La censura si allarga ma il governo non c’entra

 

Nell’Italia di Giorgia Meloni la censura funziona a pieno regime. Ma non dipende dalla destra al governo e dalla premier, ma da altri agenti politici, ideologici, atmosferici. La censura di Capodanno, che indigna gli “artisti”, ovvero i cantanti, riguarda l’esclusione di Tony Effe dal concerto di fine anno per i testi troppo violenti delle sue canzoni in materia di sesso, droga e misoginia. Esclusione voluta da Roberto Gualtieri, sindaco del Pd, nel nome del nuovo bigottismo femminista. Allo stesso tempo, Bruno Vespa denuncia una censura storica assurda dovuta agli algoritmi dementi ma ideologicamente ispirati, che impediscono all’Orco Bruno di pubblicizzare sui social, da Facebook a Instagram, il suo libro intitolato Hitler e Mussolini. Deve chiamarli per nome, e se lo sgamano, magari dovrà adottare il soprannome o il pronome. Insomma, l’apologia di fascismo parte già dal nome; nel nuovo catechismo social non è Dio che non devi nominare invano ma il Demonio. Anzi, solo un tipo di demonio: di altri, metti Stalin e Mao, ma si potrebbe dire di Lenin e di mille altri, va tutto liscio. Conosco persone che non possono neanche candidarsi col loro cognome perché si chiamano Negro o Negri, o roba simile, e l’algoritmo li stronca sul nascere, appena si presentano.

Di censure, penalizzazioni, esclusioni è pieno l’universo social; non c’è giorno che qualcuno non mi scriva che gli hanno chiuso la pagina, oscurato, o che sta in castigo per non so quanti giorni o col braccialetto elettronico figurato per una parolina, un’opinione, un’immagine sconvenienti.

Anche una studiosa di Tolstoj, traduttrice, viene censurata dal circuito bibliotecario romano perché osa parlare di Russia. E non è la prima.

L’elenco della censura potrebbe essere sterminato, la tendenza serpeggia da alcuni anni, si allarga ad ambiti sempre più vari e sempre più vasti, dalla sostenibilità all’inclusività, generando situazioni insostenibili e criteri d’esclusione. Ma a trovare un punto di partenza recente, è col Covid che la censura fece il salto decisivo e la prova generale in cui fu elevata a sistema.

Lasciamo perdere i singoli fatti, di cui si è già occupata la stampa, e risaliamo alla tendenza di fondo.

Viviamo in un’epoca che inneggia alla libertà illimitata, elogia la trasgressione, denigra e denuncia ogni forma di autoritarismo, di costrizione, di pudore che proviene dal passato, dalla religione, dalla tradizione. Ma poi, stranamente, è piena di censure, di squadre della buoncostume: questo non si può dire, quello non si può fare, vietato qui, proibito là. È quello che solo qualche giorno fa chiamavamo il nuovo bigottismo dell’ipocrisia. Nascondere la realtà, omettere la verità, usare un linguaggio falso e fariseo, adottare la finzione come galateo e catechismo, cioè come norma etica ed estetica. Parlare con la boccuccia a culo di gallina, per dirla in modo greve ma adeguato, e fare in modo che gli ovetti appena partoriti escano già bolliti e pastorizzati dall’orifizio.

Sappiamo bene che tante canzoni, tanti film, tanti libri in circolazione fino a pochi anni fa, oggi non sarebbero possibili con le nuove cataratte della censura woke. Altro che la censura ai tempi della Rai di Bernabei, delle parrocchie al tempo di Pio XII o delle commissioni censura di Scalfaro e Andreotti; è molto peggio. Se è già una censura inaccettabile non poter avere una lettura diversa della storia contemporanea, non poter adottare alcun revisionismo, che pure è l’essenza della ricerca storica, è veramente assurdo e totalmente idiota non poter nemmeno citare quei nomi, e solo quei nomi. C’è un teorema invisibile che poggia su questa sequenza: primo, ci sono alcuni mali che sono assoluti e indiscutibili, a differenza di altri; secondo, di questi mali si può dire solo male; terzo, non è possibile nemmeno citarli, chiamarli per nome, senza anteporre un insulto o una maledizione. Ma poi che demenza questa ossessione che dobbiamo tenere lontani i cittadini, come bambini permanenti, da ogni scena, da ogni canzone, da ogni testo o pagina di storia, reputate scabrose o violente, per non turbare la loro fragile mente e la loro fragilissima coscienza… Ma è così deficiente il popolo sovrano?

Non sono un fautore della libertà senza limiti, come hanno teorizzato tanti cantanti a proposito del trapper censurato. So bene che la libertà è un bene prezioso ma va coltivato e regolato, va data una misura, un limite, una responsabilità; e parte dal rispetto della libertà altrui – rispetto, parola regina secondo la Treccani. So bene che gli stessi artisti, cioè i cantanti, si sarebbero smentiti subito dopo se solo qualcuno avesse proposto di cantare qualcosa che infrange gli algoritmi mentali della nostra epoca, da loro ormai digeriti e ingoiati; o se anziché Tony Effe fosse stato, mettiamo, il generale Vannacci o Povia a dire cose “sconvenienti”. Quel che hanno tutti assimilato, senza naturalmente averlo mai letto e saputo, è la lezione di Lenin e di Gramsci secondo i quali esiste una violenza e una dittatura regressive da sopprimere anche con la forza, e una violenza e una dittatura progressive da sostenere, anche con la forza. Come distinguerle? A stabilire in modo inappellabile quando è la prima o quando è la seconda, è l’Intellettuale Collettivo, ieri il Partito-Principe, oggi il Mainstream, l’Establishment, la Cappa, con la spada dell’algoritmo o la chitarrina di Gualtieri. (Che detto tra parentesi, ha creato a Roma, tra lavori in corso simultanei, non solo per il Giubileo ma anche lavori decennali per la Metro in pieno centro, con l’incapacità di disciplinare mezzi e tassisti, una censura stradale senza precedenti: Roma, da sempre difficile da praticare, è ormai La Città proibita, invivibile se non barricandosi in casa, come ai tempi del covid. Ma questo non c’entra, è solo uno sfogo).

Il nuovo bigottismo, combinandosi con gli algoritmi e tra breve con l’Intelligenza Artificiale e i suoi dodici apostoli, sta paralizzando l’Intelligenza, il pensiero critico, la libertà di divergere. Sta rendendo la vita impossibile, dico quella del sentimento, della ragione, della parola, della vita reale.

