Vogliono sostituire la famiglia naturale col modello queer…

 

 

 

 

 

 

 

 

La famiglia scelta. È l’espressione chiave per adottare una nuova, radicale sostituzione. Basta con la famiglia “costretta”, ossia la famiglia naturale, con i suoi legami di sangue e i suoi vincoli determinati dall’essere padri, madri, figli, fratelli “biologici”. Invece la famiglia scelta è per definizione una famiglia volontaria, adottiva, collettiva, libertaria ed egualitaria in cui vivono sotto lo stesso tetto persone varie, e animali annessi, indipendentemente dal genere e l’orientamento sessuale. In una parola, la famiglia queer.

Il mito di fondazione della famiglia queer è associato a Michela Murgia, la scrittrice che prima di morire decise di rendere pubblica e solenne la sua famiglia scelta, ibrida e allargata. Come tutti i miti di fondazione, la morte della fondatrice ha dato “sacralità” simbolica a questa visione pur dissacratoria della famiglia naturale e tradizionale. Al di là della vicenda terrena della scrittrice sarda, alcuni giornali, circoli intellettuali, cenacoli si stanno impegnando a trasformare quell’esempio di famiglia queer in modello di riferimento alternativo rispetto alla famiglia coatta traducendola in battaglia politica e civile per rivendicare la libertà d’amare e di scegliere (Elly Schlein sarà con loro).
Cos’è una famiglia queer? “Una famiglia ibrida fondata sullo ius voluntatis, sul diritto della volontà” spiegava la Murgia. E i suoi discepoli, da Michela Andreozzi a Marcello Fois, spiegano che la famiglia scelta è struttura variabile oltre che volontaria, e comprende animali, svariate sorelle, papà e mamma elettivi (si scelgono i padri e le madri con votazioni, si procede per acclamazione, si va a rotazione?). E ciascuno specifica come si faceva da bambini quale ruolo assume nel gioco di ruolo che sostituisce la famiglia naturale. Io faccio il papà, io la figlia…Ribadendo che il sangue non c’entra nulla, e la famiglia tradizionale non ha mai funzionato bene, ma ora non funziona più.
Sarebbe facile giocare sull’ironia, ma prendiamo sul serio quel che viene detto e rispettiamo le scelte altrui, fino a quando non pretendono di essere alternative e sostitutive rispetto a quelle che costituiscono la realtà naturale e l’esperienza di vita su cui si fondano la società tramite le famiglie e la loro riproduzione. Dunque, cos’è quella società allargata di conviventi con libera e mutante sessualità? E’ una libera e provvisoria associazione, ma non chiamiamola famiglia. Qual è il legame che insorge tra loro? E’ l’amicizia, non si può paragonare all’amore famigliare. Arrivo a dire che se l’alternativa è l’isolamento, il solipsismo, ovvero la solitudine non come scelta ma come perdita del mondo e depressione, ben vengano questi club allargati, affettivi prima che sessuali, piuttosto che definirle con linguaggio camorristico “nuove famiglie organizzate”.
I problemi sorgono quando queste reti amicali si configurano come la famiglia del futuro, con la pretesa di sostituire i legami famigliari. E quando si pretende di cancellare, degradare, svalutare tutto quel che proviene dalla natura, dal sangue, dall’ereditarietà, dai legami del destino, rispetto a quelli fondati sulla volontà. Che è soggettiva e quindi conflittuale rispetto ad altre volontà soggettive; che è mutevole e quindi non può garantire costanza e sicurezza degli affetti come invece quelli tra genitori e figli, o tra fratelli. Che non è riproduttiva, perché le associazioni di tipo omosessuale non possono riprodursi se non usando terzi (uteri in affitto, fecondazioni artificiali, compravendita di corpi, semi, ovaie, neonati, ecc.).
Torno a dire che nessuno vuol negare la libertà di quelle scelte, ma non sono sostitutive rispetto alle vecchie, scassate, controverse, contestate famiglie naturali. E le fratellanze senza padri e madri, di solito degenerano in fratricidi; se non ti riconosci nella comune origine, se non ti riconosci in un padre e una madre comuni, alla fine, passato il periodo dell’abbraccio generale, insorgono le divergenze, le priorità, le egemonie. Ogni volontà, alla fine, è volontà di potenza, di dominio. Se non personale, ideologica, di un modello, di una struttura, di un collettivo.
La famiglia, si sa, sta male già per conto suo; l’atomismo e l’egocentrismo, il narcisismo e la fluidità, i desideri infiniti e le pretese la mettono a dura prova. Spesso i matrimoni saltano, e il vero rapporto indissolubile, alla fine, è di tipo verticale: è quello tra genitori e figli, che non si può disdire o revocare, come invece può accadere nel rapporto di coppia. Non idealizziamo la famiglia “tradizionale”, cogliamone tutti i limiti, i difetti, le contraddizioni con una società troppo aperta e troppo individualista per poter reggere l’urto a livello famigliare. Però, provate a pensare “senza”, provate cioè a liquidarla, a ritenervi solo figli del vostro tempo e delle vostre scelte, anziché figli della storia e della famiglia. Provate a perdere quell’asse di riferimento, necessario anche quando lo confutate; provate a negare quell’alveo d’origine, quel luogo d’infanzia e di formazione, quel rifugio, quel bisogno originario, primario, di sicurezza; dove i legami sono autentici proprio perché biologici, naturali, precedenti la nostra stessa volontà; veri e istintivi. Perché noi non nasciamo come una tabula rasa su cui decidiamo tutto; noi nasciamo eredi biologici, con legami naturali affettivi (gli stessi che vi commuovono quando parlate dei cuccioli di Amarena, l’orsa abbattuta in Abruzzo). Quel che precede la nostra libertà e la nostra volontà si chiama natura, identità, origine, destino. Perché dovremmo disprezzare, rigettare, spezzare tutto questo? Non siamo autocreati e tutto ciò che costruiamo non lo costruiamo dal nulla ma sempre da realtà preesistenti. Create pure le vostre case arcobaleno e le vostre reti amicali; ma sappiate che non sostituiscono la famiglia da cui provenite e quella costruita accoppiando e procreando. Sono due piani diversi. E bisogna saper distinguere, e rispettare, la sfera dei legami naturali da quelli elettivi. Noi siamo quel che siamo e diventiamo quel che siamo; non nasciamo dalla nostra volontà e dai nostri desideri. Siamo creature, possiamo essere creativi, ma non siamo creatori.

Marcello Veneziani   

Arrestate il pino. E’ apologia del fascismo.

