Il bello di dubitare e quelle certezze che fanno paura…

 

Odio le certezze, non perché non ne abbia alcuna, ma perché, oggi, pare che solo chi è perentorio sia degno di attenzione e di stima. Odio i punti esclamativi, non perché non li utilizzi mai, al contrario, ci sono cose che vanno dette e ripetute, e l’unico modo per farsi ascoltare, talvolta, è alzare leggermente il tono della voce, ma oggi se ne abusa, chiunque si sente in dovere di dire la sua, e i post e i tweet sono un susseguirsi di maiuscole e punti esclamativi. Odio l’assenza di dubbio, non perché si debba sempre e solo dubitare, ma perché senza dubbi il pensiero non evolve; senza dubbi ci si incastra nel presente e si cancella qualunque alterità. Oggi, sembra che le sfumature siano un indice di superficialità, mentre la superficialità si esprime nelle prese di posizione nette, quando ci si illude che il bene sia tutto da una parte e si ignorano le zone grigie della verità, quella che non è fatta solo di “sì” e “no” – non credo che sia questo il messaggio del Vangelo – che spesso e volentieri si cita a casaccio intimando a chi ci è di fronte di schierarsi da una parte oppure dall’altra: «non è possibile restare in mezzo, devi schierarti! Devi decidere!! Devi scegliere!!!». Il “sì” e il “no” del Vangelo non spingono al fanatismo, suggeriscono solamente la necessità di agire in accordo con le parole, il bisogno di non contraddire quello che si dice con ciò che si fa. È una questione di onestà, ancor più che di coerenza, visto che nessun essere umano può essere coerente da cima a fondo, siamo tutte e tutti attraversati da un desiderio opaco. Un tempo lo si sapeva e lo si insegnava che il cuore pulsante del pensiero era nei punti interrogativi. Come il Professor Bellavista, l’alter ego di Luciano De Crescenzo, che dopo aver disegnato alla lavagna un punto esclamativo e un punto interrogativo si rivolge ai suoi alunni e alle sue alunne e spiega: «Quando voi incontrate una persona che ha dei dubbi state tranquilli, vuol dire che è una brava persona, vuol dire che è democratico, che è tollerante, quando invece incontrate quelli che hanno le certezze, la fede incrollabile, e allora statev’ accuort, vi dovete mettere paura, perché ricordatevi quello che vi dico: la fede è violenza, la fede in qualsiasi cosa è sempre violenza». E, ovviamente, non si tratta di scardinare la morale o di contestare la fede religiosa, ma di educare al rispetto e mettere in guardia dai fanatismi, che sono da sempre all’origine delle guerre e dei massacri, e che nonostante le tragedie del passato ci spingono talvolta a riprodurre gli stessi errori. Il pensiero nasce sempre dal dialogo e dal confronto: si cambia idea e si fanno progressi, e il fatto di modificare il proprio punto di vista è sempre un sinonimo di intelligenza e di sensibilità. Peccato che le incertezze e le sfumature, oggi, non vadano di moda, e che persino il non reagire immediatamente di fronte a un evento venga letto come indifferenza o codardia, mentre di coraggio ce ne vuole tanto per riflettere, e la vera indifferenza è quella che spinge a schierarsi senza alcun indugio, subito prima di passare ad altro: tanto la mia l’ho detta, che bisogno c’ho di rifletterci ancora?