In tutto questo cosa c’entra il governo Meloni? Un beneamato tubo, non c’entra affatto. Ma questa non è solo un’assoluzione, perché dice quanto sia irrilevante e impotente la politica o il governo rispetto al mondo reale. Il governo fa le sue cose – buone, cattive, non so – ma tutto il resto della vita è altrove, e in altre mani.

Marcello Veneziani                

Verità e libertà nascono e muoiono insieme…

 

Come se la passano la verità e la libertà nel nostro tempo? L’una è negata nel nome dell’altra ma entrambe sono tradite sul piano pratico. L’altro giorno mi è stato chiesto di affrontare il rapporto tra Libertà e Verità alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, dialogando col card. Angelo Bagnasco (incontro organizzato da Fare bene e concluso degnamente dal cardinale).
Viviamo nell’epoca della verità relativa e della libertà assoluta. Il sottinteso di ogni discorso pubblico, o l’enunciato di partenza, è in questo doppio preambolo: la verità non esiste, ma esistono tante verità, provvisorie e soggettive (relativismo); la libertà è il bene assoluto per eccellenza, sciolto da tutto, premessa di tutto; nulla precede, delimita, contiene la libertà che alla fine coincide con l’autorealizzazione: io sono ciò che voglio essere.
Non più l’evangelico “la verità vi renderà liberi” ma il suo rovescio, la libertà vi renderà veri, ossia come voi vi sentite e/o volete essere.
Ma la libertà in sé non ci conduce alla verità, perché la libertà ci apre al vero come al falso, al bene come al male, al giusto come all’ingiusto: ci dà la possibilità di conoscere e amare il vero ma anche di negarlo e calpestarlo.
Strada facendo, calandosi nella vita reale, la libertà assoluta come la verità relativa vengono tradite: da un verso l’assenza di verità e il proliferare di tante verità alla fine soccombono alla verità del più forte, ossia di chi dispone di mezzi più efficaci per imporre la sua verità. E dall’altro verso la libertà assoluta e illimitata si rovescia nel suo contrario, seguendo la china che già Platone aveva previsto, dall’anarchia al dispotismo: dove la libertà è assoluta, cioè senza limiti e senza freni, si rovescia nella tirannide o nei suoi parenti minori, l’intolleranza, la censura, l’egemonia del più forte o ancora di chi dispone di maggior forza. Al posto della verità e della libertà sorgono i surrogati che confluiscono nel conformismo, negazione della libertà come della verità: ossia l’adeguarsi alla tendenza generale e alle prescrizioni del potere. Il conformismo è la caricatura della verità: se la verità è, come diceva S. Tommaso, adaequatio rei et intellectus, ossia il combaciare della realtà con l’intelletto, il conformismo è l’adeguarsi dell’intelletto alla norma fittizia di un canone ideologico che corregge la realtà. Da cui deriva il nuovo bigottismo fondato sull’ipocrisia, cioè sulla falsificazione della realtà. Addio verità, addio libertà.

La verità, secondo i greci, è Aletheia, che non vuol dire solo rivelazione, svelamento, non-nascondere; ma vuol dire anche non dimenticare (il lete era il fiume dell’oblio che fa dimenticare la vita precedente); conoscere è ricordare, diceva Platone. E ricordare culmina nel tornare all’origine.
Scrive Pavel Florenskij: “Io non so se la Verità esista o meno, ma con tutto il mio essere sento che non posso farne a meno, so che, se esiste per me è tutto: ragione, bene, forza, vita, felicità. Forse non esiste ma io l’amo più di tutto ciò che esiste, mi unisco a lei come a tutto ciò che già esiste, e anche se non esistesse, l’amo con tutta l’anima e con tutta la mente, per lei rinuncio a tutto, perfino ai miei quesiti e ai miei dubbi” (La colonna e il fondamento della verità). Dostoevskij dice che se dovesse scegliere tra Cristo e la Verità sceglierebbe Cristo; Padre Pavel sceglie la Verità, sapendo che Cristo coinciderà con lei. Non può essere altrimenti per un vero cristiano.
Perché la verità è impossibile a conoscersi ma necessaria; la verità risplende (Veritatis splendor, secondo l’enciclica di Giovanni Paolo II) ma il suo fulgore acceca, rende il mondo visibile ma in sé è invisibile. La verità rischiara il mondo ma non possiamo fissarla e conoscerla se non attraverso i suoi raggi.
Sul piano della realtà, la libertà e la verità devono misurarsi con le imperfezioni, i limiti, le contraddizioni della vita reale. E questo significa due cose. Da una parte la verità esiste, è il fondamento della realtà e la matrice dell’essere ma è inconoscibile per intero, nessuno ne detiene il pieno possesso e tantomeno il monopolio; è un mistero. Nessuno possiede la verità ma la verità possiede noi, avrebbe detto Ratzinger. Per gli uomini la verità è una ricerca, un anelito e una parziale conquista: se, come sosteneva Vincenzo Gioberti, la verità è un poligono dagli innumerevoli lati, agli uomini è consentito solo conoscere alcuni aspetti del vero; solo Dio può conoscere per intero la verità. L’uomo deve dunque accontentarsi del certo, direbbe Vico, ovvero dell’evidenza della realtà e delle verità derivate dall’esperienza, dal sentire comune delle genti, dalla tradizione e dalla storia. L’uomo può solo testimoniare l’amor del vero e la sua ricerca incessante. La verità non è figlia del tempo (veritas filia temporis), perché se lo fosse sarebbe deperibile, provvisoria, momentanea. Semmai, la verità è figlia delle nozze tra il tempo e l’eternità.
Dall’altra parte, la nostra libertà non è mai assoluta, perché non siamo dèi e non disponiamo del mondo: la libertà è sempre in relazione agli altri, ha bisogno di limiti, confini e misura, non può mai prescindere dalla realtà, dalle condizioni di vita, dalla relazione con gli altri, dal contesto. La libertà non nega il vero, non cancella o abolisce la realtà nel nome dei propri desideri; è una tensione tra diritti e doveri, limiti e opportunità; e la libertà di ciascuno è limitata dalla libertà degli altri, rispetto a cui non può prevaricare.
Non esiste solo la libertà da qualcuno e da qualcosa, ossia la libertà come emancipazione, liberazione, non impedimento; e non esiste solo la libertà di dire, di fare e di avere, ossia la libertà come facoltà di agire e pensare; ma esiste anche la libertà per qualcosa che dà sostanza, senso e qualità alla libertà: come usi la tua libertà, cosa intendi farne? Esiste anche una libertà distruttiva e autodistruttiva che non può essere consentita.
Anzi, la libertà in sé non è un valore, e tantomeno un valore assoluto, ma è la condizione necessaria per scegliere i valori. È come l’aria, l’ossigeno, che non può essere lo scopo della vita, ma è la condizione necessaria per vivere.
Insomma, la libertà è un mezzo, la verità è un fine; un mezzo necessario per un fine trascendente. La libertà senza la verità si rovescia nel suo contrario, è imposizione e impostura. Ma anche la verità senza la libertà si rovescia nel suo contrario, è imposizione e impostura. Se sparisce l’una, finisce l’altra.
Anzi per dirla nello spirito natalizio, la nascita dell’una è premessa alla nascita dell’altra.

