Chi ha inventato il Festival del cinema di Venezia e perché?

La Mostra del cinema di Venezia, inaugurata il 6 agosto 1932, fu il primo festival cinematografico al mondo: venne finanziata dal conte Giuseppe Volpi per rilanciare il Lido.

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Tra le eredità del Ventennio fascista c’è anche la Mostra del cinema di Venezia. Inaugurata il 6 agosto 1932 in occasione della Biennale d’arte, che all’epoca aveva già 39 anni di vita, fu il primo festival cinematografico al mondo. La prima edizione, non competitiva, si svolse sulla terrazza dell’Hotel Excelsior al Lido di Venezia. La seconda edizione si svolse due anni dopo, perché legata alla cadenza della Biennale, dal 1º al 20 agosto 1934. A partire da quest’edizione le nazioni in gara erano 19. Già dalla terza edizione, 1935, la manifestazione divenne a cadenza annuale.

Il conte ministro. L’idea di una rassegna cinematografica internazionale l’aveva avuta Luciano De Feo, direttore dell’Istituto Luce e fu appoggiata dal conte Giuseppe Volpi di Misurata (1877-1947), ministro delle Finanze dal 1925 al 1928, e all’epoca direttore della Biennale di Venezia. Il conte, che era diventato ricchissimo grazie anche alle concessioni sulle coltivazioni di tabacco in Montenegro, voleva infatti rilanciare le fortune del Lido di Venezia.  Una rassegna cinematografica “quasi libera”. Benché il suo scopo fosse valorizzare le pellicole italiane (nel 1937 fu premiato Scipione l’Africano) e affermare la supremazia dei nostri film su quelli hollywoodiani, negli Anni ’30 la mostra rappresentò l’unica occasione di vedere film di generi diversi, tra cui autentici capolavori del cinema straniero, opere americane, sovietiche, francesi mai proiettate in Italia. L’Oscar italico. La prima edizione non prevedeva premi, ma dal 1934 fu istituita la Coppa Volpi per i migliori interpreti maschile e femminile. Un “Oscar” italiano che si assegna ancora oggi.

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Tante conquiste, ma mai come oggi le donne sono impotenti…

Sono avverso alle donne di potere, ma non misogino: oggi le donne sono impotenti.  Le Sodomiadi di Parigi hanno sancito il sorpasso di omosessualismo e genderismo nei confronti del femminismo. E del femminile, tristemente passato di moda. Se aggiungiamo immigrazionismo e islamismo, la donna risulta indifesa.

Prego di riuscire a smettere di definirmi misogino. Non perché debba sfuggire alla nuova severissima censura inglese (non frequento la perfida Albione). Ma perché oggi la mia avversione riguarda soltanto le donne di potere. E se il mio problema si riduce al potere femminile la definizione di misogino, che tanto mi piaceva, che ancora un po’ mi piace, non mi descrive più: quasi tutte le donne sono impotenti. Le Sodomiadi di Parigi – “un salto di qualità nell’attacco alle donne” (Eugenia Roccella) – hanno sancito il sorpasso di omosessualismo e genderismo nei confronti del femminismo. E del femminile, apparso tristemente passato di moda… Se a ciò aggiungiamo immigrazionismo e islamismo ecco uno spaventoso ircocervo ideologico davanti al quale la donna, peggio se giovane donna, peggissimo se giovane donna bianca, risulta indifesa. Oggi una ragazza non può vestirsi liberamente, non può frequentare tranquillamente stazioni e metropolitane. Può accedere a tutti i mestieri? Sì, ma non a tutti i quartieri. Se è bella viene criticata. Se non lo è viene criticata. Se è famosa può essere lapidata in qualsiasi momento per qualsiasi minimo disallineamento. Se è ignota è una sfigata. Ovvio che in un mondo così disgraziato al posto della misoginia serva cavalleria ossia gentilezza e rispetto nei confronti della donna.

