Quel misero 0,01 che si crede il re dell’universo…

 

 

Abbassa la cresta, Uomo. Non solo sei un puntino disperso in una briciola trascurabile dell’Universo denominata Terra. Ma anche sulla terra, tra i viventi, oltre a essere un parvenu, sei solo un infinitesimo esemplare rispetto a tutti gli esseri viventi. Se la democrazia fosse estesa a tutto il pianeta, l’umanità sarebbe una trascurabile ultraminoranza rispetto al mondo delle piante: noi umani siamo sulla terra appena lo 0,01 per cento degli esseri viventi, mentre le piante sono l’87 per cento. I funghi, da soli, ci surclassano, sono assai più numerosi di noi umani; a essere giusti non dovrebbero essere gli uomini ad andare a funghi, ma i funghi ad andare a uomini, cogliendo quelli non velenosi. Gli animali sono già più numerosi di noi, gli insetti non ne parliamo; ma anche loro rispetto alle piante sono veramente una sparuta minoranza sulla terra.

Partendo da queste considerazioni, un famoso e assai seguito studioso delle piante, Stefano Mancuso, critica la pretesa di definire l’uomo misura di tutte le cose. Ma che unità di misura siamo, il millimetro?, visto che apparteniamo a una ridicola ultraminoranza. Vero è che il filosofo sofista Protagora aggiungeva che siamo misura di tutte le cose che sono in quanto sono e di quelle che non sono per ciò che non sono; dunque stabiliva una cernita intelligente che difficilmente un fungo o una foglia sarebbero in grado di fare. Ma agli occhi dei botanici integralisti l’antropocentrismo è la pretesa arrogante di essere al centro dell’universo mentre siamo solo una virgola nell’immenso libro del creato. Anche il nostro modello di organizzazione, piramidale, gerarchico, rispondente a una pretesa razionalità, è uno spocchioso, fallimentare schemino di gran lunga inferiore rispetto ai sistemi organizzativi delle piante. Spesso siamo inconsapevoli imitatori dei sistemi vegetali; per esempio internet, sostiene Mancuso, somiglia a una rete vegetale più che a un modello antropocentrico. Le piante hanno un sistema organizzativo molto più resistente, efficace, innovativo, rivoluzionario rispetto a noi obsoleti tromboni umanocentrici. «È sempre più riconosciuto – scrive A. Bertrand – che le piante sono organismi sensibili che percepiscono, valorizzano, imparano, ricordano, risolvono problemi, prendono decisioni e comunicano». Insomma non avranno nervi né cervello, non sanno cosa sia l’intelligenza di tipo umano, ma il loro sistema organizzativo è ben più evoluto, oltre che naturalmente ecosostenibile, del “nostro”. Con una capacità di adattamento che noi uomini e bestie ce la sogniamo. Da qui l’idea, all’apparenza bislacca, di battersi per i diritti delle piante e di riconoscere dignità alle piante. Già l’età dei diritti umani fu superata con l’estensione dei diritti agli animali. Ora è maturo il tempo di riconoscere i diritti del regno vegetale. A quando l’allargamento dei diritti al regno minerale? Sarebbe una “pietra miliare” per una nuova civiltà giuridica che parifica uomini, bestie, piante e sassi e riconosce pari dignità alle persone come alle foglie e alle rocce.

Mancuso cerca il consenso degli stessi umani, rilevando che noi dobbiamo la nostra vita alle piante, grazie all’ossigeno, al cibo e alle fibre biodegradabili di cui ci riforniscono. Quindi passare dalla parte delle piante non è un modo per piantare l’uomo ma fa anche l’interesse degli stessi uomini che vivono grazie alle piante. Nella sua esagerazione l’apologia botanica ha tuttavia qualcosa di buono e perfino di utile: genera una maggiore sensibilità nei confronti del pianeta, dell’aria, dell’ambiente, del verde e dunque una conseguente attenzione nei confronti del loro e del nostro eco-sistema.

Ma come sappiamo, tutta questa campagna in favore delle piante si inserisce nel nuovo spirito apocalittico della nostra epoca, che partendo dallo sconvolgimento climatico e dall’alterazione dell’ambiente, attribuito all’inquinamento prodotto dall’uomo e allo sviluppo industriale, consumistico e moderno, si spinge a considerare l’uomo il nemico principale del pianeta. E dunque la priorità, l’emergenza è salvare il pianeta dall’uomo, che è l’agente distruttore. L’utopia dei “plantocrati” è che il pianeta può salvarsi solo se l’uomo viene neutralizzato, disarmato, reso innocuo e subalterno. È possibile sognare un mondo migliore disabitato dagli uomini, salvato dalla nefasta presenza umana? Ma soprattutto è possibile per noi uomini ragionare a scapito dell’umanità? Siamo uomini, non teste di rapa…

Dal nostro piccolo, piccolissimo punto di vista umano non riusciamo a non considerare prioritaria la vita e l’intelligenza umane. Homo sum nihil a me alienum puto”, diceva Publio Terenzio Afro, ossia “Sono un essere umano, e niente di ciò ch’è umano reputo estraneo a me”. La commedia di Terenzio s’intitolava non a caso Heautontimorùmenos ovvero Il punitore di sé stesso. E l’idea che l’uomo debba mettersi nei panni delle piante, ragionare e organizzarsi come loro, prendendo a modello il regno vegetale, tanto da rinunciare al punto di vista antropocentrico, è autopunitiva, autodistruttiva, e in definitiva antiumana.