Avete presente la nostra epoca imbevuta di ecologia, feticismo green dappertutto, perfino nella pubblicità, fanatismo ambientalista che paralizza ogni impresa? Beh, con il pino non vale. Il pino va sterminato, sradicato, cacciato dalle città; anche se sono belli, fanno parte ormai del paesaggio e svolgono utili funzioni contro l’inquinamento, il malefico CO2. La guerra contro il pino è la spia di una sensibilità, di un modo di (non) vedere e di una netta divaricazione tra l’ideologia green e la pratica nella realtà. Il pino è la metafora di un odio per l’esistente o per ciò che viene dal passato, nel nome di un Verde perfetto e utopico che verrà.
La battaglia contro il pino si combatte in molti luoghi d’Italia, a partire dalla Capitale, dove i pini erano veramente tanti e godevano di grande fama storica, pittorica e civile. Partiamo da un dato: nel 2016 erano censiti in Roma 120mila pini; ora, sette anni dopo, sono meno della metà, 55mila. Cos’è successo, è passata la Xilella Raggi, la sindaca Virginia? Ma no, la grillina avrà le sue colpe, però la guerra al pino è più vasta e diffusa. Curioso il caso del sindaco in carica, Roberto Gualtieri, che come Berlusconi, aveva promesso nella città un milione di nuovi posti per gli alberi, e invece ne ha piantati poche migliaia e i pini neopiantati, a fronte dell’ecatombe di questi anni, sono in gran parte moribondi. Questi dati mi sono stati forniti da una convinta pasionaria del pino, Jacopa Stinchelli, che si definisce “ministro della difesa dei pini” a cui si sta dedicando con abnegazione. Jacopa non è sostenuta dai movimenti green e dalla galassia ecologista che di solito insorge appena torci una foglia o un ramo di una pianta, ma della sua battaglia e della morìa dei pini in Roma se n’è occupato anche il New York Times il 13 agosto scorso.
Il problema è che il pino è in Italia un albero identitario, anzi è l’albero dell’italianità. Si diffuse con l’unità d’Italia, garibaldina e sabauda. La Regina Margherita fu madrina di pinete. Alla fine dell’ottocento fu lanciata nelle scuole la festa dell’albero, che era ancora viva quando andavo io alle scuole elementari e fu il primo assaggio di sensibilità verde per chi viveva in piena ebbrezza di industrializzazione, cemento e modernità. Si piantava un pino e si celebrava l’utilità, la bellezza e il ristoro che gli alberi davano agli uomini, alle città e alle località. La pigna fu eletta a simbolo dell’unità d’Italia, antico retaggio romano ed etrusco, che la consideravano sacra; il pino diventò il testimonial dei paesaggi nei pittori ottocenteschi che venivano in Italia (uno tra tanti, William Turner). Il pino fu reso famoso dai poeti, primo tra tutti Gabriele D’Annunzio con la sua pioggia nel pineto, che celebrava la Versilia ma anche la sua Pescara. Il pino fu amato dai musicisti, come Ottorino Respighi, che gli dedicò un poema sinfonico. Fa capolino nella musica leggera con i pini di Roma cantati da Antonello Venditti, mentre Brian May dei Queen dice che i pini di Roma lo affascinano in modo speciale. Anche nel cinema italiano fanno da sfondo a molti capolavori del passato e anche recenti. Le pinete diventarono sontuose cornici di litorali e accompagnarono amene località non solo marine.
Ma il pino l’ha combinata grossa, diventò pure il simbolo dell’Italia fascista, che potenziò la festa dell’albero, piantò pini dappertutto, da Ostia alla Maremma bonificata e in mille altri luoghi d’Italia. L’edilizia fascista, le città di fondazione e le colonie estive, erano contornate da pini. Piantavano pini nel risanamento dalle paludi e dalla malaria.
A Roma c’era un missionario dei pini, dall’Italia prefascista all’Italia fascista e poi alla repubblica: si chiamava Raffaele de Vico, era architetto, paesaggista e urbanista e propagò i pini in Roma, da Villa Glori al Parco della Rimembranza, dove i pini simboleggiavano le anime dei caduti. Insomma, il pino è un albero “patriottico”, la cui presenza suona come amor patrio e per taluni come apologia di fascismo. Dunque, va abbattuto o lasciato morire. Il Pino è fascista, e pure neofascista: vi dice nulla Pino Rauti, Pino Romualdi, Pino Tatarella (detto Pinuccio perché postfascista)?
Paradossi ideologici a parte, conosciamo i più ragionevoli motivi addotti per estirparli: sono pericolosi, soprattutto con il maltempo, le loro pigne sono contundenti, come i loro rami, le loro radici sono invasive, dissestano le strade. E poi sono cagionevoli, si ammalano, la loro manutenzione è faticosa, non sono autoctoni (anche in questo caso salta la retorica dell’accoglienza e si diventa improvvisamente identitari, in difesa delle specie vegetali autoctone, le pure “razze” nostrane rispetto agli alberi stranieri). Conosco la guerra del pino per esperienza personale, perché avendo quattro pini maestosi ai fianchi della casa, subisco una diffusa campagna pinofoba, con pressanti richieste di tagliarli, sfoltirli, abbatterli. Certo, i pini danno problemi, le radici, gli aghi, le pigne; ma danno senso e identità a un luogo, danno ombra e luce, aria e bellezza. E poi esistono rimedi efficaci contro i suoi malanni, assicura Jacopa, ci sono le cosiddette endoterapie, si possono contenere e incanalare le radici, lo dicono i pochi esperti e amanti del pinus pinea o dei pini domestici.
I pinicidi confidano in un famigerato parassita alieno, la cocciniglia toumeyella parvicornis, che fornisce un formidabile pretesto per la ” soluzione finale” dei pini. Il parassita s’insinuò prima nelle pinete di Napoli, dove i pini torreggiano nelle vedute più famose di Posillipo, del golfo e del Vesuvio. A differenza di altri allarmi ambientali, col pino si preferisce collaborare col parassita, tifare per lui, o precederlo negli abbattimenti, piuttosto che difendere la pianta. Prevale, come dice Jacopa, “l’invidia del pino”, variante arborea del famoso complesso freudiano. L’odio verso i pini, naturalmente con forti alibi sanitari, rivela l’ipocrisia dell’amore per la natura e il disprezzo per tutto quanto evochi una storia e un’identità. In pino veritas.

 Marcello Veneziani       

Termofilosofia e tirannia del Meteo .

 