Marcello Veneziani

I partiti ci vogliono politicanti a tavola: ecco cosa raccontare per spegnere i bollenti spiriti.

Vino e vacanze, gli argomenti migliori per non parlare di politica al cenone. Contro il vademecum del Pd “per sopravvivere ai parenti di destra”

Per essere sicuri di sopravvivere al cenone non bisogna partecipare al cenone, è questo il metodo perfetto che ho messo in pratica tante volte, cena normale e a letto presto e il primo giorno dell’anno ci si sveglia riposati, senza mal di testa, bocca impastata, bruciore di stomaco. Ma la gente non rinuncia a imbrancarsi, ad affollarsi intorno a un tavolo per mangiare male e bere peggio, rischiando di litigare. Ecco dunque il maligno vademecum Pd su come aizzare la tavolata fra il salmone e lo zampone: “Qualche spunto per sopravvivere a parenti un po’ di destra”. I Fratelli d’Italia hanno prontamente reagito con un controvademecum per rintuzzare i convitati antimeloniani. Su clima, sanità, immigrati, gender, temi che renderebbero indigeribile un riso in bianco. Per uscire dall’ottuso dualismo sinistra/destra ci voleva Gianfranco Rotondi: “Chi crede nel Natale non fa politica a tavola”. Oh gran saggezza dei democristiani antiqui! Nemmeno a Capodanno e all’Epifania, aggiungo io che attingo alla buona cara vecchia educazione secondo la quale a tavola non si parla di politica, non si parla di sesso, non si parla di soldi, non si parla di salute, non si parla di nulla che possa risultare problematico e gastritico.Ma come gli è venuto in mente a quelli del Pd di ridicolizzare un rito sociale? E’ più forte di loro, sono dei dissacratori, anche a costo di perdere altri voti. Quanti italiani sentono il bisogno di trasformare in rissa, sebbene solo dialettica, una cena con amici o famigliari? Giusto quattro fanatici democratici, malati di saccenza, afflitti da un immotivato complesso di superiorità che qui si mostra dando ai parenti “un po’ di destra” le fattezze di certi personaggi di Harry Potter chiamati babbani, e fra babbani e babbioni il passo è breve e insomma chi non è di sinistra sarebbe un sorpassato.

 Non è proprio il caso di analizzare contestazioni e confutazioni, in Italia (solo in Italia?) la politica è partitica e la politica partitica è tifo. Non esistono argomenti capaci di convincere un romanista a diventare laziale o viceversa. La logica non può nulla contro l’irrazionale, chi è convinto che un presidente del Consiglio possa modificare il clima ossia temperatura, umidità, pressione atmosferica, intensità della radiazione solare, precipitazioni, nuvolosità, vento, è precipitato nel pozzo del pensiero magico e per estrarlo da lì non so se basterebbe un esorcista. Lasciate quindi perdere gli stratagemmi “per ottenere ragione” di Schopenhauer, filosofo iracondo che qualcuno ha stoltamente tirato in ballo. L’obiettivo non dev’essere l’ottenere ragione ma l’ottenere sbadigli: bisogna parlare di vino. “Wine is boring”, dicono in America, ed è il suo bello. Il vino è noioso ovvero tranquillizzante. Se fra primo e secondo un parente nemico della patria osa evocare i cosiddetti centri migranti d’Albania bisogna riempirgli velocemente il bicchiere e seppellirlo con un discorso su vitigni, fermentazioni, filtrazioni. Nessuno ne sa niente, nemmeno coloro che hanno fatto il corso da sommelier, da roteatore di bicchiere. Io parlo spesso di lieviti indigeni, di rifermentazioni in bottiglia, e ogni volta annoio come la prima volta.  Può darsi che nemmeno l’amico lettore sappia molto di vino e non sia in grado di attuare tale tattica. E allora non esiti a introdurre l’argomento vacanze: dove sei stato in vacanza? Dove andrai in vacanza? Tutti saranno felici di parlare di voli, alberghi, agenzie, spiagge, musei, montagne… Non ho mai fatto un giorno di vacanza in vita mia e prego di proseguire così fino alla fine, e però sentir parlare di soggiorni blandamente, serialmente esotici mi induce un piacevole torpore. Credo sia un effetto comune, le vacanze altrui rilassano più delle proprie. E se invece queste semplici istruzioni non vi bastano, se ancora non vi sentite tranquilli, evitate la polemica ab origine. Se il metodo più sicuro per sopravvivere al cenone è non partecipare ad alcun cenone, quasi altrettanto valido è il metodo di circondarsi di democristiani: difficile litigare con Rotondi, impossibile litigare con Casini, il commensale ideale.

Camillo Langone__da__IL FOGLIO

cenone

Perchè siamo alla fine della Storia…

Image_0© REUTER
Chissà se un giorno qualche storico del futuro ricorderà il 2024 come un anno cruciale per le sorti del pianeta. Di certo, per chi lo ha vissuto, è parso incarnare appieno i profondi cambiamenti in atto, almeno in Occidente. Basti pensare al numero di elezioni politiche che ha ospitato: tra i principali appuntamenti, si sono svolte consultazioni in Francia, Austria, Belgio, Stati Uniti, Giappone, oltre al rinnovo del Parlamento europeo. In gran parte delle tornate elettorali, si è registrato il successo, o comunque una significativa affermazione, dei partiti più radicali, situati agli estremi dello spettro politico, sia a destra che a sinistra. La crescita di AfD e del partito di Sahra Wagenknecht nei Länder tedeschi, i successi di Le Pen e Mélenchon in Francia, il trionfo di Donald Trump negli Stati Uniti sono solo alcuni degli esempi più eclatanti.
 Risultati che, anziché indicare l’esistenza di una «internazionale sovranista», come qualcuno l’ha definita, sembrano piuttosto suggerire l’emergere di una «internazionale degli antagonisti», tenacemente contrapposti all’ordine politico-culturale finora esistente. A legare i suoi membri non è tanto un’ideologia economica o sociale — conservatrice o populista che sia — quanto il rifiuto di un modello che, nei fatti, appare oggi in crisi.