Chiedeteci di piantare più alberi in città, di rispettare le piante, amarle e studiarle, come ci insegnavano Goethe e Jünger, e da noi Ulisse Aldovrandi e Federico Cesi; ma non chiedeteci di piantare l’umanità e la sua intelligenza per mimetizzarci da vegetali. L’umanità con la sua intelligenza è schiacciata tra l’incudine dell’intelligenza artificiale e il martello dell’intelligenza vegetale. Pover’uomo, soffocato nella morsa tra la pianta e il robot.

Marcello Veneziani       

Non insegnate ai bambini…

Un bambino risponde “grazie” perché ha sentito che è il tuo modo di replicare a una gentilezza, non perché gli insegni a dirlo.

Un bambino si muove sicuro nello spazio quando è consapevole che tu non lo trattieni, ma che sei lì nel caso lui abbia bisogno di te.

Un bambino quando si fa male piange molto di più se percepisce la tua paura.

Un bambino è un essere pensante, pieno di dignità, di orgoglio, di desiderio di autonomia, non sostituirti a lui, ricorda che la sua implicita richiesta è “aiutami a fare da solo”.

Quando un bambino cade correndo e tu gli avevi appena detto di muoversi piano su quel terreno scivoloso, ha comunque bisogno di essere abbracciato e rassicurato; punirlo è un gesto crudele, purtroppo sono molte le madri che infieriscono in quei momenti. Avrai modo più tardi di spiegargli l’importanza del darti ascolto, soprattutto in situazioni che possono diventare pericolose. Lui capirà.

Un bambino non apre un libro perché riceve un’imposizione (quello è il modo più efficace per fargli detestare la letteratura), ma perché è spinto dalla curiosità di capire cosa ci sia di tanto meraviglioso nell’oggetto che voi tenete sempre in mano con quell’aria soddisfatta.

Un bambino crede nelle fate se ci credi anche tu.

Un bambino ha fiducia nell’amore quando cresce in un esempio di amore, anche se la coppia con cui vive non è quella dei suoi genitori. L’ipocrisia dello stare insieme per i figli alleva esseri umani terrorizzati dai sentimenti.

“Non sono nervosa, sei tu che mi rendi così”è una frase da non dire mai.

Un bambino sempre attivo è nella maggior parte dei casi un bambino pieno di energia che deve trovare uno sfogo, non è un paziente da curare con dei farmaci; provate a portarlo il più possibile nella natura.

Un bambino troppo pulito non è un bambino felice. La terra, il fango, la sabbia, le pozzanghere, gli animali, la neve, sono tutti elementi con cui lui vuole e deve entrare in contatto.

Un bambino che si veste da solo abbinando il rosso, l’azzurro e il giallo, non è malvestito ma è un bambino che sceglie secondo i propri gusti.

Un bambino pone sempre tante domande, ricorda che le tue parole sono importanti; meglio un “questo non lo so” se davvero non sai rispondere; quando ti arrampichi sugli specchi lui lo capisce e ti trova anche un po’ ridicola.

Inutile indossare un sorriso sul volto per celare la malinconia, il bambino percepisce il dolore, lo legge, attraverso la sua lente sensibile,nella luce velata dei tuoi occhi. Quando gli arrivano segnali contrastanti, resta confuso, spaventato, spiegagli perché sei triste, lui è dalla tua parte.

Un bambino merita sempre la verità, anche quando è difficile, vale la pena trovare il modo giusto per raccontare con delicatezza quello che accade utilizzando un linguaggio che lui possa comprendere.

Quando la vita è complicata, il bambino lo percepisce, e ha un gran bisogno di sentirsi dire che non è colpa sua.

Il bambino adora la confidenza, ma vuole una madre non un’amica.

Un bambino è il più potente miracolo che possiamo ricevere in dono, onoriamolo con cura.

 

Giorgio Gaber “Non insegnate ai bambini”

 

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Solo l’amore non muore mai, e fa rivivere…

 

Se le persone che amiamo ci vengono rubate, il modo per farle continuare a vivere è non smettere mai di amarle. Le persone non muoiono mai se le hai nel cuore. Puoi perdere la loro presenza, la loro voce… ma non ciò che hai imparato da loro, ciò che ti hanno lasciato, le emozioni che ti hanno suscitato. So per certo che non perdiamo mai le persone che amiamo, nemmeno dopo la morte. Continuano a partecipare a ogni atto, pensiero, decisione che prendiamo. Ci accompagnano, non scompaiono dalle nostre vite. Siamo semplicemente in stanze diverse. E solo l’amore le rende comunicanti.

L’amore non muore con la morte. L’amore è come un liquido: quando si riversa fuori, penetra nella vita degli altri. L’amore cambia forma e aspetto. L’amore entra in tutto. La morte non vince tutto, l’amore sì. L’amore vince ogni volta. Ciò che è bello non muore mai, ma passa in un’altra bellezza: polvere di stelle o spuma di mare, fiore o aria alata.

Chandra Candiani

 

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Quando è finita la civiltà contadina?