Insomma, questo caldo bruciante a sud, queste tempeste devastanti a nord, sono gli eccessi di un’estate come altre in passato o sono il segno di un drastico cambiamento climatico? Sono frutti bizzosi del caso e del maltempo o derivano da errori, disattenzioni e colpe umane? In altri tempi, mistici e messianici, avrebbero discusso se siamo alle soglie della fine del mondo oppure è uno di quei feroci ruggiti del solleone che periodicamente si affacciano nella storia climatica del mondo. Anche in quel caso, le catastrofi sarebbero state attribuite da alcuni ai peccati degli uomini, alla loro tracotanza, che i greci chiamavano hybris. E da altri agli imprevedibili capricci della natura. Stavolta, ad aggravare la scena si è messo il primo governo “di destra” della nostra repubblica, subito accusato di grave complicità nelle catastrofi, anzi di concorso esterno in calamità ambientali.
Proviamo a ragionare, non su basi scientifiche e nemmeno statistiche, dopo aver letto esaurienti spiegazioni e dettagliati paragoni col passato che conducevano a opposte conclusioni con dati alla mano.
Siamo in presenza di una termofilosofia, ovvero una filosofia del caldo, che s’intreccia a una specie di tirannia del meteo, altrimenti definibile come meteocrazia. Il precedente filosofico e teologico fu il terremoto che distrusse Lisbona nel 1755: c’è chi vide in quel terremoto una punizione divina (es. de Caussade) e chi trovò in quel sisma la prova dell’inesistenza di Dio (es. Voltaire). I primi furono detti oscurantisti, i secondi illuministi.
Ma torniamo al presente. Lasciamo fuori dal ragionamento le due ipotesi estreme, che sconfinano in due reati, non solo d’opinione: da una parte il negazionismo di chi nega il cambiamento climatico, e dall’altra il meteoterrorismo, di chi specula sul terrore meteo per trarre profitto politico, mediatico, industriale, commerciale.
Quel che possiamo constatare in partenza è che viviamo ormai da alcuni anni sotto la Cappa dell’Emergenza: si passa senza soluzione di continuità da un’emergenza a un’altra, sanitaria e farmaceutica, bellica e militare, poi ecologica da inquinamento, ora la bolla meteocatastrofica, più altre sottoemergenze che accompagnano le macro-priorità.
Terrorismo mediatico quotidiano, psicosi di massa indotta dai media, anche per vendere l’informazione: impresa sempre più difficile, necessita di dosi emotive sempre più forti. Emergenza vuol dire sospendere alcune libertà e tanta spensieratezza, vuol dire accettare sacrifici e restrizioni sempre per il nostro bene, controllare e sorvegliare, produrre campagne massicce, prescrizioni e proscrizioni di massa, più investimenti adeguati. E si tratta di additare alla popolazione un capro espiatorio su cui scaricare la colpa della situazione col relativo carico di paure, invettive e rancori.
Concorre a questo mutato “clima”, in ogni senso, la nostra mutata percezione e la nostra mutata soglia di sopportazione, molto più ridotta nel tempo, non solo a causa dell’uso massiccio di aria condizionata. La stoica sopportazione del caldo o delle intemperie nelle società antiche si è assai assottigliata in una società fisicamente e psichicamente fragile, delicata, benestante, un po’ nevrotica, fin troppo accessoriata e foderata di mediazioni. Ogni evento fuori controllo diventa estremo, biblico. E in una società di vecchi soffriamo di più gli eccessi climatici.
Ciò detto, è innegabile che qualcosa di diverso stia accadendo nel clima: non si tratta più di citare Plinio che già duemila anni fa diceva che sono finite le mezze stagioni. C’è qualcosa che nella nostra esperienza di vita, non avevamo vissuto: o per dir meglio, ricordiamo tanti eventi atmosferici avversi, di ogni tipo; ma si è intensificata la frequenza, è aumentata e accelerata. Per fare un paragone filosofico e umanistico, il clima sta mutando con la stessa velocità con cui ci stiamo disumanizzando, in vari ambiti, perdendo la consuetudine di mondi, visioni, morali, religioni e culture con una velocità impressionante. Qui fa capolino una visione metafisica della decadenza, ma in questa sede atteniamoci alla realtà.
Detto questo, è doveroso e urgente cercare di far qualcosa per prevenire, arginare, salvare il salvabile. Dunque non si tratta di abbandonarsi al liberismo teologico e climatico, e lasciar fare il corso della Natura; qualcosa bisogna fare per frenare le emissioni di gas nocivi, inquinamento, la moria di vegetazione e animali, e così via. E bisogna essere il più possibile tempestivi e incisivi. Riconosciuta la necessità di interventi, aggiungerei però due considerazioni intrecciate. La prima è che le possibilità che ha l’uomo di modificare l’ecosistema, l’equilibrio geotermico e il clima sono assai relative, ridotte; la nostra incidenza non va esagerata, siamo dentro processi più grandi che dipendono da fattori più vasti. E anche i fattori umani, a cominciare dal sovraffollamento del pianeta come mai era accaduto, sono quasi insormontabile, non possono essere risolti in modo efficace e razionale. Dunque non attribuiamo troppi poteri all’uomo. E qui torniamo alla filosofia del nostro tempo, anche in senso meteo: da anni rifiutiamo l’idea di evento catastrofico, di incidente, di calamità naturale. Cerchiamo dietro ogni evento una responsabilità, dei colpevoli per dolo, incuria o malvagità; sembra quasi che ogni morte sia causata da un incidente, un disguido, una mancanza di precauzione e prevenzione, insomma sia sempre responsabile qualcuno. Convinciamoci di una cosa: la prima causa, assoluta, di decessi è che siamo mortali. La morte non è un errore ma un destino. Non è colpa tua, mia, loro, della Meloni. Il fatto è che siamo mortali.

Da Panorama, di Marcello Veneziani

“Tornate in chiesa, anche senza andare a messa. “Come ha ragione Marcello Veneziani con questo suo articolo su chi non frequenta più la Chiesa, per i motivi più diversi.