Camillo Langone __da__IL FOGLIO

 

misoginia

Il vittimismo è l’ideologia dominante…

 

 

Quando non è accusata di fascismo, Giorgia Meloni e il suo mondo sono accusati di vittimismo. Appena denuncia un attacco, una manovra, una campagna contro di lei o sua sorella, contro Fratelli d’Italia o il governo, scatta l’accusa di atteggiarsi a vittima. Il sottinteso è la sindrome del complotto, con la sua dietrologia; o in chiave puerile, la sindrome di Calimero: ce l’hanno tutti con me solo perché sono piccolo e nero, diceva il pulcino di una pubblicità ignota ai minori di cinquant’anni, che oggi sarebbe vietata per apologia di fascismo…
Per i più navigati nella storia della destra e della sua cultura la Meloni non usa solo un repertorio propagandistico per mantenere i consensi e giustificare le difficoltà ma il vittimismo sarebbe una malattia endemica nel mondo politico e culturale della destra nazionale, sociale e radicale nostrana. Il solito, lagnoso vittimismo, che denuncia da decenni discriminazioni, ghettizzazioni, esclusioni e censure nei confronti di chi “non è allineato” o è fuori dalla cerchia e dal Palazzo.
Riconosco che questa tendenza al vittimismo è in effetti presente nella mentalità politica e culturale della “destra” (lasciate che metta tra virgolette una definizione sempre più irreale); arrivo a dire che forse è quella l’unica, vera indole che accomuna politici e intellettuali della cosiddetta “destra”.
Ma appena si allarga lo sguardo al mondo circostante, si fanno i paragoni e si osserva la realtà in cui viviamo, il responso assume un’altra, sorprendente valenza. A ben pensarci, il vittimismo è l’ideologia implicita e sottostante del nostro tempo; sorregge le più importanti giustificazioni culturali e morali, nonché il senso di superiorità della cultura egemone e fonda l’antifascismo.
Da dove nascono l’ideologia woke, il politically correct e la cancel culture se non dalla tutela dei diritti e dal risarcimento dei popoli, generi, minoranze, culture, scelte, reputate vittime di discriminazioni, fobie, intolleranze, violenze? Tutelare le minoranze omosessuali o transgender, vittime dell’omofobia; tutelare i migranti dalla xenofobia o dall’islamofobia; tutelare i neri, vittime del razzismo; tutelare i rom, vittime della zingarofobia. La stessa battaglia per la parità delle donne sorge perché vittime del maschilismo, del patriarcato, delle violenze misogine e dalle discriminazioni sessuali.
Il vittimismo trova la sua legittimazione storica e ideale in rapporto al Male Assoluto, il nazismo e i suoi parenti: la prima Vittima per antonomasia, è l’Ebreo. Tutto il giudizio storico contemporaneo parte dall’ossequio alla Vittima della Shoah. La destra ne fece il verso con i martiri delle foibe.
Sul piano storico la memoria, le strade, le rievocazioni riguardano solo le vittime; ogni evento, ogni protagonista, ogni eroe, re e conquistatore, cede il posto alla vittima, anche nella toponomastica. E l’anticolonialismo cos’è se non un’apoteosi del vittimismo?
Ma anche la vita sociale e civile esige una speciale protezione della vittima; la scuola deve prima di tutto tutelare chi non ce la fa, vittima del sistema meritocratico e dell’impietoso darwinismo sociale; nello sport le pararlimpiadi assumono pari rilevanza delle olimpiadi, per la speciale tutela che si deve alle vittime della sorte (peraltro ammirevoli). E persino nelle gare olimpioniche, la stupida, demagogica idea di premiare i quarti, rispetto alla terna che sale sul podio – un’idea che mortifica e sovverte lo spirito dello sport e il suo legittimo e leale agonismo (vinca il migliore) – è un ulteriore frutto del vittimismo.