 

 

“Abbiamo lasciata, in poco più di una generazione, una millenaria civiltà di contadini e di pescatori. Per questa civiltà che è ancora la civiltà presente nel Mezzogiorno, l’illuminazione di Dio era reale e importante; la famiglia, gli amici, i parenti, i vicini erano importanti; gli alberi, la terra, il sole, il mare, le stelle erano importanti”. Queste parole non provengono da un nostalgico sudista ma da un imprenditore del nord proiettato nell’avvenire: le pronunciò Adriano Olivetti a Pozzuoli nel 1959. Poco dopo, quella millenaria civiltà sarebbe sparita. Ma in quel tempo i contadini erano ancora la maggioranza della popolazione al sud. Chi è nato negli anni cinquanta ancora ricorda, come il sogno di un bambino, quel mondo popolato di contadini, di traini, di braccianti che vanno in piazza per essere ingaggiati; ricorda le loro case, i loro corpi piegati dalla fatica, le loro mani segnate dal duro lavoro. E poi il loro modo ruvido di essere, di parlare, di tacere, di camminare. Che fine ha fatto la civiltà contadina, ci sono ancora tracce, qualcosa riaffiora col declino della modernità industriale che ne aveva preso il posto? No, siamo passati dalla preistoria contadina alla poststoria tecno-globale; di quel mondo ora è scomparsa pure l’impronta mentale e culturale.

“Un mondo serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; quella terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive nella sua miseria e nella sua lontananza, la sua immobile civiltà su un suolo arido, alla presenza della morte”. Così scriveva un altro piemontese costretto a sud, Carlo Levi, in Cristo si è fermato a Eboli. Un ritratto tutt’altro che idilliaco di quel mondo, di cui veniva evocata la miseria. Forse i suoi occhi di confinato rendevano più triste quel mondo; ma la nostalgia a volte edulcora ricordi di una vita aspra, intrisa di amarezza e rassegnazione.

Eppure, evocando agli inizi del novecento la fine della civiltà contadina, Charles Péguy la definì “il più grande avvenimento della storia dopo la nascita di Cristo”. Una rivoluzione copernicana, dove la terra non era il pianeta ma il suolo, i suoi frutti, la sua coltivazione e i suoi abitanti col loro modo di vivere. Quel vivere comunitario in sintonia con la natura, le stagioni, i suoi ritmi, le sue benedizioni e le sue sciagure, che a volte sono assai simili, differiscono solo per quantità o per tempismo… La pioggia e il sole, benedetti e maledetti…

Nel pieno della modernità industriale ci fu chi confessò di preferire quel mondo antico che precedeva la mutazione antropologica degli anni sessanta e settanta. “È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango” -scriveva PierPaolo Pasolini a Italo Calvino – “Gli uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro, come non erano coinvolti, se non formalmente con l’Italietta. Essi vivevano quella che Chilanti ha chiamato l’età del pane. Erano cioè consumatori di beni primari, necessari alla loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita…”. Resta però da spiegare perché la rimpianta civiltà contadina sia stata così velocemente e così facilmente cancellata e i suoi stessi abitatori si siano così docilmente e avidamente consegnati alla società dei consumi.

L’età del pane è una bellissima espressione che si riferisce all’infanzia ma anche a quel mondo antico, ancora fermo all’età della fame. Il pane indica il bisogno elementare di una società povera e semplice, com’era quella fiorita intorno alla civiltà contadina. Chi è nato negli anni cinquanta al sud ricorda i bambini per strada, a volte scalzi, che stringevano in mano un tozzo di pane, con la mollica inumidita dalla loro saliva. Quel nutrimento basilare, quella dotazione delle madri ai loro piccoli raccontava una condizione di miseria appena sedata dai morsi più urgenti.

Parlando della civiltà contadina, ci siamo riferiti al sud ma abbiamo citato solo autori settentrionali. Bisogna leggere Corrado Alvaro, Elio Vittorini, Rocco Scotellaro, Tommaso Fiore e altri, per farsi raccontare da uomini del sud cos’era la civiltà contadina. Il calabrese Alvaro, per esempio, così commenta la fine della civiltà contadina: ”Non avrei mai pensato che ci sarebbe toccato vivere al tramonto di un mondo. Proprio ti chiedo scusa. Certo, é ridicolo che io ti chieda scusa del tempo, del secolo, dell’epoca, del mondo come va. Ma ognuno è responsabile del suo tempo”. Ma per Vittorini quella cultura contadina Sopravviveva sotto traccia. Scotellaro narrava lo strano impasto di schiavitù e libertà nella vita dei campi: “Ho perduto la schiavitù contadina,/ non mi farò più un bicchiere contento,/ ho perduto la mia libertà”. Per Scotellaro la cultura ufficiale “sconosce la storia autonoma dei contadini, il loro più intimo comportamento culturale e religioso” nel suo formarsi e modificarsi. Egli paragona i contadini all’uva puttanella che ha acini maturi ma piccoli che devono lottare con l’altra uva dagli acini più grandi per sopravvivere. Dove è finito quel “popolo di formiche” e di “cafoni all’inferno”, per dirla con Fiore? È come svanito, si è rifugiato nei ricordi. “Dopo l’imbrunire ci sediamo a cena, scodella tra le gambe, intorno al rosso focolare. Appena, poco prima, qualche lieve campano di vacche…gli operai si godono in silenzio il fuoco. Subito m’addormento come un bambino, per svegliarmi il domani, fra lo stesso suono di campani, come una carezza”. Il sogno della civiltà contadina.