Da quanto tempo non entrate in una chiesa? Da tanto tempo, risponderà gran parte della gente. Lo chiedo in una domenica di fine luglio, una di quelle domeniche d’estate prese da tutt’altre mete e da tutt’altri intenti. Ad andare in chiesa sono ormai in pochi, a partecipare alle messe, anche solo festive, solo una sparuta minoranza. Inutile ripetere il rosario delle motivazioni: ateismo pratico, secolarizzazione galoppante, indifferenza, apatia religiosa, dubbi e poi fretta, distrazione, mondanità e apparenza. Si potrebbe continuare, ripetendo cose risapute, sfondando porte aperte e sbarrando portoni ormai serrati.
Invece, per una volta, proviamo a pensare in altro modo, a immaginare diversamente, e tradurla sul piano pratico, in modo inatteso. E se ci affacciassimo ugualmente in chiesa, pur con tutti i dubbi, la lontananza e l’estraneità, la diffidenza e l’antipatia per i preti? Dico non a messa la domenica, non dal prete, non chiedo tanto; e nemmeno per curiosità turistica ed estetica, come visitatori che vogliono vedere un’opera d’arte, un mosaico o un altare. Ma se tornassimo a uno a uno, a ripopolare le chiese desolate, per brevi ma non sporadiche pause di riflessione? Quante pause ci prendiamo durante il giorno, per il caffè al bar, per il fumo, per i social, per le telefonate; perché non prevedere una pausa senza oggetto, in un luogo che fa pensare? Non è una proposta oscena, non vuol profanare e nemmeno pretende di convertire; vuole aprire la mente, ritrovare un’atmosfera, depurare le passioni e rianimare le chiese, così desolate.
Consideriamo per una volta la chiesa non solo come la Casa del Signore, o il luogo santo e materno di cui dicono il Papa, i sacerdoti, la catechesi. Come sarebbe sacrosanto. Ma come luogo di raccoglimento, al riparo dai rumori e dai consumi, calmo e silente, in cui mettere a tacere anche lo smartphone, senza schermi, senza consumi né pubblicità. Un luogo di ristoro della mente e dell’anima, di interruzione del flusso temporale, di separazione dal profano scorrere del mondo e della gente (del resto, il sacro, come il tempio, vuol dire ciò che è separato). Un luogo per concentrarsi, per farsi domande e darsi risposte, evitando lo psicanalista o i farmaci. E per sentirsi immersi in un’atmosfera insolita, venata di mistero e di lontananza. Un luogo che ha una lunga storia, in cui smaltire i rancori, in cui ripetersi che l’odio fa male, innanzitutto a chi odia. E forzarsi alla serenità.
E’ follia immaginare che nel corso della giornata, in pieno centro, in mezzo ai negotia mundi, ci ritagliamo una breve fetta di solitudine pensante, di visione calma, di salto nel tempo, non dirò nell’eterno ma in un altro tempo, o meglio in un’altra scansione del tempo, un’altra direzione? Pensate che non faccia bene una pausa del genere? Pensate che non rischiari la mente e non aiuti a controllare le passioni, la rabbia, l’odio, l’ansia? Forse non sarà contento il parroco, e nemmeno il Papa, che si possa fare un “uso” laico, non confessionale, non devoto della Casa del Signore, senza passare dalla loro mediazione. Si, quella è la via giusta, ma a un popolo svogliato e refrattario, che gira al largo dalle chiese e guarda dalla parte opposta, sarebbe già una gran cosa suscitare un’insolita attenzione per un modo diverso di vedere, di sentire, di essere al mondo. Ma è poi molto diverso rispetto agli usi profani della Chiesa, ridotta nella migliore delle ipotesi a rifugio, mensa e accampamento per i senzatetto e nella peggiore a sala convegni, manifestazioni musicali, ostello o addirittura ristorante, una volta sconsacrata, perché ormai deserta e disertata? Se è diverso, lo è in meglio. Pensate che non sia quello un uso propriamente religioso della chiesa, aiutare gli uomini a ritrovare la propria interiorità, il rapporto profondo col mondo circostante, col prossimo, il rispetto del silenzio, della calma, della meditazione, dell’attenzione e della preghiera? Non è fede né rito, eucaristia o liturgia; semmai, agli occhi di un devoto o di un sacerdote, può essere ciò che li precede, ne predispone il terreno favorevole. Comunque meglio che il nulla. Sarebbe bello vedere le chiese rianimarsi, aprirsi ai viandanti indaffarati che cercano e magari ritrovano senso, mistero e rispetto della vita. Per ridimensionare ciò che fuori costa tanto ma vale poco, per depurarsi dai rancori e dai furori.
Certo, il credente dirà che in chiesa si va per incontrare Dio, per adorare Lui e venerare i santi, per pregare, partecipare alla messa, confessarsi e farsi la comunione, o per battezzarsi, cresimarsi, sposarsi e benedire i defunti. Ma non sarebbe improprio né banale concepire la chiesa come luogo per respirare con la mente e il cuore, per disintossicarsi dalla vita profana, per essere più veri, più aperti al senso della vita. Come luogo in cui sentire dopo tanto tempo quella carezza che un tempo chiamavamo spirituale. Siamo analfabeti spirituali, occorre una prima, elementare iniziazione…
Poi, chissà, in loco potrà sorgere il “gusto” di pregare, di accodarsi a un rito, di prendere a frequentare una parrocchia, di parlare col prete o coi devoti. Ma non sto pensando che quello debba essere l’esito inevitabile. Fa bene già solo così. Fa bene a chi entra, fa bene a chi vede entrare, fa bene a chi sta dentro, alla Chiesa stessa che torna vivente, non imbalsamata, presente e non passata, dove non si finge culto e devozione ma si è più disarmati e veri. Magari solo per passare un quarto d’ora di verità, al posto del famoso e penoso quarto d’ora di celebrità.

MV   

Trent’anni fa finì la Balena Bianca (ma non era vero)-

Il 26 luglio di trent’anni fa finiva l’eterna Dc. Anche l’eternità aveva fatto il suo tempo. Fu l’esperienza più longeva di potere nella storia dell’Italia unita, durò più del doppio del fascismo, non lasciò mai il potere per circa mezzo secolo, e neanche dopo. Dopo che la Dc chiuse i battenti, c’erano più parlamentari democristiani disseminati tra i due poli, nei parlamenti della seconda repubblica, che ai tempi dello Scudo crociato. Fino a poco tempo prima del suo liquefarsi, e mutarsi provvisoriamente in Partito Popolare, eravamo tutti convinti che la Dc fosse un ghiacciaio eterno, un monumento perenne; la minaccia peggiore per coloro che non lo erano, era “morirete democristiani”. E invece un giorno di mezz’estate di trent’anni fa, a morire fu lei, la Dc, e scelse la faccia giusta per le esequie, quella di Mino Martinazzoli.
Non morì del tutto e per davvero, altre dc si moltiplicarono nel tempo e il ceto democristiano sotto falso nome rioccupò il potere e il sottopotere, riempì le dispense del paese, un po’ come le scatolette della carne Montana nella pubblicità. Tuttora c’è un Mattarella al Quirinale e il gran ciambellano della Repubblica è sempre quel Bruno Vespa, per non dire di tutto il resto…
La Dc assunse fattezze teologiche, non percepibili a occhio umano, ma la sentivi fiatare ogni giorno, nelle pieghe del vivere civile, delle istituzioni, della tv, del Paese. Coerentemente con la sua matrice cristiana, la Dc acquisì il dono dei santi, si fece Partito Metafisico e Ubiquitario, luogo paranormale di mediazione tra le opposte delusioni. L’eternità democristiana sfida i secoli, la calura e il maltempo e sopravvive anche al decesso dei suoi leader terreni (l’ultimo fu Forlani). Perché la Dc è davvero il Partito Italiano, come Agostino Giovagnoli intitolò anni fa la biografia della Balena Bianca. La Dc è stata veramente l’ultima autobiografia della nazione. Un minestrone visceralmente italiano per masse casalinghe, dette massaie. Non so se la Dc sia stata un bene o un male; da ragazzo pensavo che fosse un male, condividevo Pasolini che la definiva “il nulla ideologico mafioso”. Ora penso che sia stata una via di mezzo, a ogni livello; ci poteva andare meglio, ci poteva andare peggio. Non rappresentò l’Italia eroica né quella fanatica, ma l’Italia modesta, senza grilli per la testa, che tira a campare, non ha grandi progetti ma non commette gravi errori, vive e lascia vivere. La Dc è un seminterrato nelle nostre coscienze, attraversa il paese come una metropolitana. Fu un evento naturale come la pioggia, ma non fu un evento meteo estremo, ci ricorda il tempo in cui anche il caldo, la pioggia e i venti erano moderati.
A volte avevi l’impressione che i dc erano un aggregato di poteri sparsi, senza un filo conduttore; un po’ come “fare abitare tutti i Giuseppe in un solo quartiere”, come scrisse Giorgio Manganelli di alcune collezioni senza collante. Ma la Dc un collante ce l’aveva, qualcuno lo chiamava potere: il collante che li univa era la loro ideologia.
Scriveva Prezzolini che la fine dello Stato pontificio fu una benedizione per la Chiesa che uscì dal suo territorio ristretto e si insinuò dappertutto; la stessa cosa può dirsi della Dc: quando finì di essere un partito si fece epidemica, con la sua assente presenza, ingombrante e disincarnata. Già quando governava, gli elettori dc si defilavano, non si dichiaravano tali, quasi si vergognavano e non solo quelli che praticavano il voto clientelare di scambio; dai sondaggi pareva quasi in via d’estinzione; poi, nell’urna, la Dc restava sempre il primo partito. Era il mistero di Fatima della politica nostrana: tutti la portavano addosso ma nessuno la dichiarava alla dogana.
La forza della Dc fu la sua duttilità, non oppose mai resistenza alle cose, ma assecondava il loro corso per tentare poi di orientarlo, di piegarlo, di ammorbidirlo. Era resiliente prima che si scoprisse la parola. Una specie tecnologicamente avanzata di dorotei recita sottovoce ogni giorno lo pseudo-crociano “perché non possiamo non dirci democristiani”. I democristiani forse un giorno sopravviveranno anche al tramonto del cristianesimo.
Per dirla in breve. La Dc fu la maglia della salute degli italiani, un animale domestico che molesta e intenerisce perché ci riporta al tempo andato. Esiste ancora, come per gli orfani di guerra e gli handicappati, una quota seggi riservata agli ex dc. La Dc fu contagiosa: il fascismo fu virile, la Dc virale. In medio stat virus. La Dc garantì comode continuità con lo Stato sociale fascista e aree fabbricabili alla sinistra nella cultura, nei tribunali, tra coop, sindacati ed enti locali. Fu la versione mammista del paternalismo fascista e la sorella bigotta della fratellanza comunista. Fu un ombrello materno per ripararsi dalla bufera del Novecento: offrì alle due italie insanguinate dalla guerra civile la fuoruscita dalla storia a tariffe agevolate. Fu il partito dell’amnistia, dell’amnesia e dell’ammuina. Più che il partito di Cristo fu il partito di Ponzio Pilato, almeno fino all’operazione Mani pulite. Fu il partito americano, ci piazzò il Pacco Atlantico. Garantì una serena lungodegenza al riparo dalla storia, con vitto e alloggio. Barattò il senso dello Stato con lo statalismo, badante obesa e inefficiente ma comoda e indulgente. Ci salvò dal comunismo, non dal conformismo né dal consumismo. Garantì la libertà, non la dignità. Ogni mattina i democristiani andavano a messa per fare il pieno di santità, in modo da consumarlo in piccoli peccati lungo il giorno.
E poi i suoi protagonisti. Andreotti restò per sempre un interrogativo, illustrato dal suo stesso fisico curvo. Fanfani fu un mezzo De Gaulle, anche nella statura e nelle ambizioni. Moro, il narcostatista, prendeva gli avversari per stanchezza, ma la sua mollezza fu alla fine ripagata col sangue. De Gasperi fu il mito fondatore della Dc; Ciriaco la demitizzò. Scalfaro fu la sua estrema unzione, Segni la sua urna funeraria, Martinazzoli il suo funerale, Cossiga la sua autopsia e Mattarella la sua mummia, rianimata dalla rielezione. Il massimo ideologo della Dc fu Orietta Berti che teorizzò: finché la barca va lasciala andare. A volte rimpiango anch’io la Dc; ma lo faccio in bagno, di nascosto, nel pieno delle funzioni corporali. Chi vuol rifondare la Dc deve prima dimostrare che sia mai scomparsa.