Risalendo alle origini del vittimismo c’è una distorsione della morale cristiana, la difesa dei martiri, dei deboli, dei poveri, degli umili, degli oppressi. L’impianto vittimario e sacrificale della storia, notava René Girard, ha una derivazione cristiana, in parte giudeo-cristiana.
Ma la carica di rivalsa che accompagna il vittimismo, in realtà, è una derivazione della lotta di classe di matrice comunista: vittime di tutto il mondo unitevi, sovvertite l’ordine che finora vi ha relegato fuori, sotto, in basso nella scala sociale; gli ultimi saranno i primi, diceva il Vangelo, ma il marxismo corregge, la dittatura degli ultimi (o meglio di coloro che parlano in loro vece) sarà necessaria per rovesciare le leggi infami della realtà, della natura e del mondo. Il vittimismo è l’ideologia dominante del nostro tempo, anzi, meglio, è l’ideologia su cui si fonda la dominazione del nostro tempo. Non è certo appannaggio esclusivo della Meloni.
Ma torniamo al mondo da cui proviene la Meloni. Il vittimismo della “destra” è una ritorsione, una reazione, al dominio vittimista che s’impone dappertutto. In realtà la vera indole della destra, più che il vittimismo è il “vintimismo”, ossia la passione per i vinti, la propensione scandalosa per tutti coloro che persero, con onore, nella storia: dagli esuli di Coblenza al tempo della rivoluzione francese ai nostalgici dei Borbone e degli Asburgo, dai sudisti agli indiani d’America ai fascisti che combatterono sapendo di perdere. L’archetipo, per così dire, è Ettore nel canto di Omero, o Leonida alle Termopili coi suoi trecento spartani. O i samurai, i tibetani, coloro che difesero città assediate e civiltà perdute.
L’adozione delle vittime al posto dei vinti segna un cambio di passo: dagli eroi ai martiri, così la destra risponde allo spirito del nostro tempo. Poi, nella prassi quotidiana, diventa a volte alibi furbo per mascherare le proprie sconfitte o le proprie incapacità e insufficienze. Il vittimismo viene usato per generare solidarietà e dissimulare i propri insuccessi.
Ma dopo aver compiuto una lunga navigazione nel vittimismo, nelle sue matrici, declinazioni ed espressioni odierne, torniamo alla realtà. Resta il fatto che davvero la destra è stata per decenni il mondo escluso, definito non a caso il ghetto; la sua cultura è stata ed è ancora interdetta e malvista, esclusa o mal sopportata dal potere culturale dominante. Ed è innegabile che certe cose consentite agli altri, e soprattutto alla sinistra, sono vietate alla destra; se prova a farlo, si grida allo scandalo. Lo si vede nelle leggi, nelle nomine, nei criteri usati. Per non dire delle campagne e delle manovre mediatiche e giudiziarie per far cadere il governo di destra o per impedire in tutti i modi che altrove vada al potere.
Alla fine ci troviamo davanti a un duplice paradosso: il vittimismo non è la consolazione di chi sta sotto ma è l’ideologia di chi sta sopra: è usata dai ceti dominanti per affermare e consolidare la loro supremazia. Altro che religione degli oppressi… La stessa cosa succede a rovescio al governo: Meloni si dice vittima eppure sta al governo. Evidentemente il governo è una cosa e il potere è un’altra… Quel doppio esito è il paradosso cornuto del vittimismo.

