In un niente la loro felicità… non togliamogliela!

 Questi tre meravigliosi bambini mi hanno incantata, belli, felici  di giocare con niente.  La felicità di questi bimbi è in quel giocare nell’acqua,  specchiare  nella sua limpidezza i loro altrettanto  limpidi occhi, arrampicarsi e fare le acrobazie su i rami bassi, alla loro portata di bimbi. La felicità di questi bambini è la libertà di cui godono, lontano dagli occhi dei grandi, non soltanto vigili, ma spesso limitativi dei genitori, nella natura incontaminata del luogo.La felicità di questi bambini è l’incoscienza del domani, che , per loro, non è altro che tempo, la felicità è nel godere la famiglia la sera, nella quiete del villaggio, dove la vita di oggi è quella di ieri e di ieri l’altro e di quelli che si perdono nel tempo. Il loro piccolo  mondo combacia col mondo dei grandi in un angolo di  Africa dove non è ancora arrivato il diavolo. E non sanno che questo mostro, al quale il loro credo animista porta rispetto ,ha spesso il volto di uomini come tanti. E se  e quando arriveranno i diavoli ribelli , pagati dall’avidità delle multinazionali a massacrare e spingere via gli abitanti dalla loro terra, il loro  piccolo mondo di felicità sarà spazzato via. E allora i tre piccoli , meravigliosi bimbi, spegneranno il loro sorriso e si incammineranno in fila indiana alla ricerca di un altro habitat, come vedevano fare ai grandi branchi di animali, anche loro alla ricerca dell’acqua.   E su questa immensa distesa di acqua troveranno un gommone, sul quale, abbracciati andranno verso un domani, che è solo un foglio bianco sul quale scrivere i giorni di un tempo ignoto.

Quando penso a noi… praticamente sempre.

Forse la nostra storia era destinata a durare una vita e oltre ,perché non era solo una storia d’amore. Era una storia di pioggia e di sole, di mare e di montagne, d’attesa e passione, d’amicizia e condivisione, di tempo e costruzione, di sintonia e incomprensione, di silenzi e rumore. Non era una storia d’amore. Era una storia. Con dentro l’amore. O, forse, era amore. Con dentro una storia…

 

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Capita di sentirsi a pezzi, come un mucchio di cocci…

 

 

 

 

Può capitare a tutti di sentirsi come un mucchio di cocci, ma non me lo deve dire  nessuno oltre me stessa. Io credo sia normale, siamo persone, non dobbiamo per forza essere sempre efficienti al cento per cento ,anche se danneggia qualcuno,  avrò diritto , se succede ,avere un attimo che sia tutto mio, per auto commiserarmi, avrò diritto a farlo in privato. Di sicuro non pecco di superbia se lascio da parte per attimo la schiettezza di sempre, non dico per nascondermi ma per poter essere sola, solo io e le emozioni di quel momento…forse me lo devo!

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Va bene essere a pezzi

Va bene portare le cicatrici dell’esperienza.

Va bene essere messi male.

Va bene essere una tazza sbeccata. È la tazza che ha una storia.

Va bene essere sentimentali e stravaganti e commuoversi fino alle lacrime per canzoni e film che non dovrebbero neanche piacerti.

Va bene che ti piaccia quello che ti piace.

Va bene che una cosa ti piaccia per il semplice fatto che ti piace, e non perché è fantastica o ingegnosa e perché piace a tutti.

Va bene lasciare che siano gli altri a trovarti. Non sei costretto a farti in quattro finché i pezzi diventano così piccoli che non si vedono nemmeno. Né devi essere sempre tu a fare il primo passo. Qualche volta puoi aspettare che siano gli altri a venire da te. Come disse la grande scrittrice Anne Lamott: “I fari non corrono da una parte all’altra dell’isola, alla ricerca di barche da salvare; restano fermi e fanno luce”.

Va bene non sfruttare al meglio ogni istante del tuo tempo.

Va bene essere come sei.

Va bene.

Matt Haig, da Parole di conforto,

Apparente contraddizione…

 In una scuola  buddista un giorno uno studente si rivolse  al suo insegnante in questo modo.” Maestro, voi , ogni giorno, mi insegnate a combattere poi, contemporaneamente mi parlate sempre di pace; come spiegate questa contraddizione?”. Senza riflettere il maestro rispose al discepolo :” E’ sempre meglio essere un guerriero in un giardino, che un giardiniere in guerra !”