Marcello Veneziani     

Pensiamo al futuro, ma senza esagerare…

 

Lungotermismo. La parola è brutta ma il significato è promettente, forse esaltante, comunque liberatorio. Finalmente in un’epoca tutta risolta nella fretta, nel presente, nel cortotermine senti che sta nascendo una corrente filosofica, addirittura, che ci riporta al pensare in grande e in lungo, visionaria e lungimirante. Il fatto che il pensare a lungo termine abbia attecchito in particolare a Silicon Valley e che abbia conquistato i miliardari della valle tecnologica, lo rende forse più promettente, ma già sorgono i primi sospetti. Capisci subito che non di visione del mondo e concezione della vita si tratta, non di filosofia, ma del tema solito della sopravvivenza del pianeta e quindi delle generazioni che verranno. Senti odor di Greta Thunberg, di green, di chi vuol salvare il pianeta mentre va in rovina l’uomo; anzi chi vuol salvare il pianeta dall’uomo. Aria pura senza gli umani.

Ho letto la circostanziata inchiesta di Milena Gabanelli sul Corriere.it e non ripeterò i nomi, sconosciuti a voi quanto a me, di questi veri o presunti filosofi, ricercatori e impresari. Ma sono già impressionato dai numeri: si dice che l’Homo sapiens abbia solo 300 mila anni (conosco una girandola di dati assai divergenti in merito) mentre i suddetti lungotermisti si occupano dei prossimi 700mila anni che sarebbe la prospettiva normale o naturale di sopravvivenza di una specie di mammiferi. Trovo lungimirante chi si occupa dei nostri figli e dei nostri nipoti, o della nostra civiltà misurata a millenni; ma tutto ciò che si prospetta oltre i duemila anni, che sono un po’ l’unità di misura indotta dall’avvento del cristianesimo, mi sembra perdersi nell’indeterminato. Anzi, a dirla tutta, chi pretende di occuparsi dei prossimi settecentomila anni non è previdente e premuroso ma velleitario e presuntuoso. Ma davvero noi viventi in transito siamo in grado di tutelare migliaia di generazioni che verranno dopo di noi e che secondo gli schemi tecno-progressisti saranno molto più evoluti e tecnologicamente più potenti di noi? Giù la testa, limitatevi a fare la vostra parte, accontentatevi di parlare di tempo futuro o di scommettere sull’eternità; ma non pensate di programmare l’avvenire per una milionata d’anni o poco meno. Non è cosa nostra.

Il discorso si fa più ragionevole quando viene indicato un periodo di riferimento più circoscritto: quando si dice, per esempio, che corriamo il serio rischio nei prossimi cinquant’anni di un’espansione incontrollata dell’intelligenza artificiale col rischio di espugnare, esautorare l’umano. A cui viene aggiunto il rischio di nuove pandemie e guerre nucleari. Sono pericoli reali perché non riguardano tempi per noi impensabili ma li stiamo già vivendo, si sono già manifestati. Dunque, ce ne possiamo occupare.La fine della vita intelligente sulla terra è un pericolo tutt’altro che remoto o indefinito: se deleghiamo tutto agli algoritmi, e a quella che chiamiamo erroneamente Intelligenza Artificiale mentre è un Cervello Elettronico (l’Intelligenza non è un fatto solo fisico, neurocerebrale, come invece è il cervello), rischiamo davvero di trovarci un giorno, senza rendercene conto, con la mente atrofizzata e il cervello infilato dentro una selva oscura di procedure, stimoli esterni, controlli e indirizzi venuti dalla Macchina. Torna la vena megalomane, anzi la pazzia, quando il discorso riprende la via lattea, ovvero quando i lungotermisti progettano di colonizzare altri pianeti perché qui c’è sovraffollamento: l’idea non è del tutto folle e utopistica, qualcosa si sta già muovendo, ma è così complesso programmare migrazioni planetarie di massa, traslochi popolari interstellari, che un po’ di sano e ironico realismo ci vuole per stabilire la differenza tra ciò che si può fare e ciò che si può solo immaginare. Sfamate chi oggi ha fame piuttosto che puntare tutto sulle tecnologie innovative, dice uno scienziato che tocca le corde della Gabanelli; e anche questo è bello a dirsi, più difficile a farsi ma qualcosa di concreto si può fare.

Resta inquietante la prospettiva che il destino dell’umanità sia affidato ai giganti della Big Tech, che non so fino a che punto si faranno guidare da sapienti e benefattori dell’umanità e non da aspiranti padroni del mondo. Musk è già tra i migliori, ma resta inquietante la sua pretesa di guidarci nel futuro, fin dentro il cervello; mi accontenterei che desse un supporto costruttivo a Trump per andare alla Casa Bianca e fare qualcosa di buono. Alcuni leader politici, intanto, si lasciano tentare dal lungotermismo; non vorrei malignare, ma sono tutti ex premier che una volta fuori gioco, se non diventano consulenti e conferenzieri come Billy Clinton, Tony Blair e Matteo Renzi, si mettono a giocare al Futuro e al Globale interplanetario. Alla fine mi pare che sia più saggio lo scienziato Federico Faggin, citato nell’inchiesta del Corriere, scettico sul lungotermismo, che considera “materialista” e impegnato ad accrescere il potere e il profitto dei Signori del Big Tech; e frena sull’intelligenza artificiale, di cui riconosce i grandi vantaggi ma li circoscrive in un ambito che non potrà mai sostituire l’autocoscienza, il libero arbitrio e il progetto umano. La macchina non ha etica, non ha cuore, non ha sensibilità, non ha anima e non può amare né suscitare amore né generare amando. Alla fine il pallino torna al punto di partenza, all’uomo, con la sua ricerca, la sua grandezza e i suoi limiti. E torna al nostro tempo, al nostro mondo, a noi viventi.