Uno spirito di rottura che cresce in maniera sempre più pervasiva, mostrando, come mai prima d’ora, una chiara volontà di cambiamento: per qualcuno positiva, per molti spaventosa. La paura non deriva solo dall’incertezza su come si comporteranno le nuove forze, ma da una crescente percezione che, da questi stravolgimenti, con tutta probabilità, non emergerà un assetto stabile e definito. O almeno non nel prossimo futuro. Una prospettiva più angosciosa della «semplice» fine di un’epoca: a traumatizzarci è ancor più la comprensione che stia venendo meno ciò che ci sembrava eterno e indistruttibile

Un’idea che affonda le radici nel passato: nel suo saggio del 1992, La fine della Storia e l’ultimo uomoFrancis Fukuyama individuava nella caduta dell’Urss la conclusione di un lungo percorso storico, che per millenni aveva visto le diverse fazioni umane scontrarsi per il predominio del mondo, fino a ridursi a un solo vincitore: l’Occidente liberale. La tesi di Fukuyama suscitò subito obiezioni, ma rispecchiava l’ottimismo culturale appartenente a quell’epoca: eliminato il pericolo dell’autodistruzione nucleare, sembrava che stesse per aprirsi un’era di prosperità globale, garantita dai valori liberal-democratici. Certo, il processo non era completo: esistevano realtà in cui i benefici di questo nuovo corso non erano ancora arrivati, ma si credeva fermamente che, presto o tardi, tutti avrebbero raggiunto quella maturazione. L’errore non è stato sognare che ciò fosse possibile, ma addormentarsi nell’illusione che il modello si sarebbe auto-perpetuato come un eterno punto di riferimento per l’umanità. Nel nostro sonno, ci siamo dimenticati che i nostri ideali avevano prosperato grazie a un costante rinnovamento, spesso frutto della fatica e del confronto, talvolta cruento.

Dovrebbe essere proprio questa la prima e più importante funzione della politica: interpretare il momento storico e accompagnarci attraverso di esso. In un’epoca così ambigua, si tratta, tuttavia, di un compito estremamente difficile, e va riconosciuto. Aspettarsi dalle istituzioni risposte immediate e definitive sarebbe irragionevole e ingeneroso. Ciò che è giusto pretendere, invece, è la massima sincerità.  In una condizione così complessa, non è accettabile continuare a sostenere che tutto va bene, né tantomeno predicare ricette drastiche e risolutive, dimenticandosi del trauma e della fatica delle persone. Una leadership matura deve, prima di tutto, riconoscere questi sentimenti, nella consapevolezza che, anche se non è ancora il tempo della chiarezza, sarà già una conquista se si riuscirà a dare ascolto alla nostra angoscia.

             Da__La Stampa                                                                                                                                                       

Resilienza più altro..

Non mi è mai piaciuta la parola resilienza! Prelevare dalla fisica un termine (resilienza) impiegato per indicare la capacità di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi, significa trattare l’uomo alla stregua di un oggetto. Significa trascurare il fatto che l’uomo non è una cosa. Perché in lui si agitano passioni, emozioni, sentimenti, angosce, dolori, fantasie in quel gioco vertiginoso e incerto che è la vita!

Ecco, io vorrei sapere se i resilienti sono anche capaci di comprendere chi non ce la fa, e quindi di assisterli, confortarli, aiutarli. Se conoscono, oltre alla resilienza, anche l’accudimento, il soccorso, la cura. Perché solo chi conosce la propria debolezza è in grado di comprendere la debolezza altrui. Solo chi è caduto può sostenere chi sta cadendo. E sa soccorrere con parole che non siano di generico incoraggiamento, ma di autentica partecipazione, quella che i greci chiamavano compassione, nell’accezione non di compatire ma di partecipare a quel « patire» comune di cui nessuno può dirsi immune.

Di partecipazione abbiamo bisogno. Di socialità e non di orgoglio individuale ostentato da chi ce l’ha sempre fatta. Mettere in comune le sconfitte mi pare molto più interessante che resistere o vincere a tutti i costi. Confucio una volta disse: Un uomo è grande non perché non ha fallito. O perché si è rialzato. Ma perché da quel fallimento ha imparato che quella che ora vedi come una debolezza, un giorno diventerà la forza di qualcun altro. Perché la vera forza non è sorpassare chi ti sta davanti, ma tendere la mano verso chi ti cammina dietro.

Umberto Galimberti

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Qual’è l’età in cui ci sentiamo più felici?

 

Scopri qual è l’età in cui siamo più felici secondo questo studio

La felicità è un concetto in evoluzione che varia con l’età e l’esperienza. Ma un recente studio condotto da ricercatori tedeschi e svizzeri, pubblicato sulla rivista Psychological Bulletin , ha esaminato questa complessa questione per determinare il momento della vita in cui ci sentiamo più realizzati.
 Felicità :evoluzione costante
Secondo i ricercatori, il benessere emotivo fluttua nel corso della vita, influenzato dalle relazioni, dalla carriera e dai grandi eventi. Lo studio ha analizzato tre componenti principali del benessere soggettivo:
Soddisfazione di vita : la nostra valutazione complessiva della qualità della nostra esistenza.
Stati emotivi positivi : gioia, gratitudine, entusiasmo.
Stati emotivi negativi : tristezza, ansia , rabbia.
Con un campione impressionante di 460.000 partecipanti provenienti da culture diverse, i risultati forniscono una visione chiara di queste tendenze.
Il numero magico: 70 anni
Secondo lo studio, l’età in cui le persone sono più felici è 70 anni . La soddisfazione di vita raggiunge il picco a questa età, essendo leggermente aumentata a partire dai 16 anni. Tuttavia, dopo i 70 anni, inizia a diminuire lentamente fino ai 96 anni.
Stati emotivi positivi : diminuiscono gradualmente nel corso della vita.
Stati emotivi negativi : dopo un aumento tra i 9 e i 22 anni, diminuiscono notevolmente in età adulta, per poi aumentare leggermente dopo i 60 anni.
Perché 70 anni sono l’età della felicità?
Questa età sembra segnare un periodo di contentezza, legato a fattori come stabilità finanziaria, relazioni forti e un approccio più filosofico alla vita. All’età di 70 anni, le priorità cambiano e le sfide della giovinezza o della vita sono spesso sostituite da un sentimento di realizzazione.
Lezioni per il benessere a tutte le età
I ricercatori sottolineano l’importanza di preservare il benessere per tutta la vita. Che sia attraverso relazioni sociali arricchenti, pratiche di gratitudine o attività che diano senso all’esistenza, è fondamentale lavorare su queste tre componenti del benessere soggettivo fin dalla tenera età. In particolare, questi risultati potrebbero ispirare programmi volti a mantenere o migliorare il benessere degli anziani, aiutandoli a rimanere socialmente attivi e promuovendo stili di vita sani. La felicità non è limitata a un’età o a una fase della vita, ma segue una curva complessa influenzata da vari fattori. Se gli anni Settanta sembrano essere l’età dell’oro della soddisfazione di vita, è importante coltivare il benessere emotivo e relazionale durante tutta la vita per godere appieno di ogni momento.