Michela Marzano,La STAMPA

dubbio

Non era così brutta l’Italia del dopoguerra. No era bellissima…

Ma era così brutta, odiosa e maschilista l’Italia dell’immediato dopoguerra, quando c’erano ancora i soldati americani per le strade?
Ho visto il film di Paola Cortellesi, C’è ancora un domani, che primeggia nelle sale e gode di giudizi largamente positivi. Confesso che da amante del cinema sto diradando la mia assidua frequentazione delle sale perché non riesco a sopportare più gli ingredienti obbligati che dominano i film e li rendono scontati, stucchevoli. Non c’è storia di vita e d’amore che non ruoti intorno al gender, al femminismo e all’omosessualità, o che ne abbia almeno una dose d’obbligo; non c’è storia di popoli che non ruoti intorno al razzismo, al vittimismo o che non abbia almeno una figura positiva di nero, di arabo, di immigrato; non c’è film di guerra che non ruoti intorno al male nazista o contro il fascismo; tutto il resto della storia è cancellato. E potrei continuare. Non c’è evento storico, personaggio famoso, artista o scienziato, che al cinema non sia ripassato in padella attraverso quei canoni obbligati, a volte assommandoli tutti.
Il film della Cortellesi già in partenza mostrava alcuni di questi requisiti ma era piaciuto ad amici e familiari e ciò mi ha spinto a vederlo. Confermo che è un bel film, ben fatto e ben interpretato. Salvo qualche luogo comune sui maschi, sulle donne, sui neri (il soldato americano buono è naturalmente nero). Quel che critico è la riduzione del passato a uno schema manicheo secondo un pregiudizio del presente. Si può davvero rappresentare quel tempo, quel mondo, quell’umanità attraverso la storia di un marito violento che mortifica sua moglie, in una società patriarcale e maschilista in cui le donne devono tacere e sono considerate inferiori? Quel mondo, quella generazione è quella dei nostri padri, delle nostre madri, dei nostri nonni. E non erano dei mostri, anzi. Che in quella società avesse una forte preminenza maschile il pater familias, è vero e le ragioni sono antiche e comprensibili: quando era il padre a portare i soldi e il pane a casa, quando i maschi andavano in guerra e avevano la responsabilità delle famiglie, la società reggeva su quella divisione di ruoli e di gerarchie. La famiglia era una piccola monarchia. Anche se non mancavano famiglie matriarcali, in cui era la donna a guidare la famiglia e il marito. Quel modello maschile rispondeva allo spirito del tempo, alla situazione reale, ed era vissuto in larga parte in modo consensuale, e non solo per rassegnazione. Per un marito che malmenava e umiliava la sua donna, c’erano dieci padri e mariti premurosi che si sacrificavano per la famiglia, come le madri; in cui era saldo l’amore, la dedizione, il riconoscimento reciproco; gran parte delle famiglie non reggevano sulla paura del padre. Le donne, andando meno a scuola, al lavoro, in pubblico, erano su un piano inferiore rispetto ai maschi. Poi le condizioni sono cambiate; di quel mondo abbiamo perso alcune odiose disparità e certi deplorevoli vizi ma abbiamo perduto anche generosità, doti e virtù. Quella era una più viva umanità, con legami più forti e più duraturi, non solo per necessità; un senso della famiglia e della comunità; c’era un’energia vitale, una forza di vivere, una gioia per le minime cose, un’aspettativa di domani che oggi non abbiamo più. Quando ci confrontiamo col passato non dimentichiamo che dobbiamo calarci in un periodo storico che aveva altri termini di paragone. E dobbiamo saper riconoscere quel che abbiamo guadagnato ma anche quel che abbiamo perduto rispetto a quel tempo. Nell’immediato dopoguerra c’era una voglia di vivere, la passione di costruire, far nascere, che oggi non abbiamo più. L’umanità non era fatta solo di mariti violenti, di parassiti, di “cravattari”(usurai), di cafoni arricchiti in modo disonesto, di puttanieri, come ce li rappresenta il film, salvo alcune figure virtuose (tutte donne, naturalmente, oltre il soldato di colore). E poi, per la verità storica, le peggiori violenze che subirono le donne in quegli anni non furono in casa ma per strada. Pensate alle migliaia di donne “marocchinate”, cioè stuprate dai soldati di colore delle truppe alleate; o pensate all’orrenda prostituzione per fame di mogli, madri e figlie anche minori, narrata da Curcio Malaparte ne La Pelle o descritta nel diario Quasi una vita di Corrado Alvaro, ora ristampato.
Il film dà al voto alle donne per la prima volta il significato di una liberazione e una svolta epocale. Vorrei ricordare che il voto alle donne fu determinante per sconfiggere il fronte progressista e socialcomunista, perché le donne votarono in larga maggioranza nel nome di Dio e del parroco, alla Democrazia cristiana. E in alcune zone d’Italia, soprattutto al centro-nord, la prima trasgressione delle mogli rispetto ai loro mariti fu il loro voto cattolico, familista e conservatore rispetto ai mariti che votavano per Baffone (Stalin era il loro mito) e per la sinistra socialcomunista.
Vorrei poi far notare che quella società così maschilista registrava meno femminicidi di quella odierna: dopo tutta l’ondata di femminismo, parità delle donne, lotta contro le violenze alle donne, il risultato è davvero scoraggiante.
Insomma, un film è un film e non un saggio storico o un trattato sociologico e antropologico, è inevitabile che racconti una storia particolare da un punto di vista particolare. Ma è sconfortante che il punto di vista sia sempre lo stesso e i casi raccontati siano sempre in quella direzione.