State contenti umana gente al quia, dice Dante, non pretendiamo di sostituirci al divino o al mistero e alle migliaia di generazioni che verranno; limitiamoci a provare la difficile impresa di salvare la nostra civiltà, l’umanità presente, con la sua cultura e la sua natura, l’intelligenza e il pensiero dai pericoli di oggi e di domani, e non tra cinquecentomila anni. Consegnamo degnamente il mondo ai nostri successori secondo tradizione; tra diecimila generazioni non è compito nostro, eccede dalle nostre competenze e facoltà. Pensare lungo, vedere ampio, ma senza pretese milionaristiche, esagerazione iperbolica del millenarismo. Quando vedo la terra nello spazio come una briciola dispersa nel cosmo, mi casca il mondo; e a nostra volta siamo briciole disperse dentro quella briciola di pianeta, non possiamo pretendere di guidare l’universo e fare programmi per il prossimo milione d’anni. Facciamo la nostra parte, fino in fondo, lasciamo le nostre tracce, preoccupiamoci del mondo che lasceremo ai nostri figli e nipoti. Al resto, se ci credi, ci pensa Dio. Il destino è più grande della nostra volontà.

Marcello Veneziani      

“Non rifiutare i sogni” .

“Non rifiutare i sogni” è una poesia di rara intensità, che trasmette al lettore il potere del sogno come mezzo per guardare alla vita in modo differente, quasi come una parola magica in grado di riplasmare le nostre esistenze.

“Non rifiutare i sogni”
Non rifiutare i sogni in quanto sogni.
Tutti i sogni possono
esser realtà, se il sogno non finisce.
La realtà è un sogno. Se sogniamo
che la pietra è la pietra, quello è la pietra.
A correre nei fiumi non è un’acqua,
ma è un sognare, l’acqua, cristallino.
Maschera i propri sogni
la realtà e dice:
«Io sono il sole, i cieli, l’amore».

Mai però se ne va, mai si allontana,
se fingiamo che sia più d’un sogno.
E viviamo sognandola. Sognare
è quel modo che l’anima
ha per non farsi mai sfuggire
quel che le sfuggirebbe se smettessimo
di sognare che è vero quello che non esiste.
Solo muore
un amore se non è più sognato
fatto materia e che si cerca in terra.

Pedro Salinas

La poesia “Non rifiutare i sogni”, ci invita a sognare,a non rinnegare i nostri sogni solo perché possono sembrare astratti e fantasiosi, a non averne paura, ma a lasciarci catturare dalla loro magia.Se la natura è un sogno ,lo stesso vale per la vita; infatti secondo Salinas “Tutti i sogni possono esser realtà, se il sogno non finisce. ”
Dobbiamo credere in ciò che la nostra mente crea quando sogniamo, in modo che il sogno si concretizzi nella realtà: un po’ la stessa visione cantata nella fiaba di Cenerentola “I sogni son desideri / di felicità”. La dimensione onirica del sogno si fonde con la natura nei versi di Salinas “Se sogniamo che la pietra è la pietra, quello è la pietra.
A correre nei fiumi non è un’acqua, ma è un sognare, l’acqua, cristallino. ” Ciò sta a comunicare il fatto che non ci sia nulla di più concreto che sognare, una condizione che si manifesta già a partire dagli elementi naturali che ci circondano.

Sogniamo ciò che vorremmo accadesse, sogniamo ciò che amiamo e desideriamo, sogniamo ciò che di bello ci circonda in natura. La dimensione onirica ci aiuta a capire cosa davvero cerchiamo nella vita e, allo stesso tempo, può aiutarci a realizzarlo.

Un sogno d’amore
“Sognare
è quel modo che l’anima
ha per non farsi mai sfuggire
quel che le sfuggirebbe se smettessimo
di sognare che è vero quello che non esiste”.

Pedro Salinas ci insegna che sognare è un movimento dell’anima, è un ciclo ininterrotto di potenza e atto, di rincorsa di desideri e della loro realizzazione, di amori incompiuti che plasmano mondi per non smettere mai di sognare, e di amare.

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Elon Musk, il messia inquietante …

 

 

Mostra coraggio e magari suscita simpatia il baldanzoso Elon Musk che contro tutto e tutti sostiene Donald Trump e scende al suo fianco per la riconquista della Casa Bianca. Desta ammirazione il suo schierarsi contro l’establishment, il mainstream e la sinistra globale. E agli italiani di centro-destra piace il suo feeling con Giorgia Meloni, fino a sospettare una love story. La prova galeotta è tutta in una foto in cui Giorgia guarda rapita dal basso, coi suoi occhioni da fiaba, il prode Musk. In sintesi, Melon Musk.Ma accanto al Musk che si schiera nella contesa politica del presente, c’è un Elon che si occupa del futuro con l’idea di cambiare l’umanità passando al transumano, conquistare lo spazio, trasferire all’intelligenza artificiale attività che sono finora state appannaggio e segno dell’intelligenza umana e naturale. Fino a promettere un’artificiale immortalità biotech. Eccolo il Musk ardimentoso navigatore dello spazio alla conquista di Marte e dei pianeti più remoti; eccolo il Salvatore del mondo dal disastro planetario attraverso un patto faustiano in cui l’umanità muta corpo, anima e mente per attraversare le tempeste; eccolo, l’ intrepido mago Elon ricercare l’elisir di giovinezza perenne, modificando geneticamente e bionicamente l’umano e il naturale. “Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare. E guarirai da tutte le malattie”, cantava Franco Battiato ne la Cura; Elon Musk pensa di farlo sul serio…