Marcello Veneziani  

Trovare la strada,quella giusta poi…

Sarebbe tutto più semplice se non ti avessero inculcato questa storia del finire da qualche parte, se solo ti avessero insegnato, piuttosto, a essere felice rimanendo immobile. Tutte quelle storie sulla tua strada. Trovare la tua strada. Andare per la tua strada.  Magari invece siamo fatti per vivere in una piazza, o in un giardino pubblico, fermi lì, a far passare la vita, magari siamo un crocicchio, il mondo ha bisogno che stiamo fermi, sarebbe un disastro se solo ce ne andassimo, a un certo punto, per la nostra strada, quale strada?  Sono gli altri le strade, io sono una piazza, non porto in nessun posto, io sono un posto.

Alessandro Baricco __“City”

 

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I veri abiti della tradizione orientali. Donne bellissime, abiti straordinari.

  Tornerà mai un mondo in cui le donne del Medioriente potranno tornare ad indossare i loro abiti tradizionali, se e quando lo vorranno, dismettendo i loro abiti quotidiani, qualunque essi siano , come siamo abituate noi, da sempre? Penso che sarebbe una grande  conquista, la dimostrazione che al mondo non devono esistere donne senza diritti e libertà. Se esistono questi costumi, prima dei burka , significa che gli uomini di un tempo, prima dei maschi fanatici di oggi, forse meritavano molto di più  il rispetto e la devozione delle loro donne.

” La biblioteca di Babele”.

 

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La frase di Jorge Luis Borges è tratta da una delle sue opere più emblematiche, La biblioteca di Babele. In questa frase, filosofia e poetica si associano per riflettere la sua profonda meditazione sull’immortalità della conoscenza e quanto l’umanità sia effimera a confronto con l’eternità unversale.

“Forse mi inganneranno la vecchiaia e la paura, ma sospetto che la specie umana – l’unica – stia per estinguersi e che la Biblioteca sia destinata a permanere: illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta”

Borges e la Biblioteca come metafora dell’Universo, un luogo in cui siano conservati tutti i libri e la conoscenza nota, ma anche in embrione tutta la conoscenza possibile , che si scriverebbe in ogni combinazione immaginabile di lettere e simboli. Praticamente Borges immagina che la conoscenza sia infinita, e l’ idea che la Biblioteca rimanga immutata e incorruttibile, mentre l’umanità si estingue. Il seguito di tutto questo è una montagna di interrogativi esistenziali. Dopotutto, se l’umanità coi suoi eccessi è destinata ad estinguersi , a chi potrà servire questa immensa biblioteca, se nessuno sentirà il bisogno di consultarla ?
La Biblioteca, simbolo dell’intera eredità culturale umana, potrebbe rimanere intatta, ma a quale scopo? Troppo riduttivo sarebbe erigerla a
testimonianza vuota della nostra esistenza, un monumento all’inutilità. L’immortalità della Biblioteca, in contrasto con la mortalità dell’uomo, crea una tensione tra ciò che è eterno e ciò che è temporaneo. Borges sembra suggerire che, mentre l’uomo cerca disperatamente di lasciare un segno duraturo, di costruire qualcosa che possa sopravvivere oltre la sua vita, alla fine tutto ciò può rivelarsi vano. La conoscenza, la cultura, l’arte sono tutte espressioni della nostra umanità, ma senza di noi, esse non hanno alcuno scopo. Allora perchè si stanno anche anticipando questi tempi, con il rifiuto di tutto quello che è stato cultura, non solo nei libri, ma nella realtà di un’umanità, che con noi e il nostro retaggio ha nulla da spartire. Evidentemente il destino dell ‘eterno universale è destinato, almeno per gli umani a rimanere quell’immenso vuoto in cui, per una magia quantistica ci troviamo a galleggiare, senza scopo e importanza.

Torniamo all’essenziale…

 

 