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Secondo Fromm ,l’amore come viatico di vita…

 

 Erich Fromm nel suo libro “L’arte di amare” parla di 5 tipi di amore… questi:

Amore fraterno,

Amore tra genitori e figli,

Amore erotico,

Amore per sé stessi

Amore per Dio.

Egli sottolineò che tutte queste forme di amore hanno elementi comuni e devono essere basati sul senso di responsabilità, rispetto e conoscenza. Per ogni individuo l’amore è il modo normale di superare il senso di isolamento e, come desiderio di unione con gli altri, assume una forma specificamente biologica tra l’uomo e la donna. Fromm afferma che è errato interpretare l’amore come una reciproca soddisfazione sessuale poiché una completa felicità sessuale si raggiunge soltanto quando c’è l’amore.
La concentrazione sulla tecnica sessuale come se questa rappresentasse la via alla felicità è, egli afferma, una delle molti ragioni per cui l’amore vero è diventato così raro nella moderna società capitalistica.
Fromm crede che l’amore sia l’unica e soddisfacente risposta al problema dell’esistenza umana.
Egli accentua però il fatto che l’amore non può essere insegnato ma dev’essere acquisito tramite uno sforzo continuo, disciplina, concentrazione e pazienza, tutte cose che sono difficili per la pressione continua della vita moderna.
Il più importante contributo di Fromm alla psicologia sta nella sua accentuazione della dignità e del valore dell’individuo.
A differenza degli psicologi del comportamento egli non riduce l’uomo ad un comune denominatore di istinti.
Nel suo trattamento del sesso egli lo considera molto meno importante dell’amore nel senso più lato del termine.
Le sue idee sulla teoria della pratica dell’amore sono della massima importanza poiché dimostrano che uomini e donne possono superare le pressioni della vita quotidiana e le difficoltà che essi incontrano quando vogliono formare mature relazioni d’amore.

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Col Covid il tempo non corre più in linea retta, ma si sta arrotolando su se stesso in una spirale che chiude sempre più-

Circa un anno fa ammettevamo che non se ne poteva più, ed era bello e utile dirlo perché almeno così segnavamo un punto nello spazio-tempo. Tracciavamo la nostra posizione sulla mappa e nella storia: ormai troppo distanti dal punto di partenza, dall’inizio della traversata, ma ancora non abbastanza vicini a quello di arrivo, alla fine dell’allucinazione. Da quando ho letto per la prima volta della variante che sarebbe poi stata ribattezzata Omicron, ho avuto la sensazione di aver sviluppato un nuovo punto di vista sulla questione. Passato un anno dal momento in cui ammettevo di non poterne più, capisco adesso che lo scherzo crudele della pandemia non sta nello spostare sempre un po’ più in là la fine della strada. Lo scherzo crudele della pandemia sta nel piegare la strada su se stessa fino a chiuderla in un anello: un girotondo infinito perché non comincia e non finisce in nessun punto e comincia e finisce nello stesso punto.

È una condizione che impedisce anche la disperazione del “non poterne più”, ma aumenta il terrore di non sapere più dove ci si trova. Pensare alla pandemia ormai richiede uno sforzo simile a quello necessario a credere alle storie di fantasia: sospensione dell’incredulità, la decisione consapevole di credere all’incredibile, la scelta di aggiungere l’impossibile all’elenco delle possibilità. Acquisisco ogni giorno nuove notizie sulla situazione, ma mi rendo conto che ormai nessuna di queste aggiunge niente alla mia consapevolezza: ogni nuova informazione resta al di fuori di me, diventa un altro mattone dell’architettura assurda che mi circonda: la ripetizione illusoria dell’ambiente circostante costruisce la trappola perfetta (dalla quale si può sfuggire solo impiegando la forza che per definizione permette di andare oltre le cose per come sono, cioè la magia). La ripetizione è ciò che ormai mi dà la nausea: con omicron abbiamo impiegato a fini di tassonomia più della metà dell’alfabeto greco antico, mi chiedo cosa faremo quando arriveremo all’omega. Quando mi rispondo che probabilmente ricominceremo da capo, arriva la nausea.
Naturalmente esiste una parte razionale di questo discorso che si rifiuta di cedere all’accettazione disperata delle cose come stanno, che non ammette la possibilità del rifugio nei paradisi fantastici. Il tempo non si è fermato e le cose oggi non stanno come stavano ieri: in due anni abbiamo imparato e abbiamo inventato, e abbiamo aperto minuscoli varchi nel labirinto che il Covid-19 sembra averci costruito e stretto attorno. Forse la salvezza sta in questa consapevolezza, dimenticata nei tanti anni in cui ci eravamo convinti che la storia fosse finita e che non ci fossero più cambiamenti (sconvolgimenti) da vivere: il tempo scorre in minuscoli varchi, va avanti in flussi sottili che spesso sfuggono alla percezione, prosegue anche in momenti come questo in cui esso sembra intrappolato dentro se stesso, e noi con lui.

