Nell’Italia di Giorgia Meloni la censura funziona a pieno regime. Ma non dipende dalla destra al governo e dalla premier, ma da altri agenti politici, ideologici, atmosferici. La censura di Capodanno, che indigna gli “artisti”, ovvero i cantanti, riguarda l’esclusione di Tony Effe dal concerto di fine anno per i testi troppo violenti delle sue canzoni in materia di sesso, droga e misoginia. Esclusione voluta da Roberto Gualtieri, sindaco del Pd, nel nome del nuovo bigottismo femminista. Allo stesso tempo, Bruno Vespa denuncia una censura storica assurda dovuta agli algoritmi dementi ma ideologicamente ispirati, che impediscono all’Orco Bruno di pubblicizzare sui social, da Facebook a Instagram, il suo libro intitolato Hitler e Mussolini. Deve chiamarli per nome, e se lo sgamano, magari dovrà adottare il soprannome o il pronome. Insomma, l’apologia di fascismo parte già dal nome; nel nuovo catechismo social non è Dio che non devi nominare invano ma il Demonio. Anzi, solo un tipo di demonio: di altri, metti Stalin e Mao, ma si potrebbe dire di Lenin e di mille altri, va tutto liscio. Conosco persone che non possono neanche candidarsi col loro cognome perché si chiamano Negro o Negri, o roba simile, e l’algoritmo li stronca sul nascere, appena si presentano.
Di censure, penalizzazioni, esclusioni è pieno l’universo social; non c’è giorno che qualcuno non mi scriva che gli hanno chiuso la pagina, oscurato, o che sta in castigo per non so quanti giorni o col braccialetto elettronico figurato per una parolina, un’opinione, un’immagine sconvenienti.
Anche una studiosa di Tolstoj, traduttrice, viene censurata dal circuito bibliotecario romano perché osa parlare di Russia. E non è la prima.
L’elenco della censura potrebbe essere sterminato, la tendenza serpeggia da alcuni anni, si allarga ad ambiti sempre più vari e sempre più vasti, dalla sostenibilità all’inclusività, generando situazioni insostenibili e criteri d’esclusione. Ma a trovare un punto di partenza recente, è col Covid che la censura fece il salto decisivo e la prova generale in cui fu elevata a sistema.
Lasciamo perdere i singoli fatti, di cui si è già occupata la stampa, e risaliamo alla tendenza di fondo.
Viviamo in un’epoca che inneggia alla libertà illimitata, elogia la trasgressione, denigra e denuncia ogni forma di autoritarismo, di costrizione, di pudore che proviene dal passato, dalla religione, dalla tradizione. Ma poi, stranamente, è piena di censure, di squadre della buoncostume: questo non si può dire, quello non si può fare, vietato qui, proibito là. È quello che solo qualche giorno fa chiamavamo il nuovo bigottismo dell’ipocrisia. Nascondere la realtà, omettere la verità, usare un linguaggio falso e fariseo, adottare la finzione come galateo e catechismo, cioè come norma etica ed estetica. Parlare con la boccuccia a culo di gallina, per dirla in modo greve ma adeguato, e fare in modo che gli ovetti appena partoriti escano già bolliti e pastorizzati dall’orifizio.
Sappiamo bene che tante canzoni, tanti film, tanti libri in circolazione fino a pochi anni fa, oggi non sarebbero possibili con le nuove cataratte della censura woke. Altro che la censura ai tempi della Rai di Bernabei, delle parrocchie al tempo di Pio XII o delle commissioni censura di Scalfaro e Andreotti; è molto peggio. Se è già una censura inaccettabile non poter avere una lettura diversa della storia contemporanea, non poter adottare alcun revisionismo, che pure è l’essenza della ricerca storica, è veramente assurdo e totalmente idiota non poter nemmeno citare quei nomi, e solo quei nomi. C’è un teorema invisibile che poggia su questa sequenza: primo, ci sono alcuni mali che sono assoluti e indiscutibili, a differenza di altri; secondo, di questi mali si può dire solo male; terzo, non è possibile nemmeno citarli, chiamarli per nome, senza anteporre un insulto o una maledizione. Ma poi che demenza questa ossessione che dobbiamo tenere lontani i cittadini, come bambini permanenti, da ogni scena, da ogni canzone, da ogni testo o pagina di storia, reputate scabrose o violente, per non turbare la loro fragile mente e la loro fragilissima coscienza… Ma è così deficiente il popolo sovrano?
Non sono un fautore della libertà senza limiti, come hanno teorizzato tanti cantanti a proposito del trapper censurato. So bene che la libertà è un bene prezioso ma va coltivato e regolato, va data una misura, un limite, una responsabilità; e parte dal rispetto della libertà altrui – rispetto, parola regina secondo la Treccani. So bene che gli stessi artisti, cioè i cantanti, si sarebbero smentiti subito dopo se solo qualcuno avesse proposto di cantare qualcosa che infrange gli algoritmi mentali della nostra epoca, da loro ormai digeriti e ingoiati; o se anziché Tony Effe fosse stato, mettiamo, il generale Vannacci o Povia a dire cose “sconvenienti”. Quel che hanno tutti assimilato, senza naturalmente averlo mai letto e saputo, è la lezione di Lenin e di Gramsci secondo i quali esiste una violenza e una dittatura regressive da sopprimere anche con la forza, e una violenza e una dittatura progressive da sostenere, anche con la forza. Come distinguerle? A stabilire in modo inappellabile quando è la prima o quando è la seconda, è l’Intellettuale Collettivo, ieri il Partito-Principe, oggi il Mainstream, l’Establishment, la Cappa, con la spada dell’algoritmo o la chitarrina di Gualtieri. (Che detto tra parentesi, ha creato a Roma, tra lavori in corso simultanei, non solo per il Giubileo ma anche lavori decennali per la Metro in pieno centro, con l’incapacità di disciplinare mezzi e tassisti, una censura stradale senza precedenti: Roma, da sempre difficile da praticare, è ormai La Città proibita, invivibile se non barricandosi in casa, come ai tempi del covid. Ma questo non c’entra, è solo uno sfogo).
Il nuovo bigottismo, combinandosi con gli algoritmi e tra breve con l’Intelligenza Artificiale e i suoi dodici apostoli, sta paralizzando l’Intelligenza, il pensiero critico, la libertà di divergere. Sta rendendo la vita impossibile, dico quella del sentimento, della ragione, della parola, della vita reale.
In tutto questo cosa c’entra il governo Meloni? Un beneamato tubo, non c’entra affatto. Ma questa non è solo un’assoluzione, perché dice quanto sia irrilevante e impotente la politica o il governo rispetto al mondo reale. Il governo fa le sue cose – buone, cattive, non so – ma tutto il resto della vita è altrove, e in altre mani.
Marcello Veneziani