Si può essere cattolici, credenti e praticanti oppure no, ma si deve convenire che la domanda a cui è dedicato il Meeting di Comunione e Liberazione di quest’anno, in corso a Rimini, è la più centrata, urgente e universale che ci possa essere: “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?”. Al Meeting di CL il sottinteso è l’incontro essenziale con Gesù Cristo, e poi l’impegno sociale, solidale, comunitario che ne deriva, nelle opere, nella vita e nel lavoro. Ma la ricerca dell’essenziale è il tema cruciale dell’uomo, coincide con la fede e col pensiero; precede ogni scelta religiosa, filosofica, esistenziale, civile. Ci mette in gioco davanti alla vita e alla morte, alla nascita e all’amore, alla gioia e al dolore, all’infanzia e alla vecchiaia, al mistero e al destino.
Se dovessimo infatti riassumere la dispersione, la dissoluzione, l’alienazione, la follia del nostro tempo, soprattutto nell’Occidente cristiano, dovremmo proprio condensarle in quella constatazione: abbiamo perso di vista l’essenziale, ci stiamo perdendo nelle procedure, negli alibi, nei surrogati, nelle deviazioni di percorso, nei regni fluttuanti del superfluo, in balia della volontà di potenza. Vivere per le procedure significa scambiare il fine della vita con i mezzi per vivere, barattare il significato con le funzioni e le utilità. Quando perdi di vista l’essenziale ti fabbrichi degli alibi, perché non hai tempo per fare “filosofia” sulla vita, devi campare e procurarti da vivere; poi ti rifugi nei surrogati dell’essenziale, gli obbiettivi fallaci, gli idoli, i consumi, il profitto, la tecnica, gli agi elevati a valori. Da qui le deviazioni di percorso, scorciatoie, vie di fuga o itinerari turistici, diversivi o solo divertenti, per non intraprendere il cammino a cui ti chiama la vita. Una vita che perde l’essenziale è una vita che si perde nel superfluo, in tutto ciò che è accessorio, labile, ornamentale, banalmente superficiale. Se la vita non ha senso, non ha destino, non vuole lasciare eredità e tracce meritevoli di essere salvate ma è una pura affermazione ed espansione illimitata di potenza e desideri, ha già imboccato la direzione opposta alla ricerca dell’essenziale. Anche perché la domanda sull’essenziale è una domanda sull’essere, mentre l’affermazione di potenza è protesa contro o senza l’essere, presuppone la forza di annientare chi vi si oppone e di creare dal nulla.
La domanda che sta dentro la ricerca dell’essenziale è primaria, originaria: perché vivere, cosa ci spinge a vivere anziché lasciarsi andare? C’è un modo di aggirare quella domanda ed è nel puro regredire allo stato biologico: ti aggrappi al puro istinto di sopravvivenza ed autoconservazione. Chiunque vive vuole preservarsi, restare in vita e difenderla come l’istinto elementare e naturale primario che precede ogni altro pensiero o volontà. Dunque non c’è da porsi nessuna domanda, siamo fatti così, predisposti geneticamente come qualunque altro essere vivente, a vivere per vivere, abbiamo l’istinto a sopravvivere; la volontà di vivere, direbbe Schopenhauer.
Ma l’uomo pensa, sceglie, ricerca, esplora, è nella sua indole. Sa di morire. L’uomo cammina su una corda tesa tra la libertà e il destino,  e i due poli estremi della corda lo inducono a ricercare l’essenziale. Non è solo il filosofo, il ricercatore, il devoto a porsi quella domanda, ma è l’uomo, in virtù della sua coscienza e della sua sensibilità. La ricerca dell’essenziale pone sulla stessa linea l’istinto di vivere, il sentimento e la ragione.
C’è tuttavia un punto di crisi in cui si perde la ricerca dell’essenziale: è quando la partenza coincide con l’arrivo e tutto ruota intorno all’io e si risolve in lui. Se il mondo è solo un corollario, uno strumento, uno specchio per l’io, si è già fuori dalla ricerca dell’essenziale. L’essenziale è ciò che oltrepassa l’io, ci apre oltre noi, non amplifica l’ego.
La religione col suo senso del divino è da sempre il luogo di proiezione e di protezione; ossia il punto in cui oltrepassare se stessi, proiettarsi oltre noi, fino a proiettarsi nei cieli, e insieme trovare protezione ai nostri limiti, alla nostra mortalità, alla nostra precarietà. Possiamo spingerci a riconoscere o prevedere il tramonto di una religione, la fine di una civiltà legata a quella fede, ma non possiamo pensare l’umanità senza quel bisogno innato di proiezione e di protezione. Se ciò accade vuol dire che ha trovato surrogati per sostituire quel duplice bisogno e camuffarlo sotto altre vesti. Oppure ha smesso di essere umana, cioè libera, pensante, protesa verso il destino.
In ogni caso, se cerchi l’essenziale devi sporgerti oltre l’io, concepire l’essere come una casa più grande in cui sei compreso, di cui non sei padrone.
Certo, la ricerca dell’essenziale non può risolversi in un bel meeting, in qualche dialogo e in qualche predica, come non può semplicemente esaurirsi in uno scritto, una riflessione intellettuale o una dichiarazione solitaria. Ma quando una società perde l’orientamento, quando non sa più riconoscere l’alto e il basso, il vicino e il lontano, il prioritario e il secondario, quando non sa distinguere il bene e il male, o usa al contrario le parole rispetto alla realtà e chiama pace la guerra, inclusione l’esclusione, libertà l’intolleranza, sviluppo il degrado, emancipazione l’imbestiamento, è necessario che si avvii da tutte le postazioni possibili, a tutti i livelli, una chiamata alla realtà, alla vita vera, alla nascita e alla morte, e alla missione reale e ideale della nostra vita.
E se la politica, la società, il pensiero non si curano di questa domanda, può essere una ragione per non curarsi del potere politico, sociale e culturale, ma non è un buon motivo per abbandonare la ricerca dell’essenziale; che diventa, proprio per quella latitanza, più essenziale che mai.