età felice

Come reagire alla scomparsa di Dio

 

 

 

Dal presepe di una chiesa sparisce la statuina di Gesù Bambino. Chi l’ha rubata, chi l’ha rapita? La scelta del verbo è decisiva. Se si tratta di un oggetto trafugato, è solo un furto. Se si tratta invece di una figura vivente, che rappresenta una persona sacra e reale, allora è un rapimento. Alla scomparsa di Gesù Bambino in una chiesa, fatto realmente accaduto due anni fa in una parrocchia fiorentina, è dedicato un romanzo dal titolo evocativo: Ribellarsi alla notte, di Mimmo Muolo (ed. Paoline). Un giallo, con una trama in cui s’intrecciano fatti, persone, anime, storie, dolori e felicità. Per noi è la metafora di una situazione reale: viviamo il tempo della scomparsa di Dio, e di suo figlio, Gesù, nella sua espressione più inerme, il Bambino. La statuetta di un presepe non è un idolo ma un’icona, nel senso in cui ne scriveva Padre Florenskij: un simbolo sacro, ponte tra cielo e terra, tra divinità e umanità.
La scomparsa di Dio non riguarda un fatto di cronaca circoscritto a un presepe; ma coinvolge ciascuno di noi. Nel tempo della scomparsa di Dio, Gesù viene sostituito dal suo rutilante supplente laico, Babbo Natale, che porta regali, anziché salvezza eterna. Quando il Natale si eclissa e al suo posto c’è il Pupazzo rosso, la gente non si scambia più gli auguri di Santo Natale ma quelli, più neutri e vacanzieri, di Buona Feste. Il tema investe la Chiesa cattolica e la sua presenza nel mondo. Se accetta di rendere la festa una ricorrenza universale e asettica di ferie, pranzi e regali, il cristianesimo si neutralizza e accetta quel che pure Papa Francesco stigmatizza: la fede ridotta a un fatto privato, quasi nascosto, per non urtare la suscettibilità di chi non è credente o crede in altri dei, anche secolari e profani. Ma cosa può fare la Chiesa per restituire Gesù Bambino al presepe, il Santo Natale alla gente, e la fede al mondo? Certo, non deve arroccarsi nel suo Credo e nella sua religione; deve aprirsi, piuttosto, venire al mondo – come Gesù Bambino – ma senza nascondere la sua vera missione che non è di puro soccorso umanitario e sociale.
È la strada più difficile, tutta in salita, si scontra con l’incomprensione generale e i poteri ostili del nostro tempo; con essi non deve guerreggiare, simulare crociate, ma testimoniare la verità. Non perché ne possegga il monopolio, ma per puro amor del vero; la sua missione è ricercare la verità.
Invece davanti alla scomparsa di Dio e di Gesù Bambino, gli atteggiamenti prevalenti sono due. Fingere che non sia vero, illudersi e illudere che tutto è come sempre; scelta da farisei degna di una religione ridotta a formalismo. Oppure accettare la sua scomparsa, adeguarsi all’assenza di Dio nel mondo, e ridurre la Chiesa al ruolo di assistente morale e sociale dell’umanità, dedicandosi solo ai temi della pace, dell’inclusione, dell’accoglienza. Temi per i quali bastano partiti, movimenti, politiche governative e organizzazioni non governative, patronati sociali, sindacati e associazioni di beneficienza. Non c’è bisogno di scomodare Dio per tutto questo.
La verità della Chiesa è invece rendersi conto del vuoto lasciato dalla scomparsa di Dio: la culla vuota, e le culle vuote d’Occidente, il Dio scomparso dalla vita quotidiana. E ripartire da lì, da quel Buco Nero al centro del mondo e dentro di noi.
Non si può fingere che il mondo non sia cambiato. La fede non va ritrovata arretrando al passato ma attraversando la scristianizzazione. La fede va cercata dopo la sua scomparsa.
Allo stesso mondo, la Chiesa deve pensare il mondo, e il mondo che cambia. Ma non limitandosi a rimarcare la sua universalità, rivolta all’umanità senza muri e confini, ma capace di cogliere pure le differenze. Innanzitutto la cristianità non può fingere di coincidere con l’intera umanità, in lei si riconosce solo una porzione del mondo; altre religioni, altre fedi, altre tradizioni esistono al mondo, non se ne può prescindere. Avere senso della realtà e dei limiti significa anche accettare queste differenze, accettare l’esistenza di altri raggi che portano o dicono di portare al centro dell’Essere. Si tratta dunque di tradurre il riconoscimento di un mondo multipolare anche nel riconoscere la molteplicità delle vie.
Pensare il mondo nella sua differenza vuol dire pure non pensare che il centro del mondo, la novità planetaria, siano i flussi migratori. I migranti sono milioni, un fenomeno importante che non si può ignorare; ma i restanti sono miliardi, e la Chiesa non può preoccuparsi dei primi e trascurare i secondi che sono la stragrande parte dell’umanità. Se è davvero universale, ecumenica, deve considerare loro, occuparsi di chi resta e non soprattutto di chi parte.
Pensare il mondo nelle sue differenze e nei suoi mutamenti, significa poi differenziare i messaggi: l’evangelico “crescete e moltiplicatevi” va oggi rivolto alle popolazioni italiane, europee, del nord occidentale, dove la denatalità galoppa e regredisce il desiderio di nascita. Ma va modulato diversamente laddove la crescita demografica ci sta portando a una situazione senza precedenti; già ora, nel giro di pochi anni, siamo più di otto miliardi sulla faccia della terra. Ci sono aree del mondo in cui il problema è ancora la denutrizione, la fame, la mancanza di assolvere bisogni primari; e ce ne sono altre in cui il problema è invece la sovralimentazione, lo spreco, il calo demografico, le malattie derivate dalla nutrizione eccessiva e sbagliata.
Sono esempi per dire che pensare il mondo vuol dire pensare le differenze nel mondo e i suoi cambiamenti. Ci sono principi e visioni che non mutano col mutare dei tempi, ma ci sono avvenimenti, fenomeni, trasformazioni che sono invece mutate. In questo la chiesa dovrebbe avere la capacità di vivere dentro il proprio tempo e di aggiornare alcuni suoi messaggi. Questo vuol dire essere rigorosi nei principi e innovativi nelle forme e nelle attenzioni, saper essere quelli di oggi e quelli di sempre, non scambiando mai i due piani. Se Dio scompare non possiamo far finta di niente. Dobbiamo ribellarci alla notte, restare fedeli alla vita e predisporci all’attesa della luce.