                            MV     

Un interessante articolo sull’intelligenza artificiale…

Sostituzione dell’Umano

Ho assistito dal vivo a un esperimento sconvolgente, che rende superfluo tutto quel che pensa, fa, dice l’uomo, a cominciare da quel che sto facendo in questo momento, scrivere. Dunque, un amico mi confessa di usare la Chat Gpt, ovvero quell’applicazione dell’intelligenza artificiale di cui a giorni alterni si narra ogni gloria e ogni orrore; un giorno ammessa, un altro vietata, poi riammessa, come sempre accade quando c’è una censura.
Il mio amico ha un’idea che mi riguarda direttamente e vuole prospettarla al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Chiede il soccorso al suo smartphone per perorare la sua istanza (che disapprovo). Non fa in tempo a formulare la richiesta che compare sul video un miracolo: una lettera argomentata, informata, pertinente, scritta in buon italiano, che realizza la sua intenzione con una ricchezza di dati che un ghost writer, un assistente o segretario, non sarebbe mai riuscito a formulare, neanche dopo una ricerca. Certo, a un occhio critico più attento, puoi “sgamare” l’automa in alcune formule espressive un po’ generiche, che puoi adattare a tante situazioni, una volta immessa la direzione che vuoi dare alla tua lettera. Ma difficilmente qualcuno avrebbe saputo rendere meglio la sua idea. Come è possibile che un’applicazione matematica riesca non solo a darti risultati matematicamente esatti, ma si traduca anche in letteratura, comunicazione, selezione di argomenti e di notizie? Sconvolgente.
Fino a ieri eravamo rimasti ad Aristotele che intravedeva il futuro in cui gli schiavi sarebbero resi superflui, affrancati o disoccupati, secondo i punti di vista, dalle macchine, dai telai che sarebbero andati automaticamente o le gru che avrebbero sollevato pesi insostenibili per gli umani. I lavori manuali sarebbero stati sostituiti dalle macchine e l’uomo avrebbe potuto così dedicarsi alle attività teoriche, contemplative, artistiche, ludiche, rituali.
Sappiamo che non è andata così, il tempo liberato non è tempo prezioso ma tempo perso, dissipato; crescono le pigrizie, le brutte abitudini e altre schiavitù. L’ozio non si trasforma in otium classico, ma nel padre dei vizi. Comunque, la sfera intelligente dell’umano era preservata, non era travolta o replicata dai processi automatici, ingenerati con le macchine.
Ora siamo nella fase ulteriore. L’app riesce a sostituire la ricerca, la cultura, lo sforzo intellettuale. E sul piano sociale rende superfluo non il lavoro degli schiavi, come si pensava da Aristotele a Marx fino a ieri, ma il lavoro intellettuale. Si potranno mai giudicare tesi di laurea e ricerche se sai che possono essere frutto di una semplice domanda al tecno-cervello artificiale? A che serviranno col tempo i ricercatori, gli addetti stampa e comunicazione, i giornalisti e ogni altro genere, se tutto può essere ottenuto in tempo reale, in versione ampia, a un livello elevato? Potrei indicare alcuni territori ancora non raggiunti, dove occorre spirito critico, creatività, originalità, ma quell’ancora che ho onestamente premesso la dice lunga sul fatto che come era impensabile fino a ieri quel che oggi mi mostra il mio amico, così domani può accadere in altri ambiti. Una ritirata continua, un accrescersi esponenziale di poteri magico-tecnologici a cui corrisponde un decrescere rapidissimo di facoltà umane-intellettuali. La tecnica avanza, l’umano arretra.
La parola chiave di tutto questo è una: sostituzione. Non solo sostituzione etnica, non solo maternità surrogata, ma sostituzione dell’umano, a tutti i livelli. La prima minaccia globale alla nostra vita sulla terra non è il clima, l’inquinamento, la guerra, ma la Sostituzione. Quando toccheremo il punto di non ritorno, ovvero quando non saremo più noi a fare o non fare, a decidere, a guidare, quando non potremo più impedire, vietare, fermarci, tornare indietro? Non lo sappiamo, ma è molto vicino e quando succederà non ne saremo più consapevoli.
Bisogna fermare l’Intelligenza Artificiale in questi ambiti? Non lo avevo mai pensato prima, ora si. Sarà difficile, la storia umana dice che ciò che oggi è proibito domani sarà violato, se non da noi, da altri. Ciò che non vuoi vivere oggi, vivrai domani. Però si tratta di passare a un’altra comparazione: la tecnica diventa oltre che strumento prodigioso e salutare per mille cose, che benediciamo ogni giorno, anche un mezzo di distruzione. Come la bomba atomica, diventa un’arma letale, bisogna avere il coraggio di negoziare il suo disarmo. Non è bello, forse non è nemmeno umano, ma è necessario. Lo dicono anche eminenti maghi dell’intelligenza artificiale, operatori pentiti.
Ma prima di arrivare a quel punto di non ritorno, cosa resta ancora di umano? L’inizio, l’iniziativa, l’inizializzazione. Traduco: se non ci fosse stato il mio amico, se non avesse dato quell’input al suo smartphone, se non avesse avuto quell’idea e preso quell’iniziativa, servendosi di uno strumento pur sempre costituito, assemblato, inizializzato, venduto da umani, non ci sarebbe tutto questo. Dunque c’è un primo movente che è umano. Ciò che finora l’automa non riesce a generare è poi l’originalità, lo spirito critico e autocritico, il conato originario, l’ispirazione poetica, la facoltà visionaria e metafisica, la deviazione di pensiero non conforme, non convenzionale. La fede. La macchina non si autocrea, non si autodetermina, non ricerca e non agisce “di testa sua”. C’è un moto iniziale, una forza originaria e misteriosa. Lo sto studiando, preferisco restare nel mistero, non voglio darlo in pasto al plagio artificiale. Comunque, la differenza tra l’intelligenza umana e l’intelligenza artificiale è che la prima ha il principio del suo vivere, del suo agire, del suo dare scopi, dentro di lui; mentre l’artificiale no. Almeno finora. Se e quando sarà superato quel finora, l’umanità sarà bella e finita. Ma parafrasando Epicuro, finché noi ci siamo lei non c’è, quando lei ci sarà noi non ci saremo.

