l’audacia, capendo quando è il momento di spingere sull’una e quando sull’altra. Finora ha prevalso la prudenza, ma siamo ancora nella fase di rodaggio, dunque è comprensibile; poi si dovrà saper usare anche l’audacia. Nonostante tutto, avvertiamo nell’aria meno ostilità di quando c’era Berlusconi al governo; ma i tempi della politica sono ormai labili e fugaci, la curva del consenso è assai breve, i rischi sono dietro l’angolo; in un momento si passa dalla magia del consenso alla maledizione della sfiducia.
Abbiamo tentato un realistico, veritiero check-in nel chiaroscuro, un tagliando al governo in corso d’opera. Ma siamo ancora in una fase sperimentale. Da noi al sud, con la bella stagione, ci sono i cartelli con la scritta “Meloni alla prova”. Vale anche per Giorgia e non solo per i cocomeri.

M.V

La rifondazione materna e le nascivendole…e la legge Zan.

La rifondazione materna e le nascivendole

E se la politica ripartisse dalla maternità, ovvero dal ruolo insostituibile delle madri nel governo della vita pubblica e dalla rifondazione materna della politica? La proposta mi giunge da Viviana Micheli, docente di Liceo Classico, ora in pensione. Ed è una proposta unita a una bozza di progetto per valorizzare il ruolo centrale della maternità non in famiglia o nella società ma soprattutto in politica. Per illustrare la sua proposta, la prof Viviana, mi manda l’immagine di una bellissima scultura di Zhang Yaxi dal titolo “Mother and Child”, qui sopra. La saggezza delle donne che regnarono o che consigliarono i potenti, la maggiore sensibilità femminile, l’attenzione all’economia domestica e il prendersi cura come attitudine naturale materna, la loro concretezza unita all’amore.

La politica fu un tempo il regno dei Padri, potrà diventare il governo delle Madri? È una domanda antica ma anche beffarda se si considera il contesto attuale: il femminismo fanatico, la psicosi del MeToo e la guerra innaturale tra i sessi; l’ossessione delle quote rosa, ma soprattutto la distruzione metodica della maternità, ora con la valorizzazione di orientamenti sessuali in contraddizione con la figura materna, ora con la piaga mortificante della maternità surrogata, col relativo losco traffico degli uteri in affitto. Modelli funzionali a un altro tipo di famiglia, e interamente centrati sul desiderio, se non il capriccio, anche di un singolo, di disporre di un figlio senza passare dal suo naturale transito da un padre, una madre e dalla loro unione.

In pieno frastuono della legge Zan, con relativa mobilitazione del circo, nell’epoca del femminismo militante, del Metoo imperante, della denuncia sistematica degli abusi, dello sfruttamento e delle violenze compiuti contro le donne, viene tollerato, accettato o solo blandamente criticato il traffico indecente sulle donne e la loro gravidanza. L’utero in affitto, ovvero il commercio di maternità. Un traffico che coinvolge i bambini, i nascituri. Ma non solo: in piena retorica umanitaria verso i migranti, si accetta senza battere ciglio questa forma grave di sfruttamento dei poveri del mondo, di esproprio della prole, da parte degli europei agiati. Una forma becera di colonizzazione dell’utero e di mercato dei bambini…

È una mortificazione e una violenza inaudita per le donne, una prostituzione e un’espropriazione non solo del proprio corpo ma della maternità e dei suoi frutti naturali e affettivi, i figli. Risponde all’egoismo benestante di coppie, spesso dello stesso sesso, o di single, che usano i corpi altrui come bucce, come gusci o container, come alveari e depositi, asserviti ai propri desideri.

La legge Zan tace sull’utero in affitto e la maternità surrogata e di fatto genera i presupposti per favorirne la diffusione. Il mondo che l’ha caldeggiata evita di pronunciarsi sulla pratica odiosa e sul business che ruota, sull’insufficienza dei divieti penali e sulle proposte per dichiarare l’utero in affitto un reato universale. Non ci sono nemmeno Fedez-Ferragni, palcoscenici e tv che denuncino questi abusi… Lucio Malan di Forza Italia ha chiesto di spiegare perché si condanna Orban e il suo governo che tutela la famiglia e non quei paesi che permettono la compravendita dei figli tramite l’utero in affitto.

La maternità surrogata tocca il paradosso della nostra società avara di figli, in cui i morti superano di gran lunga i neonati, in cui gli aborti continuano a falcidiare altre vite. E l’Italia ha il triste primato del tasso più basso di natalità, a differenza del resto del mondo, del sud del pianeta in particolare, in cui il problema è opposto, l’esplosione demografica.

In un contesto del genere succede dunque che qualcuno impossibilitato ad avere figli, per mancanza di partner, per sterilità o perché omosessuali, decida di fare shopping per avere un figlio. Non adottare chi è già nato, che sarebbe un’opera meritoria, di cui sarebbe auspicabile agevolare l’impresa, a certe condizioni di garanzia del bambino prima che dei genitori; ma “commissionarlo” a donne che per povertà e bisogno decidono di vendere il loro frutto o la loro fertilità. La maternità come un pacco arrivato da Amazon direttamente a casa tua, senza la fatica della gravidanza… Un capitolo infame, degno della tratta delle schiave e del traffico di neonati e ovociti.

In questo clima proporre alla politica un ruolo materno, ritenere cioè che si debba rifondare la politica ripartendo dalle madri suona come un risveglio di ruolo e un’inversione di rotta. Tutt’altro che maschilista, perché si presuppone un ruolo non subalterno, non di supporto domestico, delle donne ma un ruolo centrale, di guida e fondamento della società. E sarebbe anche una risposta non “regressiva” alla mortificazione della maternità con la “surrogata” e l’utero in affitto. L’Europa è largamente insensibile a questi temi, e anche le grandi forze del Parlamento europeo che pure si dicono di ispirazione cristiana, come i Popolari, sono assenti e silenziose su questa piaga. Altrettanto grave è il silenzio dei movimenti femministi che dovrebbero tutelare la dignità e la vita delle donne e avversarne lo sfruttamento e la depredazione. Salvo alcune lodevoli e solitamente individuali eccezioni, i movimenti delle donne tacciono.

Eppure sarebbe una battaglia cruciale in difesa della dignità femminile e della vita nascente contro l’umanità surrogata e la riduzione dell’utero a bancomat. Nel nome della madre, del figlio e della benedetta famiglia.

MV, Panorama (n.30)

 

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