Fascinoso e tremendo, non c’è che dire, se non è velleitario e illusionista. Quando un uomo, da solo, promette di sostituirsi al Destino o al Divino, alla Natura e ai suoi limiti, senti odore di sovrumanismo, cioè di Nietzsche in versione tecnologica. Chi disporrebbe delle chiavi di questa mutazione, chi sarebbe il regista, dove andrebbe a parare un progetto del genere e in mano a chi? A che punto è il progetto muskiano che prevede la connessione tra gli smartphone, i dati digitali e la corteccia cerebrale, creando una vera e propria telepatia, un flusso costante tra l’uomo e la macchina? Fu battezzato Neural Lace, una specie di bluetooth neuronale in cui collegare il cervello ai pc, cioè all’intelligenza artificiale. Ciò procurerebbe un’espansione infinita di memoria e di dati a disposizione; ma che fine farebbero la mente umana, l’anima, l’identità di un soggetto, ridotto a essere un porto in cui approdano e salpano dati, quasi una stazione postale di passaggio? Se a coltivare il suo sogno è un visionario solitario, un poeta o un ricercatore nel suo laboratorio, resta nell’alveo innocuo della letteratura o nell’ambito cauto della sperimentazione. Ma se a promettere il cambiamento è l’uomo più ricco del mondo, un imprenditore di grandi marchi in ambiti disparati e interconnessi, che dispone di un impero nel campo dei trasporti, delle comunicazioni, della ricerca scientifica e neurologica, delle imprese spaziali, allora il discorso prende una piega diversa, anche pericolosa.

Musk, secondo Forbes, è l’uomo più ricco del mondo, padrone di una compagnia aerospaziale, di una compagnia automobilistica, di Twitter che ha ribattezzato X, dispone di sistemi di trasporti spaziali avveniristici, di laboratori all’avanguardia nell’intelligenza artificiale e nella neurotecnologia che, secondo le leggende fiorite in questi ultimi anni, puntano a immettere nel cervello un chip che può servire sì per correggere malformazioni anche gravi ma può anche ridurre gli umani ad alieni, totalmente eterodiretti, telecomandati. Anche al di là delle sue intenzioni, il progetto potrebbe sfuggirgli di mano, come all’apprendista stregone. Facile l’ironia del tipo Fascisti su Marte, ma qui c’è poco da scherzare. Tanto più che non parliamo di imprese compiute da stati e unioni di stati, organismi e alleanze internazionali, ma da un singolo Prometeo scatenato. Chi ci assicura che il suo progetto titanico non sia al di là del bene e del male, mosso dalla volontà di potenza che facilmente degenera in delirio di onnipotenza? Dove finirebbero la Natura e l’Umano, coi loro limiti e le loro identità, la cultura, la religione e la tradizione? Dove finirebbe l’anima, che lui definisce la traccia digitale lasciata da un essere umano e riducibile a dati scaricabili e trasferibili; che posto avrebbe la nostra vita spirituale e la nostra intelligenza critica in questa ebbrezza tecnologica ed escatologica? E sul piano politico è compatibile questo suo progetto col mondo conservatore a cui si rivolge negli States come in Italia? Vero è che è esistito il filone del “modernismo reazionario” descritto da Jeffrey Herf ma ciò non dissipa l’inquietudine, anzi…

Il precedente nostrano è il futurismo. In un romanzo scritto nel 1909 in francese da Filippo Tommaso Marinetti, Mafarka il futurista, il protagonista vuole creare l’uomo nuovo, sogno condiviso nel primo novecento da americani, russi e italiani, cioè capitalisti, comunisti e fascisti. E lo vuole creare “senza il concorso e la puzzolente complicità della matrice della donna”, ma con l’ausilio delle macchine. Visionario anche lui, ma era solo letteratura.

Insomma, come comportarsi con Musk e i suoi progetti? Torno a terra e ricorro alla saggezza contadina. Gloria, una prode maremmana che coltiva la terra, usa un verbo antico delle sue parti: bisogna scattivare la frutta e la verdura, cioè eliminare le parti brutte o marce. Così bisognerebbe fare con la tecnologia. Si dovrebbe “scattivare” Musk e il suo progetto… Ma chi sarebbe in grado di farlo, oltre Gloria?

 Marcello Veneziani  

L’Occidente, le armi e il nulla…

 

 