MV     

La controra. Per chi non sa cosa sia ve la spiega uno dei miei autori preferiti.

 

Voi non sapete cosa vi perdete a non praticare la controra, rito e delizia dell’ozio pomeridiano estivo. Certo, tante cose si perdono i meridionali che vanno a dormire per un paio d’ore in pieno giorno. Ma quando la calura incombe c’è solo un rimedio che pure somiglia a una resa: stendersi su un letto e cedere al sonno fino a che passa la fase acuta della canicola. Quest’arte di cedere prende il nome di controra, che indica un tempo inverso e sospeso nel cuore del giorno. La controra è uno spreco regale, e un regalo a se stessi che si concedono a metà giornata i suoi devoti, anche più umili. E’ uno dei piaceri ineffabili del sud, di quelli improduttivi che fanno inorridire stakanovisti, calvinisti e turbocapitalisti.
La controra è il filo conduttore per raccontare il sud, per ritrovare la sua magia e i suoi incantesimi arcaici, domestici e pomeridiani. Perché la controra, a cui ho dedicato non pochi scritti, è il vizio e lo splendore del sud; anzi sono convinto che i peggiori vizi del sud coincidano con le sue migliori virtù; ne sono la loro degenerazione, ma in origine avevano un’impronta nobile e felice. Il viaggio nella controra è un ossimoro, perché è come dire muoversi intorno a una stasi, pellegrinaggio nell’inerzia.
Valentino Losito ha pubblicato un libro dedicato alla controra, Zitti zitti piano piano (ed.Secop, p.176, 12 euro) e mi ha chiesto, in veste di antesignano del tema, di scriverne la prefazione. Il libro è un viaggio nel sud, di pomeriggio in pomeriggio, d’estate in estate, con qualche gita a Roma e qualche apporto poetico e letterario di estrazione settentrionale, come i meriggi estivi del triestino Umberto Saba o il meriggiare pallido e assorto del genovese Eugenio Montale. Roma, si sa, è la patria della pennica o pennichella, dell’abbiocco e della cecagna, che da noi in alcune zone del sud si traduce con “appapazzarsi” (dal sostantivo papazza). Saba e Montale invece mostrano che, oltre il sud, l’incanto poetico del meriggio lambisce gli estremi del mare nostrum, mediterraneo, in quelle che paiono le ascelle d’Italia, ligure e giuliana.
Il modo di dire Zitti zitti piano piano è la chiave d’accesso in casa e nelle stanze adibite al riposo, mentre qualcuno sta sognando con gli dei perché è il tempo magico e sospeso della controra. Tutto si fa in silenzio, con calma, cercando di non fare rumore. La controra ci conduce in un mondo di abitudini, liturgie domestiche, allusioni, bisogni che si fanno voluttà, magia, pratiche di vita e di sospensione della medesima, e s’intromette in ambiti che non sono direttamente connessi al suo rito pomeridiano: canzoni, film, liriche, linguaggi.
Chi crede che la controra ci chiuda a chiave nel nostro sud, sbaglia di grosso, perché in altre forme, dalla siesta spagnola e messicana all’inemuri giapponese fino ai pomeriggi oziosi del russo Oblomov, ci sono altre espressioni di abbandono ai demoni meridiani, all’ozio o quantomeno a brevi parentesi oniriche che rimettono al mondo.
Controra è l’ora contraria all’agire. Arriva dopo mezzogiorno, ma il mezzogiorno a sua volta al sud arriva come sempre in ritardo, dopo le due. E si protrae in un pomeriggio infinito che nei suoi apici tocca le cinque e minaccia pure di andare oltre, fino al calar del sole o quando il suo fulgore si fa inoffensivo e spariscono i suoi demoni e le sue empuse. Losito ricorda una variante furba e leggera della controra: il ricorso al divano, per distinguere il sonno della notte dal riposo pomeridiano. Ma io conoscevo e conosco integralisti della controra che il pomeriggio si rimettono il pigiama e vanno a dormire nel letto, altrimenti non è vera controra. Qualcuno dirà che la controra è comunque un privilegio perché non tutti possono permettersi di sospendere due-tre ore del giorno per il riposo pomeridiano. Ma la controra è dei vecchi e dei bambini, costretti alla controra da nonne, zie e madri incantatrici, ma tocca trasversalmente ogni ceto. D’estate si fa controra anche sotto un albero, pausa magari breve ma intensa, dopo aver fatigato duramente.
Pur soffermandosi da pugliese su molti aspetti della controra della sua terra, Losito sostiene che la patria della controra sia la Sicilia. Può darsi, ma la vera differenza è che in Sicilia la controra si è fatta letteratura, è stata per così dire inscenata, come vuole l’indole teatrale dei siculi che si applica anche ai lutti; mentre in Puglia è rimasta muta e casalinga, quasi sommersa, complice segreta della vita quotidiana, per non svegliare chi dorme.
Ricordo i pomeriggi al porto dove i pescatori e soprattutto le loro donne rammendavano le reti. Era un’immagine operosa e calma, al tempo stesso: e l’arte di rammendare evoca la facoltà di rammentare, non solo per assonanza – che da noi è spesso coincidenza perché la t diventa spesso d – rammendando le reti si rammentano le imprese marine a esse legate, i pesci irretiti, le tempeste e le bonacce, la rete del tempo che si sfilaccia e va ricucita dalla memoria delle mani, come una ferita risanata.
Eppure sin da piccoli c’insegnarono che “chi dorme non piglia pesci”; ma poi scoprivamo che il tempo prezioso, da non sprecare, alle volte andava anche ammazzato, per sopprimere i demoni della noia. E andando avanti con la scuola, scoprimmo che l’otium vale molto più del nec-otium, l’ozio classico è più nobile del negozio indaffarato e mercantile, perché la contemplazione è superiore all’azione, secondo la cultura classica e il mondo antico.
“La fretta è del diavolo mentre la lentezza è di Dio” dice un proverbio persiano; e Dio nel nostro sud levantino può davvero definirsi come “il primo motore immobile”, secondo la definizione di Aristotele. Dio mette in moto il mondo ma Lui resta immobile nella divina inoperosità di un’eterna controra. E’ vero, “chi dorme non piglia pesci”, ma “vede gli dei” e abita con loro, seppur nel breve arco della controra.