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Fonte:Rivista Studio

Sogniamo a occhi aperti, viviamo a occhi chiusi.

Abbiamo scambiato il giorno con la notte. Sogniamo a occhi aperti, viviamo a occhi chiusi. Non riusciamo a sognare e non riusciamo a vivere la realtà. Due osservazioni di segno opposto, ricorrenti e veritiere per descrivere la vita presente. La chiave per comprendere perché due verità così divergenti hanno un comune fondo di verità è nel loro campo d’applicazione: come succede ai lattanti, abbiamo scambiato il giorno con la notte. Ovvero applichiamo alla veglia le categorie del sogno e al sogno le categorie della veglia. Da un verso cresce la paura della vita e della realtà. Paura della violenza, dello straniero, del razzista, delle malattie, del contagio, del buio, dell’inquinamento. E paura di far figli, di perdere il tenore di vita, paura del futuro ma anche del passato. Allora si cerca rifugio nelle illusioni, nella mitologia secondaria o d’asporto, nel fumo, nelle trasgressioni, nella vacanza, nel video, nella cuffia, nei carrelli della spesa. Non è una novità aggrapparsi alle illusioni: cambiano i veicoli, gli oggetti usati, non gli effetti.

In un passato anche recente, le illusioni furono le utopie rivoluzionarie, le ideologie che promettevano paradisi in terra e società perfette. Le illusioni degli uni erano le paure degli altri, il terrore, la violenza. C’era chi bruciava i sogni dopo aver incendiato la realtà e chi faceva il contrario. I disagi, le violenze, le paure del presente sono passate con gli anni dalla sfera pubblica e storica alla sfera intima e privata, ma rivelano la stessa tendenza a scambiare il sogno con la veglia. Quando dovremmo vivere la realtà quotidiana alla luce del sole, fare i conti con ciò che siamo davvero, con il mondo concreto che ci circonda, con la nostra vita, i suoi limiti e le sue imperfezioni, ci rifugiamo nei desideri, inseguiamo chimere, viviamo di universi fittizi, mondi perfetti, società inesistenti, fughe nella realtà virtuale; incapaci di vivere, ci abbandoniamo ai sogni, compreso il sogno della merce. E quando invece dovremmo sognare, lasciare il campo alla libera immaginazione, all’incanto o all’irruzione del mito, allora ci barrichiamo nelle ferree leggi della ragione, nella contabilità, nella tecnica e nei bisogni materiali. Così l’amore è ridotto alla libido, la religione è ridotta a transfert nei cieli dei nostri bisogni e delle nostre paure, l’arte è ridotta all’audience e alle condizioni socio-economiche, le idee ai rapporti di produzione e consumo, la cultura al potere culturale. Ci snaturiamo quando dovremmo vivere secondo natura e ci aggrappiamo alla natura quando dovremmo liberare i sogni soprannaturali. Funzionano a pieno regime le fabbriche dei sogni, dalla fiction all’astrologia: Theodor Adorno in Stelle su misura analizzò questo trasloco nella veglia delle allucinazioni oniriche e delle psicosi notturne. L’inversione tra il giorno e la notte, tra il sogno e la veglia, trovò nel surrealismo e poi nel ’68 una formula di successo: l’immaginazione al potere. Il risultato fu rovesciare l’uomo, farlo camminare con la testa e pensare con i piedi, cioè con la praxis, ribaltando così il rapporto col cielo e la terra. I malesseri del presente – come i dolorosi furori del passato – hanno quella stessa matrice: sogniamo quando dovremmo vivere, viviamo quando dovremmo sognare. Dormienti di giorno, insonni di notte, apriamo gli occhi quando è buio, li chiudiamo quando c’è il sole. Pesanti nella leggerezza e leggeri nella gravità.