Marcello Veneziani  

Gli italiani contro l’Europa e l’Occidente…

 

 

Gli italiani sono delusi dall’Europa e dall’Occidente. Considerano in larga maggioranza l’Europa un guscio vuoto inutile o dannoso e destinata a sfasciarsi; non si riconoscono nei valori del passato e reputano l’Occidente responsabile delle guerre in corso. Lo conferma l’ultimo rapporto del Censis che mostra un popolo di scontenti antieuropei e antioccidentali che tocca il 70 per cento all’insegna, scrive, di un “viscerale antioccidentalismo”.
I dati registrano un fatto ma non raccontano le motivazioni, ossia come si arriva a questo esito. E qui subentra la necessità di un’analisi differenziata e ragionata. Per molti l’Europa è una camicia di forza, una sovrastruttura invasiva che nuoce ai popoli, alle nazioni e alle loro identità e non li protegge. Ma altri accusano l’Europa del contrario: è ancora prigioniera delle nazioni e dei nazionalismi, non è capace di fare un salto in avanti verso un sovranismo europeo.
La stessa divaricazione si ripete per quanto riguarda l’Occidente. Da una parte c’è chi rimprovera all’Occidente di vergognarsi di se stesso, delle sue radici e delle sue tradizioni, e di non curare i suoi interessi geopolitici. Ma oltre la motivazione “occidentalista” – alla Oriana Fallaci, per intenderci – ci sono coloro che reputano l’Europa succuba degli Stati Uniti e dell’occidentalismo guerrafondaio. E non manca la critica umanitaria, un tempo terzomondista, che rinfaccia all’Occidente di imporre i propri modelli al mondo, di essere ancora legato al colonialismo e alla supremazia mondiale e di non essere “inclusivo”, a cominciare dai flussi migratori; di disprezzare la pace, concorrere al degrado ambientale e climatico e di essere sottomesso alla logica del profitto capitalistico. Una prospettiva che unisce la linea di Bergoglio alle varie forme di pacifismo e accoglienza. Insomma, gli italiani sono largamente critici verso l’Europa e verso l’Occidente ma per motivi diversi, se non opposti. La somma è imponente, ma è frutto di minoranze divergenti.
Mattarella nelle sue prediche si ostina a ripetere il vecchio schema catto-progressista allineato alle potenze globali e ritiene che la fonte di tutti i mali sia il nazionalismo. La realtà odierna e la percezione comune invece dicono esattamente il contrario: siamo davanti alla perdita di identità e di sovranità politiche, nazionali e popolari, e al dominio di imperialismi antinazionali, mentre si allarga a sud l’islamizzazione che travolge anche le resistenze nazionali, come è accaduto in Siria. Dittature laiche, all’insegna di una modernizzazione nazionale e socialista vengono abbattute, col favore dell’occidente dal propagarsi della fratellanza islamica, della sharia e del jihad. Un tempo fioriva il partito Bath, all’insegna di un risorgimento socialista che investì molti paesi arabi, dalla Siria all’Egitto, dal Libano alla Giordania, dalla Libia e all’Iraq, ispirò i regimi di Saddam Hussein e di Assad, in cui convivevano confessioni diverse, sunniti e sciiti ma anche copti e cristiani. Il riferimento ideologico delle élite arabe, che si erano formate in Occidente, era un’inedita sintesi di Marx, Nietzsche e Mazzini. Un movimento non ateo ma nemmeno confessionale, senza mire di espansionismo religioso. Questi regimi autocratici e nazionalisti, da ultimo quello siriano, sono stati spazzati via dall’ostilità dell’Occidente e dell’islamismo radicale, in prevalenza sunnita, che ne ha preso il posto, con la complicità suicida dell’Occidente. Oggi ci troviamo sull’orlo di una guerra mondiale per la spinta convergente del fanatismo islamico e del suprematismo americano (sperando che Trump riesca a frenarlo). Questa spinta è supportata dalla politica aggressiva di Israele che bombarda tutti i paesi circostanti “a scopo difensivo”, oltre a massacrare i palestinesi.
Ma torniamo al tema, ponendoci alcuni interrogativi: sono componibili queste forme di dissenso verso l’Europa e l’Occidente, è possibile ed è auspicabile trovare un filo conduttore che le unisca; o viceversa, è possibile tornare a nutrire fiducia nell’Europa e nell’Occidente oppure dobbiamo rassegnarci allo sfascio della prima e al declino del secondo?
Sul piano dei valori quel che è venuta meno è l’idea di una comune appartenenza a una civiltà da salvaguardare. E il primo elemento di riferimento unitario venuto meno è la cristianità, a sua volta però diversamente intesa: come religione della fede, del sacro e della tradizione o come religione della carità per l’umanità, a partire dai migranti e dai più bisognosi, all’insegna della fratellanza universale. Anche qui, dunque, la perdita della cristianità ha almeno due letture diverse.
Il venir meno di quelle “grandi matrici valoriali unificanti del passato”, come scrive il Censis, coincide con la scristianizzazione dell’Europa e dell’Occidente. E qui sorge un’ulteriore domanda: sarà possibile ritrovare la centralità dell’Europa e dell’Occidente senza ritrovare la cristianità? Grandi quesiti a cui non si possono dare sbrigative risposte. Ma da dove ricominciare? Dall’inizio, vorrei rispondere, cioè risalendo ai temi fondativi. Non si può pensare che una società possa sopravvivere ignorando da dove proviene; e che possa rinunciare ai legami comunitari che la costituiscono sin dalle origini; non si può credere che senza riconoscere eredità comuni, tradizioni, culture, linguaggi, riti, simboli, sia possibile fondare alcunché. Non si può affidare a un individualismo globale la risposta a quelle domande, occorre aprirsi a un nuovo e antico spirito comunitario. Non si può risolvere tutto facendo affidamento alla potenza della tecnologia, della medicina, dell’economia e della finanza, o peggio agli apparati militari, farmaceutici, mediatici. Bisogna ritrovare un terreno comune che precede quei campi e che dà un senso e un destino alla vita, oltre che prolungarne e migliorarne le prestazioni.
La soluzione all’antieuropeismo e all’antioccidentalismo risiede in un salto di piano, dagli effetti alle cause e alle premesse, dai livelli di vita alle motivazioni. Il terreno su cui si possono affrontare quelle allergie e si possono tentare alcune sintesi, è di ordine spirituale. Rimette in gioco l’intelligenza e l’energia, la fiducia e la fede; la ripresa della vita nel circuito vitale del passato, del futuro, dell’ideale e del sacro, al di là del momentaneo, del presente, dell’utile e del singolo.
L’atto primo resta una rifondazione spirituale e comunitaria; e già a dirlo
sembra impossibile. Solo dopo si potrà decidere se rifondare l’Europa e/o l’Occidente o se oltrepassare l’uno e/o l’altro. Prima dotarsi di una visione non solo orizzontale ma verticale, che sappia cioè andare in profondità e in altezza; poi viene il resto. Quasi impossibile ma necessario.