 M, V

controra

Basta col covid…Cambiamo nome al ministro della Salute…Speranza non ha più senso.

Basta col Covid

Accorata supplica urbi et orbi, ai militanti tutti della vaccinocrazia e ai loro avversari, disertori e latitanti: finiamola con quest’infinita coda alla vaccinara. Lo dico a prescindere dalle singole convinzioni e dalle scelte in tema di vaccino. Abbiamo avuto la pandemia, abbiamo avuto la ricaduta, non se n’è ancora andata, temiamo che torni virulenta. Sono diciotto mesi, dico diciotto, che ne parliamo in maniera esagerata e ossessiva, che viviamo all’ombra del contagio e dei suoi rimedi. Perfino durante una guerra, eccetto i momenti più tragici, non si vive così sotto psicosi come facciamo noi con questo maledetto covid. In guerra si convive con le bombe, con le notizie dal fronte, con gli attacchi aerei e i combattimenti. Ma si fa anche altro, la vita continua. Il covid, invece, è diventato cronico ma resta il fatto del giorno, di ogni santo giorno. Sappiamo che il virus fa male, ha mietuto migliaia di vittime tra milioni di abitanti, ha generato pubbliche profilassi e drastici cambiamenti di vita e si rigenera con le varianti; ma diamine, non riusciamo proprio a considerarlo un male con cui convivere, come facciamo con l’infarto, il cancro, l’ictus, l’alzheimer e le altre malattie? Badate che non sto dicendo di prenderlo sottogamba, di “abbassare la guardia”, rassegnarsi o chiudere un occhio davanti ai dati e alle notizie; e non sto nemmeno assumendo una posizione ostile, minimalista o neutrale sui vaccini e sulle misure che si minacciano di continuo per ossequiare la Bestia e tenerla sì a distanza ma incombente con la sua ombra gigantesca su di noi. Non possiamo ridurre l’umanità a una fila permanente da e per gli ospedali, da e per le farmacie e gli hub, con tutta l’informazione e perfino l’intrattenimento che da un anno e mezzo ci perseguitano con questa piaga, amplificandola e drammatizzandola. Diciamo che se il danno reale equivale a dieci, il danno che ci siamo procurati ingigantendolo equivale a cento, anzi a mille.

Non ci rendiamo conto di quante altre cose ci sono in cielo e in terra, nelle nostre vite e nei nostri corpi, nelle nostre anime e nelle nostre menti, che vengono sacrificate, accantonate per far posto al Moloch sanitario e alle sue paure. Ogni volta che l’umanità ha un solo tema al centro della vita, una sola ossessione e un solo culto a cui è vietato sottrarsi, s’incarognisce, s’invigliacchisce, si avvilisce. Ripiega su se stessa, si attorciglia intorno ai propri incubi come alle proprie visceri, vive in una bolla di narcisismo sanitario, ultimo grido del narcisismo; grido di dolore e d’angoscia per l’ego in pericolo.

E dai, su, non possiamo vivere così per così lungo tempo. E non possiamo, grazie allo show h24 dei virologi-star e delle truppe televisive di complemento, accettare senza colpo ferire questa colonizzazione dell’immaginario e del lessico quotidiano. Alla lunga, la colonizzazione delle menti si fa coglionizzazione delle genti, istupidite da un solo tema e ridotte al bio-meccanismo paura/salute, minaccia/sicurezza. Sembra uno di quei test che si fanno in laboratorio alle cavie, ai topi o altri animali, per misurare i riflessi condizionati, le reazioni agli stimoli, agli aghi e alle sirene. Per l’esperimento sull’umanità si usano pure i colori: il giallo, arancione e rosso nelle zone proibite, il verde del pass, il bianco della salvezza o del camice.

Ammesso pure che tutta la campagna sanitaria sia necessaria e inevitabile, e che tutte le procedure conseguenti lo siano altrettanto, mi chiedo: ma perché dopo diciotto mesi, dico diciotto, non possiamo smantellare o almeno ridimensionare l’indotto, i sistemi aggregati e derivati, l’ammaestramento permanente, la mobilitazione etico-liturgica, ideologico-sanitaria, l’enfasi mediatico-culturale, la narrazione globale incessante?

La monotonia uccide più di ogni altra cosa, la riduzione dell’uomo a una sola dimensione, lo diceva Herbert Marcuse, è la peggiore alienazione e schiavitù. Di una persona non si dicono più le qualità e i difetti, la professione e le passioni, le amicizie e gli amori; ma si giudica solo se è vaccinato o no, se sostiene o boicotta le inoculazioni, se ha il green pass o lo ha comprato al mercato nero, se è credente, ateo o agnostico del vaccino. O in subordine, se ammette o no la dose ai ragazzi e ai bambini, ritenendo per opposte ragioni che sia un Erode se vuole vaccinare anche i minori o se vuole sottrarli al battesimo sierologico. Pure la filosofia ormai si pronuncia e si divide solo in merito alla questione sanitaria e sposta su quel terreno la libertà e la democrazia, la ragione e l’etica, la fede o la scepsi. Da tempo tento invano di scrivere d’altro e se talvolta torno sul Tema, come oggi, mi assumo la quota di colpa.