Gli psicanalisti, come Hethan Watters, raccontano cosa succede quando si perdono i sogni di notte e la realtà di giorno. È la chiave più giusta per spiegare la malattia occidentale: la pretesa di calcare il cielo con i piedi e di camminare con la testa. Così i nostri dei e i nostri miti sono pedestri, all’altezza delle nostre suole, o al più dell’inguine, e la nostra vita terrena si perde nel cervello, in quella tirannia dell’immaginazione sulla realtà, del cervello sulla vita concreta che Paul Celàn, prima di suicidarsi, chiamava psicocrazia. I miti caduti in terra si chiamano malattie. Viviamo bene in stato di sospensione e di incoscienza, da automi e fruitori dell’attimo. Quando viviamo male, i sogni si fanno incubi e la realtà si fa maledizione inflitta da altri. Così la vita diventa una confortevole patologia. La via d’uscita, facile a dirsi e ardua a realizzarsi, è restituire i sogni alla notte e la veglia al giorno, ridare il cielo agli dei e la terra agli uomini, ripristinando il duplice bisogno di miti e di realtà che ci rende uomini, mai scambiandoli di posto e di momento.

MV, Alla luce del mito

sogni

I vaccini anti covid 19-

Non si rendono conto dell’autogol, o è pura impudenza arrogante, ben sapendo di avere a che fare con masse de-neuronizzate?

Il sistema immunitario naturale ha come una “memoria”: si ricorda per un bel po’ dei virus che ha affrontato. Metterla giù così è come dire che (a) il cd. vaccino non è un vaccino, cioè una prevenzione che “istruisce” il sistema immunitario ma è una terapia che lo sostituisce. Peccato che, come tutti i farmaci, qualche ora o giorno dopo viene eliminato facendo la pipì; oppure (b) stan dicendo che il covid è una influenza, ogni variante fa storia a sé, quindi i cd. vaccini servono a proteggerci … dal virus del passato. Decidetevi.

vaccino

 

Regalo di Natale…

 

solstizio

Stanley Roy Badmin_____Solstizio

Vi è qualcosa nello spirito umano, che sopravviverà  e prevarrà; vi è una minuscola ma brillante luce che brucia nel cuore dell’uomo alla quale non importerà mai nulla di quanto buio stia diventando il mondo, scriveva più o meno così Lev Tolstoj da qualche parte, non ricordo dove… Questa frase mi è tornata in mente questa mattina quando mio figlio si è avvicinato e ,facendomi gli auguri di Natale mi ha stretta forte e mi ha baciata. Mi ha la sciata ammutolita col regalo più bello, che mai potessi desiderare, di valore inestimabile, alla faccia di ogni regola anti covid, il buio profondo del nostro tempo, che ci ha tolto tutto…

Gli scarponi di sempre…

Quando si sta per partire per la montagna è l’ora di cominciare a preparare i vecchi scarponi. E’ un momento speciale e il primo pensiero preoccupa sempre: ricordare dove li abbiamo riposti. A volte è passato molto tempo dall’ultima volta che li abbiamo indossati e questo fa che a volte ci sia bisogno di una piccola manutenzione, che poi altro non è che una bella ingrassatura per rammollire  un po’il cuoio, indurito dal tempo.
Anche se non si ha in programma una scalata,lo scarpone è l’unica calzatura che ci permette di muoverci per strade impervie, sconnesse, sassose o innevate con maggior confort e sicurezza. La certezza è sempre la stessa: i vecchi scarponi si adattano perfettamente al piede, si abituano immediatamente al nostro passo, seguono le esigenze del nostro cammino. Li abbiamo abbandonati per scarpe più eleganti, più nuove, forse più belle e appariscenti e più alla moda, ma… quanti sforzi e pene prima che si adattino al nostro piede!
Non ci conoscono, non sono abituate alla nostra maniera di percorrere i sentieri, non sono affidabili. E poi ci vuol tempo prima che siano perfettamente a posto richiedendo attenzione, delicate nei loro materiali tecnologici, mentre il vecchio scarpone è un’altra cosa.
E che dire delle scarpe acquistate via internet, stupende nella foto che ci ha catturato , per cui le abbiamo volute a tutti i costi dopo complicate misurazioni dei nostri piedi fatti bene, fatti male, perchè si sa che ognuno ha la sua magagna . Stupende ma che non abbiamo nemmeno avuto l’occasione di provare. Quando arrivano a casa spesso sono una delusione: un bel pacchetto ,un bell’involucro, ma indossarle è un problema.
La pelle è dura come cartone e forse lo è , si disfano subito, non hanno la resistenza dei cari vecchi scarponi.

Facile, forse scontato: gli scarponi come metafora dei vecchi amici e dell’amicizia.

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