Marcello Veneziani  

Bruno Martino ha cantato la malinconia di chi non riesce mai a sentirsi all’altezza dell’estate…

“Odio l’estate” non è il manifesto degli hater delle vacanze ma la canzone di chi non può fare a meno di sentirsi inadeguato a una stagione troppo bella, vitale e spensierata.

Parlare ancora di “Estate” di Bruno Martino (rititolata così dopo che Lelio Luttazzi la parodiò in tv con “Odio le statue”, ma meglio riconoscibile col suo primo titolo: “Odio l’estate”) potrebbe sembrare il solito strale antipatico del guastafeste che si oppone alla stagione più amata dalle masse. Non è così semplice, per vari motivi. Il primo è che la tristezza estiva non è una posa dei bastiancontrari su X, ma un sentimento antichissimo che il poeta Alceo, vissuto a Lesbo nel VII secolo a.C., descriveva con queste parole: «Bagna i polmoni nel vino […] La stagione è opprimente, assetato è tutto […] È in fiore il cardo: ed ora le donne son più lascive, molli son gli uomini, giacché Sirio il capo e le ginocchia inaridisce».

Il fastidio per l’estate – per il cattivo accordo dei propri moti interiori con la luce e il calore opprimente – risale a molto prima che i motori dell’aria condizionata venissero a turbare le notti dei palazzi urbani e la brutta musica quelle degli alberghi a mare; a ben prima che il Summer blues – la variante estiva della depressione meteoropatica – venisse codificata con la stessa dignità degli istinti suicidi nei Paesi nordici d’inverno. La seconda ragione per cui “Estate” non è una banale scelta da Sad girl è che Bruno Martino (e il paroliere Bruno Brighetti) non odiavano davvero l’estate; infatti, pur morendo di dolore e invocando la neve a coprire tutte le cose, il risultato era una specie di ode (ok, malinconica) alla stagione. Prova ne sia che le versioni inglesi o brasiliane del brano – che negli anni è stato ripresissimo, fino a diventare un canone del jazz e della bossanova – hanno solo parole elogiative per questa stagione, come se al di là del testo originario, e perfino dell’arrangiamento, stessero a significare che, alla fin fine, questa è una canzone dell’estate, sull’estate, per l’estate. Mi riferisco, per esempio, a un adattamento inglese del 1965, il quale, anziché lamentarsi di un amore trovato e perso d’estate, si augurava che l’avventura a questo giro si rivelasse solida: «This summer/ perhaps I’ll meet the one who’ll be my true love/ The one who won’t be just another new love/ Who’ll still be mine when leaves begin to fall…». Lo stesso João Gilberto, artefice della fama mondiale del brano, aveva tolto subito la parola odio dal testo, pensando che la saudade insita nella musica fosse più che bastevole. L’odio poi, oggi, è cosa ben diversa: ha a che fare col livore, è espressione gratuita e violenta di dissenso da hater. Invece Bruno Brighetti, che leggenda vuole avesse scritto il testo dopo una intossicazione da frutti di mare in un hotel di Napoli nel 1960, non era capace di vero odio. Al massimo del malumore diceva: odio l’estate perché è troppo bella. Voglio che passi solo perché io non sono felice. Perché tutti sono innamorati invece io ho mal di stomaco.