L’Occidente ha distrutto le basi su cui è poggiato: la cristianità, lo Stato sovrano, la civiltà del diritto, il pensiero critico e la storia. Non è più la guida del mondo, è disfattista al suo interno e bellicoso all’esterno, crede di salvarsi con la forza delle armi e l’uso intermittente dei diritti dei popoli e delle nazioni. Ha perso l’intelligenza del reale, la capacità di capire il mondo e la vita, abdicando in favore di un individualismo radicale asservito alla tecnica e alla finanza. Ha perduto il pensiero critico che sa distinguere e il pensiero fondativo che sa generare.
Ho letto e condiviso La sconfitta dell’Occidente di Emmanuel Todd, edito da Fazi, e ricaverò dalla sua impietosa analisi alcuni spunti decisivi per comprendere lo stato delle cose. Todd è uno storico, antropologo e sociologo francese, autore di libri importanti.
Infilarsi nel conflitto russo-ucraino e anzi favorirlo, appoggiarlo, parteciparvi è stato per Todd l’errore fatale dell’Occidente; la Russia è rimasta stabile, non cederà sull’Ucraina, che sta perdendo, come ha avuto il coraggio di dire Viktor Orban al Parlamento europeo. Appiattita sulla Nato e sugli Stati Uniti l’Europa sta offrendo lo spettacolo di “un suicidio assistito”. Mentre il resto del mondo preferisce sempre più chiaramente la Russia all’Occidente ai piedi degli Usa. Todd fa un paragone storico interessante: “la Russia comunista aveva trovato un alleato nel proletariato occidentale, quella divenuta oggi conservatrice troverebbe ancora i propri alleati nelle classi operaie dell’Occidente, divenute anch’esse conservatrici (più che populiste o di estrema destra)”. L’asse Washington-Londra-Varsavia-Kiev è oggi la direttrice principale del potere americano in Europa. Inoltre, a suo parere, l’opera di macelleria compiuta a Gaza dallo Stato d’Israele, soprattutto con armi americane, e accettata dall’Europa, ha spinto l’intero mondo islamico, Turchia e Iran inclusi, dalla parte dei russi. Per non dire degli altri fronti aperti. Todd sottolinea che “l’immoralità dell’Occidente di fronte alla questione palestinese non ha fatto altro che rafforzare l’ostilità del Resto del mondo”.
L’Ucraina che l’Occidente vorrebbe adottare, con la sua indipendenza nel 1991 – dopo secoli di appartenenza alla Russia prima zarista e poi sovietica- aveva perduto già prima della guerra milioni di abitanti per via dell’emigrazione, dominata dagli oligarchi e dalla corruzione, al punto da sembrare un paese in vendita con un potere che elimina il dissenso, la stampa non allineata e i gerarchi caduti in disgrazia con metodi non migliori di quelli russi. La scomparsa della nostra capacità di concepire la diversità del mondo, nota, ci impedisce di avere una visione realistica della Russia.
Osserva Todd che l’ipotesi di una ripresa militare-industriale degli Stati Uniti è da escludersi in forza della scarsità di ingegneri a loro disposizione, rispetto ai russi (e ai cinesi) e per la loro predilezione per la produzione di denaro anziché di macchinari.
Il collasso morale e sociale deriva a suo dire dal collasso del protestantesimo, che rende irreversibile il declino americano e apre gli Usa e l’intero occidente al destino del nichilismo. Da allievo di Max Weber osserva che se il protestantesimo è stato la matrice del decollo dell’occidente e del capitalismo, ora è la sua morte a causarne la dissoluzione.
Intanto lo stato-nazione si dissolve e trionfa la globalizzazione; gli individui sono ormai privi di qualsiasi credenza collettiva. Il collasso della religione ha spazzato via il sentimento nazionale, l’etica del lavoro, il concetto di una morale sociale vincolante, la capacità di sacrificarsi per la comunità. Todd distingue altre fasi prima di giungere allo “stadio zero” della religione dove i valori non contano più e ne attesta l’avvento attraverso l’osservazione di pratiche cadute velocemente in disuso nei battesimi, nei decessi, nella partecipazione alle funzioni domenicali, ma soprattutto con l’equiparazione tra i matrimoni omosessuali e quelli tra uomo e donna.
Ci era stato prospettato che l’individuo sarebbe stato più grande una volta liberato dal collettivo e dai legami sociali; invece è accaduto il contrario: l’individuo, dice Todd, può essere grande solo all’interno e attraverso una comunità. “Stiamo diventando una moltitudine di nani mimetici che non osano più pensare con la propria testa ma che si dimostrano capaci di intolleranza tanto quanto i credenti di un tempo”. Ci è rimasto il bigottismo intollerante, non l’uso dell’intelligenza critica.
Attualmente, rileva Todd, l’Europa si trova impegnata in una guerra contraria ai suoi interessi e autodistruttiva; l’Unione Europea è scomparsa dietro la Nato, oggi più che mai asservita agli Stati Uniti, con un tasso di ubbidienza prossimo al 100%, in un clima totalitario. La Russia, nota, non rappresenta alcuna minaccia per l’Europa occidentale: in quanto potenza conservatrice, oggi come ai tempi del Congresso di Vienna, nel 1815, il suo desiderio è di creare una partnership economica con l’Europa, in particolare con la Germania. È nel suo interesse avere una sponda europea.
L’Unione appare a Todd un sistema pesante e complesso, ingestibile e letteralmente irreparabile; “il lato oscuro del desiderio sarebbe che la guerra liberasse l’Europa da se stessa”. Del resto, una nazione è un popolo reso cosciente da un credo collettivo e una élite che lo governa in base a tali convinzioni. Restano solo i popoli. E conclude notando che nell’era della religione zero, cresce un bisogno primario di violenza. Da qui la diagnosi che ho inevitabilmente riassunto: l’Occidente è affetto da nichilismo che è rifiuto della realtà, bisogno di distruzione di sé e degli altri, negazione della verità e di ogni comprensione ragionevole del mondo. L’analisi è tranchant, forse troppo, anche se supportata da molti dati e da argomentazioni convincenti.
A mio giudizio non si tratta di tornare indietro, impresa impossibile, e nemmeno di arrendersi ai regimi autocratici, teocratici e dispotici, e adattarsi ai loro inaccettabili modelli. Si tratta, invece, di pensare il nuovo, il sacro, la sovranità, il legame sociale, a partire dal rapporto tra élite e popolo, con le prime ormai ridotte a oligarchie autoreferenziali e i secondi a massa globale.
E di darsi una missione, compatibile con la realtà e le eredità della civiltà.
“La sconfitta dell’occidente” di Todd rischia di rientrare nel fiorente filone apocalittico che da un secolo a questa parte annuncia il tramonto dell’Occidente. Ma aiuta al risveglio brusco dal sonno della ragione, che genera mostri e spinge l’avanzata del nulla in Occidente. Il nulla armato.