Parliamo d’altro, per favore, facciamo altro, magari mentre osserviamo le regole sanitarie, vaccino incluso. Ma risparmiamoci di dividerci e intrattenerci sempre e solo sul “bucato” personale e universale. Tu dai il braccio per il vaccino e si prendono tutto il corpo, testa inclusa. Siamo in overdose da letteratura, psicologia e sociologia da contagio. Vorremmo tanto che negli organi d’informazione la pagina sanitaria tornasse ad essere una dentro il giornale e non il giornale intero dentro la sanità, allestito come un ospedale da campo. Ci sono giornali-ambulanza, le loro pagine sono corsie, si vendono non in copie ma in flaconi…

E poi, visto che da così tanto tempo ne parliamo senza venirne a capo e intravedere uno sbocco, non sarebbe il caso del silenzio stampa, o perlomeno la sordina, come si fa durante le trattative coi rapitori per i sequestri di persona? Così magari gli addetti ai lavori hanno meno distrazioni e lavorano meglio, indisturbati; la gente si cura senza tante chiacchiere, moine e manie; il virus stesso non si monta la testa, stando sempre in vetrina da protagonista. E il mondo riprende a vivere, a pensare, a pregare, a sognare, a gioire, a patire e a morire d’altro. Fatti non fummo per viver come buchi…

MV, (29 luglio 2021)

speranza

Aiuto, si è ristretta l’intelligenza

intelligenza

Aiuto, si è ristretta l’intelligenza

Ragazzi, si sta accorciando il Quoziente Intellettivo. L’intelligenza si restringe, il regresso colpisce le menti. E non si tratta di una tesi avanzata da reazionari antimoderni. Una denuncia di Cristophe Clavé ci ha messo la pulce nel cervello. “Il QI medio della popolazione mondiale era sempre aumentato – scrive lo studioso di strategie d’impresa- nell’ultimo ventennio è invece in diminuzione, a partire dai paesi più sviluppati”. Sono andato a indagare e ho avuto altre conferme. Per esempio la ricerca di due studiosi norvegesi, Brent Bratsberg e Ole Rogeberg, pubblicata dall’Accademia Nazionale delle Scienze sulla rivista Procedings, che in un arco temporale ampio di 40 anni e su un campione largo di 730 mila giovani confermano quella conclusione: si è invertito l’effetto Flynn, lo scienziato che conduceva studi sul Quoziente Intellettivo e ne vedeva lo sviluppo continuo nella popolazione nell’arco del ‘900. E invece, secondo i ricercatori è in atto da più di quattro decenni una regressione costante e crescente del QI. Fra i nati a metà degli anni ’70 e i ragazzi nati nel 1991 ci sono più di 5 punti di differenza. E cala ancora il Quoziente con i nati dopo il duemila. Studi analoghi compiuti negli Stati Uniti, in Germania e nel Regno Unito confermano il trend negativo. Cosa sta succedendo e soprattutto perché?

Tralascio le motivazioni genetiche, ambientali e alimentari; le ricerche ammettono che esse spiegano solo in parte il declino progressivo dell’intelligenza umana. Mi soffermo sul nostro sistema di vita, di relazione, di educazione, il rapporto con le tecnologie, a cominciare dalla prima, il linguaggio. Clavé insiste sull’impoverimento del linguaggio. È un dato accertato: oggi usiamo un lessico molto più povero del passato, con meno vocaboli; magari pratichiamo più lingue ma conosciamo meno la lingua madre. E al contrario del “volgare illustre” che auspicava Dante, usiamo un volgare plebeo, basic, sincopato, tecnico-commerciale, povero di tempi, modi e forme espressive.

Lo scarso lessico atrofizza l’intelligenza, che si esercita meno nella scelta dei vocaboli e dei tempi più appropriati. E ci facilitano i tutorial, i correttori automatici. Meno fatica, meno doveri, più liberi: ma la libertà qui coincide con l’impoverimento della mente. Strada facendo si capovolge in una maggiore malleabilità a essere veicolati dai regimi di sorveglianza, dai sistemi totalitari. Basta leggere 1984 di Orwell o Fahrenheit 451 di Bradbury per capire la sequenza tra parole ridotte e manipolazione, pensieri impoveriti e precotti, morte del senso critico.

Ma spingiamoci oltre. Noi viviamo in un mondo che ci sembra sempre più globale ed esteso, senza confini; eppure è un mondo da una parte sempre più ridotto e dall’altra sempre più delegato. Si spegne il confronto col pensiero e con la storia, con la religione e con la tradizione, con le differenze e le identità, tutto si riduce al solo presente globale vigente. Un mondo sempre più piccolo. I modelli vengono ridotti a un solo canone e quando diventa ideologico assume le vesti del politicamente corretto; il resto è vietato, cancellato. Non c’è passato, e di conseguenza non c’è futuro che non sia la continuazione infinita e uniforme del presente e delle sue prescrizioni. C’è una durata automatica, priva di possibili divergenze; non c’è possibilità di paragone con altri sistemi di idee e di vita. E l’idea stessa di educazione viene respinta a priori o distorta in corso d’opera.

E poi, una vita amministrata, sempre più mediata e surrogata dai mezzi di cui disponiamo, delegata alla potenza tecnologica e a un benessere preconfezionato; una vita che si cimenta sempre meno con l’imprevisto, le variazioni, le necessità che aguzzano l’ingegno. Nella vita artificiale e prefabbricata – lo denunciava già tanti anni Saul Bellow e faceva il paio con “la chiusura della mente americana” di cui scriveva Allan Bloom – l’intelligenza perde gli stimoli, agisce in automatico, deve solo apprendere le procedure, senza mai uscire dal programma e dall’unica via prescritta. Una mutazione letale per la mente.

Insomma l’intelligenza si accorcia perché si stanno restringendo i nostri mondi e le nostre possibilità anche se a prima vista si direbbe esattamente il contrario: meno originalità e più uniformità, schiacciati sul presente e sul Modello Unico di Vita, deprivati del pensiero, della cultura e dei saperi umanistici, sempre più “ammaestrati” e ridotti ai riflessi condizionati. Il mondo ci arriva comodamente a casa nostra, basta pagare.

Per dare una periodizzazione storica a questo declino potremmo dividerla in tre fasi. La prima, indicata dai ricercatori, parte dalla metà degli anni Settanta, quando gli effetti del benessere e delle comodità correlati alla contestazione globale hanno prodotto una prima tendenza involutiva della nostra intelligenza e un rigetto dell’educazione. La seconda degli ultimi vent’anni, con l’espansione prodigiosa del web, ha ulteriormente ridotto la sfera del pensare e parlare in relazione all’agire, inserendoci in procedure automatiche e puramente tecnologiche. I flussi informativi hanno sostituito i percorsi formativi.

La terza è ancora in corso: presto capiremo quali effetti avrà sulla nostra intelligenza e in particolare su quella dei ragazzi, la clausura planetaria per il lockdown, la scuola a distanza, l’interruzione di ogni forma di relazione civile, sociale, culturale, salvo quelle che arrivano dal video.

Insomma stiamo entrando a occhi bendati e orecchie tappate nell’era globale della stupidità. E non si notano in giro Grete che denuncino e mobilitino la gente per l’intelligenza in pericolo.

Marcello Veneziani , Panorama n. 15 (2021)