È questo il sentimento veramente condivisibile che abbiamo provato tutti – non il lamento sterile dei calorosi, dei nemici delle zanzare, dei detrattori del mare, dei workaholic: la sensazione esistenziale che il nostro cuore non stia al passo col fulgore dell’estate; che non si accordi ai colori sgargianti della frutta e dei vestiti; alla dolcezza delle carni all’ombra, ai profumi del pino e del limone. Che il nostro cuore, insomma, sia un posto troppo più freddo della spiaggia a quaranta gradi dove tutti si muovono con ostentata grazia e stolido buonumore. Se è vero che “Estate” era in netta controtendenza rispetto alla canzone leggera di un’estate italiana del boom economico, è però successo a tutti, in ogni epoca storica, di sentirsi sfasati rispetto all’obbligo morale estivo dell’innamoramento e della spensieratezza. Chi soffre lo sfasamento per l’estate non è un vero hater, sa che l’estate è calda come i baci (che ha perduto) che ha dato il suo profumo ad ogni fiore (facendoci morire di dolore) e il sole che ogni giorno ci donava adesso brucia solo con furore. La tristezza dell’estate, in definitiva, non è che il perenne desiderio di raggiungere i suoi standard. Io, personalmente, soffro di un complesso da inadeguatezza all’estate dai tempi dei miei primi compleanni agostani, che spesso, per manie di grandezza congenite, si rivelavano delle puntate di giochi senza frontiere casalinghe che coinvolgevano tutta la cittadinanza minorenne. Al momento di chiudere la porta alle spalle dell’ultimo invitato, crollavo in una crisi di nervi perché avevo atteso quel giorno sin dai primi bagliori di giugno, perché come un santo patrono portato in gloria avevo immaginato che sarei stata davvero felice, e perché quella felicità non l’avevo acchiappata nemmeno quando dalla torta era uscita una carrozza con i pony. Tutto fuori da me appariva troppo più smagliante e sorridente del mio stato d’animo, di me, delle mie possibilità emotive, dei miei più ottimistici desideri di esser come tutti.
Che la si ami o no, arriva per ciascuno il momento in cui l’estate chiede troppo alla nostra vitalità in termini di entusiasmo; arriva, cioè, il momento in cui ci ciascuno in segreto si ripete piano: tornerà un altro inverno, e il cuore un po’ di pace troverà.

Arianna Giorgia Bonazzi

 

Nessuna tradizione nella cucina di pesce di mare, stereotipo insostenibile…

A parte pochi casi, poche ricette di poche località portuali, prima del boom economico il pesce fresco d’acqua salata anche lungo le coste era qualcosa di raro. Così Mauro Uliassi, grande cuoco di Senigallia, si è messo a servire rane, pernici, rognoni, lumache.

Sia lodato Mauro Uliassi, il grande cuoco di Senigallia che ha denunciato la cucina di pesce come disperatamente turistica e si è messo a servire rane, pernici, rognoni, lumache. Con molto coraggio visto che il suo ristorante si trova proprio sulla spiaggia. Ma il nuovo menù era necessario per smontare l’ormai insopportabile, insostenibile stereotipo gastrobalneare: “Tutto è nato negli anni ‘50 e ‘60, dalla villeggiatura. Altro che tradizione della cucina di mare”. A parte pochi casi, poche ricette di poche località portuali, prima del boom economico il pesce fresco d’acqua salata anche lungo le coste era qualcosa di raro. Mentre oggi milioni di italiani vanno al mare e ordinano tutti insieme, contemporaneamente, milioni di piatti di pesce, illudendosi che l’ingrediente sia locale e che sia tipico. Il più delle volte non è né l’uno né l’altro, ma vaglielo a spiegare: l’overturista è il turista felice di mangiare salmone in riva all’Adriatico… Peggio per lui e meglio per chi seguendo l’alto esempio di Uliassi passerà a rane, pernici, rognoni, lumache: tradizione vera, cultura vera, cucina vera.

Camillo Langone__da__IL FOGLIO

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