Marcello Veneziani

C’è un’ etichetta anche per mangiare croissants…

Dai social alla tavola: il croissant come opera d’arte

C’è un’ etichetta anche per mangiare croissants Dai social alla tavola: il croissant come opera d’arte

Croissants, brioches, pain au chocolat, kipferl, cornetti: chiamateli come volete ma anche loro hanno deciso di far parlare di sé. Aleggia il mistero intorno alla loro invenzione: si dice che apparirono per la prima volta nel 1770, in occasione del matrimonio a Versailles tra Luigi XVI e Maria Antonietta e furono ribattezzati croissants, termine derivato della parola “crescent”, mezza luna.  Altre fonti attribuiscono l’invenzione ad August Zang, imprenditore austriaco che nel 1838 aprì una panetteria viennese a Parigi: ai tempi erano conosciuti come Zang’s, nome finito nel dimenticatoio. Ma non loro: infatti, negli anni, sono diventati parte integrante del nostro repertorio culinario in diverse declinazioni e varianti, non solo delle viennoiserie. Nell’ultimo periodo, i profili social dei celebri Cedric Grolet e Amaury Guichon hanno iniziato a sfornare gigantesche opere d’arte, il nostrano Iginio Massari condivide la ricetta perfetta nel caso si volesse replicare ad arte a casa, in Australia l’account Instagram lunecroissanterie conta quasi 350 mila followers e la coda fuori dalla pasticceria non sembra essere da meno.

Nonostante l’attuale trend che ha portato in auge la pasticceria nord europea con bakery ibride e all’avanguardia che hanno reso famoso il repertorio di cinnamon rolls e hot cross buns, insieme alle varianti giapponesi come lo shokupan, la classica sfoglia, amata dalle generazioni di tutto il mondo, non è mai passata di moda. E ora si ritaglia un posto d’onore nei contenuti virali di TikTok. Il croissant, tanto elegante da pronunciare quanto difficile da mangiare, soprattutto nel caso di quello ripieno, ha sollevato l’attenzione dell’esperto di etichetta, britannico ovviamente, William Hanson. In un video di 20 secondi Hanson svela con impeccabile sarcasmo e puntigliosità le linee guida per mangiare un cornetto, nel modo più raffinato possibile. Non lo sapevamo, ma facciamo molti errori nelle pigre mattine domenicali, e il content creator non ne fa passare una, trasformando la nostra comfort zone in una tesi di dottorato.

Ma ecco il brief: innanzi tutto mai intingere la sfoglia nel caffè o nel cappuccino, è imperativo mangiarla insieme al caffè.  Infatti, in un’intervista al Daily Mail, afferma con risolutezza: «Per quanto un cornetto imbevuto di caffè possa essere delizioso per alcuni, è una pratica da riservare a quando si è a casa, con le tende tirate. Fermamente.» L’alt è diretto anche a chi avesse la malaugurata idea di fare ulteriori aggiunte: niente burro, dato che ce n’è già a sufficienza, secondo l’esperto di etichetta. Nel caso si volesse arricchire il nostro croissant si può al massimo puntare sulla marmellata, come da tradizione francese. Lasciate il cioccolato o la Nutella ai bambini. Non si taglia con il coltello in questo caso, l’operazione è chirurgica: si deve staccare, riappoggiare sul piatto e aggiungere la confettura, presa dal piattino del pane con l’apposito coltello. Per ultimo, ma non meno importante, guai a mangiarlo a morsi: anche in questo caso è importante staccare pezzo per pezzo. E per il pain au chocolat? Stessa cosa, non si deve commettere il passo falso di mangiare la famosa sfoglia francese a morsi. I commenti degli users al contenuto virano sul tono del sarcasmo: «Quindi niente forbici da uva per il pain au chocolat?» Ma Hanson non si ferma qui e allarga il suo punto di vista critico alla colazione in generale: «I cereali sono più un alimento moderno per la colazione, se paragonati ad altri, e nonostante non appartengano alla tradizione, non c’è nulla di male nel sceglierli per colazione.Tuttavia, per aggiungere un tocco di raffinatezza, non mangiate mai da una ciotola, neppure quelle dalle ‘ciotole per cereali’ appositamente commercializzate. Invece, usate un piatto fondo con bordo. Molto più chic.» Ha da ridire anche sui pancake: bisogna tagliarli progressivamente, partendo dall’estremità più vicina a noi, perché, ricordiamoci, non sono una pizza o una torta.

Dagli Stati Uniti sono arrivate non poche polemiche sotto il video di Hanson e l’esperta di etichetta d’oltreoceano Elaine Swann ha dato la sua opinione, più morbida. Per quanto, in linea generale, sia d’accordo con le direttive del britannico chiude la controversia più diplomaticamente: «La vita è breve! Se ami il burro e vuoi metterne di più su un cornetto, vivi la tua vita,” dice. “Questa è una questione di gusto, non di etichetta.» Swann afferma, infatti, che negli States c’è una gamma molto più ampia di condimenti accettabili. Marmellata, miele, sciroppo al cioccolato, zucchero a velo, formaggio cremoso e salse alla frutta sono tutti OK. «Onestamente, mangia ciò che vuoi metterci sopra,» dice , «personalmente, adoro un sandwich per colazione con cornetto e tutti i condimenti.» Amen. Speriamo Hanson sia più magnanimo con il panettone a Natale. Touché.