Marcello Veneziani  

Meglio le omissioni della memoria…

 

Più si sfugge al memoir, più il memoir ti insegue, dico io.
Viva i ricordi! Risponde un mio amico. Lui tifa per l’autofiction, perché manda in pezzi la questione del vero e del falso.
Meglio i segreti e le manomissioni della memoria, ribatto io. Non so se è per una perdita di fiducia rispetto al privato e ai ricordi o per il bisogno di smontare entrambi, ma per me l’invenzione è ancora una possibilità e quando sfocia nel fantastico diventa traguardo. Irreale e nonsense permeano la mia infanzia, e uso un tempo presente non a caso, perché se ne fregano dell’età adulta. Sono il codice che ancora guida i dialoghi con mia sorella. Nel mondo dove ci incontriamo le persone diventano personaggio. In un batter d’occhio sono sopraffatte da una caratteristica che ci colpisce, ne divengono succubi. Non pensate a nulla di speciale, basta un accento storto nel modo di poggiare le sillabe, un ciondolare la testa guidando. Da lì parte la storia. Devo scrivere un pezzo per «Futura», le dico. A mia sorella intendo.
Racconta di quando papà in ospedale ha detto alla sua prima figlia che tu non esistevi, propone tutta entusiasta. Da noi i ricordi sono souvenir divertenti. Li sfogli come nei piccoli libricini di disegni che lasci scorrere veloce tra il polpastrello e l’indice. Sono favola, anzi, sono fumetto. Ripetuti, intatti, senza tempo. Eccola spingermi nel memoir, quando io dal memoir sfuggo.
Che pizza che sei, esclama e ritenta: Allora racconta una bugia, una di quelle che ci hanno detto e che è diventata vera. Stufa di convincermi, si tuffa in acqua. Sole, così si chiama mia sorella, nel memoir ci vive, ci ha fatto pure un film. Ora è ferma vicino alla boa. Si sbraccia perché è apparso l’uomo-pesce. È un tipo filiforme che passa quattro ore al giorno a camminare in acqua, senza mai uscire. Pianta l’ombrellone e lo lascia solitario ad attenderlo. Cappello e braccia a fiaschetta viaggiano lungo l’orizzonte marino avanti e indietro, fino al tramonto.  Sulla riva il nostro cane abbaia. Non ha intenzione di venirci a salvare, poi si immerge, spingendo il muso a pelo d’acqua per insultarci. Lei, il cane, ha una lingua strafottente. Parlano così gli animali e i peluche della nostra infanzia. Sono duri dal cuore tenero, scorretti per partito preso, con un alfabeto da eroi western. Il peggiore è l’orso, dotato di immensi poteri. È stato lui a insegnarci la regola aurea: il dolore è dietro l’angolo e la vita è una combinazione dinamica di sogno e delusione.
Parlare così a due ragazzine, si fa? Parrebbe di sì.
Lui, come gli altri, si presenta al mondo attraverso le nostre parole, in una sorta di ventriloquia perpetua. Se tutto ha coscienza della sua identità e ha un linguaggio per dirsi, persino il cane e il pupazzo, tu chi sei? Nella mia scrittura è guerra aperta tra parola e intimo, e la fuga dal memoir è continua. Mi pare di averlo già detto. Preparo un corso di storytelling e lo intitolo: La verità è ancora desiderabile? Looking-glass self. Una bella definizione per raccontarsi, ma qui il vetro è opaco. Il mio privato è una storia che sciopera. I ricordi sbattono sul mio muso ed io li invito a cambiar rotta. La scrittura che frequento si è sviluppata tra due estremi. Sono un uomo e una donna, piuttosto belli. Uno taceva fin troppo, libero di abitare tutti i mondi a sua disposizione. Taceva al punto che in fin di vita – pur di negare l’evidenza – dice a una donna: qui non c’è nessuno. Il nessuno sono io che gli tengo la mano. Dall’altro capo c’è una lei che inventa un quotidiano dove verità e bugie godono dello stesso status. Nel suo finale, lei rivendica quella narrazione con un’epigrafe: ho fatto tante sciocchezze, ma che bella vita! Ecco tra questi due estremi c’è la parola, la mia. Una parola che latita sul personale e insegue le storie degli altri. Il linguaggio è il brodo primordiale che definisce loro e un po’ definisce me .«Futura» si chiama questa newsletter. A me interessa la giovinezza come la frontiera personale da cui ci si affaccia incontrando lo sguardo del mondo ed il proprio. E non si sa nulla dell’uno e dell’altro.
Piacere si dice, e ci si presenta, neanche tanto certi di piacersi. L’invenzione rende lo sguardo di un personaggio così elastico che puoi trascinarlo all’altro capo del tempo, tenderlo come un arco e, al momento finale, scrivere: che bella vita. È quello che accade a Nicaredda, il protagonista del mio libro, un tipo che da niente ha disegnato il mondo.

Vanessa Tonnini

Vanessa Tonnini è in libreria con “Grammatica di un desiderio” (Neri Pozza)

 

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