I nuovi bigotti del linguaggio corretto…

 

 

Ah, le malelingue. Non mi riferisco ai pettegoli, ai maldicenti ma a quanti si ostinano ancora a parlare secondo consuetudine e senso comune, secondo realtà e verità, almeno intesa come evidenza. No, signori, dovete correggere il vostro modo di parlare, adottare un “linguaggio inclusivo”; dovete accettare precetti per “un uso rappresentativo e non discriminatorio della lingua italiana”. Ho tra le mani un documento d’istruzioni per l’uso della lingua italiana. Lo ha prodotto il Comune di Vicenza, grazie all’impegno di Isabella Sala, vice sindaco con delega alle pari opportunità, e Martina Corbetti che presiede la commissione pari opportunità. È un piccolo campionario, come ce ne saranno mille altri in Italia, di allineamento della lingua al politicamente corretto, all’ideologia woke nelle pubbliche amministrazioni.
Il primo comandamento recita di mutare al femminile tutte le definizioni che da sempre adottavamo al maschile: assessora, consigliera, direttrice, tecnica, commissaria. Il discorso si complica quando il riferimento è plurale: non chiamateli cittadini, amministratori, consiglieri è plurale maschile, ma dite la cittadinanza, l’amministrazione, il consiglio. E se parlate di un singolo, non usate al maschile la definizione di delegato, di richiedente, di detenuto, di tossicodipendente, di senza dimora, ma premettete sempre la persona delegata, la persona richiedente, la persona detenuta, la persona tossicodipendente, la persona senza dimora. E in tema di disabilità non parlate di handicappato o ritardato, nemmeno addolcendo con persona handicappata, ma dovete dire persona con disabilità, persona con ritardo cognitivo, ecc. Non parlate nemmeno di persone affette da, malate di, o costrette su sedia a rotelle, ma persona con malattia, o persona su sedia a rotelle. Pare brutto dire che è malato o è costretto; che poi sia davvero malato o costretto, che importa? Meglio non dirlo.
E le persone normali? Guai a chiamarle così o persone abili, c’è la definizione di “normodotata” che ti fa sentire un po’ felicemente anormale o trattato come un pacco postale, con dimensioni che corrispondono alla norma dei formati di spedizione.
Mai chiamare migrante o straniero un migrante o uno straniero (clandestino poi è da galera, e non per il clandestino ma per chi indica un clandestino come tale): si dice persona migrante, persona straniera, persona rifugiata, al più persona irregolare. E se è figlio di migranti va definito “persona con background migratorio”, estensibile presumo anche agli uccelli migratori. Guai a chiamarli extracomunitari perché nella definizione c’è una connotazione negativa, un “forte valore discriminatorio”.
Ecco un breve sunto del libretto d’istruzioni sul “parlar corretto” e sul parlare “inclusivo”. Come vedete, piccole trascurabili sciocchezze, in cui traspare l’inutilità pratica e sociale della pubblicazione e l’innaturale adozione di moleste perifrasi per non usare il linguaggio semplice e diretto della realtà.
Ma questo modesto vademecum stampato da un comune italiano mostra l’adesione al catechismo woke e ai suoi piccoli dogmi: primo, non potendo cambiare la realtà, si cambiano le parole per indicarla; secondo, il formalismo lessicale oltre a falsificare la realtà della vita, cancella pure l’autenticità delle relazioni, sottoposte a un rigido rococò di perifrasi, eufemismi e omissioni.
Come definire questo linguaggio inclusivo? Bigottismo ipocrita.
Qui il discorso si fa interessante soprattutto se lo paragoni al passato. Ricordo un film che vidi da bambino, ambientato proprio a Vicenza e provincia: si chiamava il Commissario Pepe, protagonista era Ugo Tognazzi e regista Ettore Scola. Narrava le ipocrisie di una provincia bigotta, che sotto la coltre devota del cattolicesimo, nascondeva tradimenti, peccati, miserie, falsità. E poi tutti a messa. Prima di questo film c’era stato un altro film di Pietro Germi, Signore e signori, che aveva raccontato le ipocrisie sotto il velo della bigotteria di una provincia non definita del Veneto. Prendersela col Veneto era un po’ ingeneroso, perché il bigottismo ipocrita era diffuso, magari in altre forme, anche nel resto d’Italia, era fiorente al sud come in Piemonte o nella capitale della cristianità. E i primi film su questo bigottismo ipocrita erano ambientati in Sicilia.
Ma è curioso pensare che sessant’anni dopo o giù di lì, il bigottismo ipocrita ha cambiato versante: non riguarda più la borghesia cattolica e conservatrice ma quella radical chic, laicista e progressista, venuta dall’irriverente contestazione del ’68. Che denunciava proprio il lessico ipocrita, i falsi pudori borghesi del tempo.
Cosa è successo, come spiegare questa trasmigrazione, questa trasformazione e insieme questa continuità di atteggiamenti?
Azzardo un’ipotesi: col passare del tempo abbiamo buttato la polpa di quella società cristiana, devota e borghese, e ci siamo tenuti la buccia, il bigottismo ipocrita. Ovvero, abbiamo perso la parte migliore di quel mondo – il senso del pudore e del limite, l’umiltà e la fede, il legame comunitario – e abbiamo invece mantenuto la cornice stucchevole, l’ipocrisia delle relazioni, la gramigna del vizio cresciuto sulla pianta della virtù. Equivale a ridurre la fede a clericalismo. Così i nipoti, nuovi farisei, si allineano al nuovo conformismo ipocrita e bigotto di oggi con lo stesso passivo automatismo con cui i loro nonni si conformavano allo spirito dominante del loro tempo.
Anche i nipoti hanno perso nel corso degli anni e nel passaggio delle generazioni, il movente primario del loro progressismo e la passione ideale per il rinnovamento, se non per la rivoluzione; e adottano questo nuovo catechismo parruccone, formalista, applicato al linguaggio. Mi ricordano le loro vecchie mamme che dicevano: questo non si dice, non si bestemmia, non si usano parolacce, state composti. Anche ieri usare un linguaggio corretto era un modo per essere inclusi nella bella società delle buone maniere. La stessa psicosi “correttiva” e manierista viene ora applicata alle nuove figure “protette” e alla nuova società.
È per questo che oggi la vera rivoluzione è cercare di dire la verità, raccontare la realtà senza veli, e la vera trasgressione è la tradizione. Il resto è fuffa, chiacchiera e ipocrisia.