 Marcello Veneziani                                                                                                         

Dopo il tramonto è sera ad Occidente…

Il tramonto dell’Occidente è alle nostre spalle. Viviamo ormai da tempo la sera dell’Occidente, e cresce il timore della notte che verrà. L’invasione russa in Ucraina, il conflitto in Israele e Palestina, e la percezione netta che il pensiero dominante in Occidente – che pure si configura come Pensiero Unico e globale sia in realtà minoritario nel mondo – accrescono la sensazione di un Occidente assediato, circondato e isolato.
L’Occidente vede all’orizzonte, oltre la minaccia islamista, inquietanti ombre cinesi e persiane, turche e russe, flussi migratori arabi e africani; avverte che pure l’Organizzazione delle Nazioni Unite, l’Onu, non sincronizza i suoi pensieri con l’orologio occidentale e non ne condivide le linee e i canoni. Persino nella Nato il pronunciamento di Erdogan su Israele, ha infranto la compattezza dell’Alleanza militare e mostra una larga crepa sul fronte medio-orientale.
Quel che dalle nostre parti si giudica come un attacco all’Occidente è percepito in modo opposto nel resto del mondo; la mobilitazione antirussa per l’Ucraina riguarda l’Europa e gli Stati Uniti ma non il mondo e le superpotenze asiatiche. E così per Israele, il resto del mondo non condivide la posizione filoisraeliana dei governi occidentali.
Il mondo ha una visuale diversa rispetto a quella occidentale, ha priorità e giudizi differenti, ma soprattutto ha interessi geopolitici, economici e strategici opposti. L’annuncio del Nuovo Ordine Mondiale con cui si aprì la nostra era, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la crisi del Golfo, è ormai un ricordo sepolto nel passato, oggi improponibile. L’idea che gli Stati Uniti siano i gendarmi del mondo, la Superpotenza che stabilisce il diritto e la sua negazione, che sancisce la linea di confine tra stati canaglia e stati democratici, è ormai largamente rifiutata e superata. Ogni pronunciamento euro-americano s’infrange rispetto ai quattro quinti del pianeta, a partire dal Brics, la famosa intesa tra Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica che in realtà è già estesa di fatto a una trentina di paesi.
Dire Occidente è una categoria approssimativa se non sbagliata, perché significa non considerare già in casa propria il cammino divergente della sua parte più popolosa, l’America Latina; dal Brasile alle tentazioni populiste e peroniste, sono forti i conati AntiUsa nel sud America. L’Occidentalizzazione del mondo di cui scriveva Serge Latouche pochi anni fa è ormai nel suo girone di ritorno; dire globalizzazione oggi vuol dire più asiatizzazione dei mercati e africanizzazione dei popoli che estensione del modello americano-occidentale al pianeta. Resistono “isole” ancora legate al mondo occidentale, come il Giappone e l’Australia; ma alla fine quel che ci ostiniamo ancora a considerare come lo Spirito del Mondo e lo Spirito del Tempo (Zeitgeist e Weltgeist) in realtà riguarda solo l’America del nord, il Canada e l’Europa. Una fetta minoritaria del pianeta, un abitante su dieci.
C’è da chiedersi se l’aver interpretato l’invasione in Ucraina e il conflitto in Israele come attacchi all’Occidente, siano stati un segno di lucida prevenzione o un grave errore strategico, militare e politico. Perché l’attacco all’Ucraina, in realtà, è stato un tentativo della Russia di riprendere il controllo della sua antica area imperiale d’influenza, senza insidiare l’Europa o minacciare l’Occidente; semmai temeva che le basi Nato puntate dall’Ucraina sui suoi confini fossero al contrario una minaccia per Mosca. E l’attacco sferrato da Hamas contro Israele non è nato come l’attacco dell’Islam all’Occidente; rischia di diventarlo adesso, dopo il pronunciamento netto degli Usa e dell’Europa a fianco d’Israele, anziché porsi come garanti del diritto dei due popoli ai due stati e la ferma condanna degli orrori e degli stermini ai danni delle popolazioni civili di ambo le parti.
La dichiarazione ripetuta che l’invasione dell’Ucraina come il massacro d’Israele fossero due attacchi all’Occidente acuisce anziché frenare la tensione antioccidentale del mondo; ci dichiara già schierati, cobelligeranti, in attesa di esserlo a tutti gli effetti.
Dall’altra parte, cresce all’interno dell’Occidente una spina nel fianco sempre più lacerante. Prendendo lo spunto dalla sacrosanta istanza di difendere il diritto alla vita di tutti i popoli, la pace e l’umanità, il movimento che scende in piazza contro Israele rischia di diventare un nemico interno dell’Occidente, rafforzato da migranti arabi e neri radicalizzati che inneggiano ad Hamas e all’anticolonialismo. Anche perché questo movimento che si dichiara pacifista e umanitario trae spunto dall’ideologia del disprezzo e della vergogna per la nostra civiltà occidentale, alimentata dai tanti cavalli di Troia: Woke, Black lives matter, cancel culture e tanto odio per la nostra identità, storia, tradizione e religione.
Così l’Occidente dichiara guerra preventiva alle ombre sparse nel mondo, mobilita la fabbrica dell’informazione e della propaganda per dotarsi di un racconto unilaterale; ma patisce al suo interno questa spinta masochista e antioccidentale, sotto le bandiere del pacifismo umanitario.
Così viviamo il paradosso occidentale che mentre va perdendo la sua civiltà e identità, si fa inclusivo e rigetta i suoi stessi confini, pretende poi di difendere il suo ruolo e la sua potenza arbitrale nel mondo. Una specie di Occidente artificiale, come l’intelligenza, privato ormai di una consistenza di civiltà, che vede nemici dappertutto meno quelli che crescono dentro, in casa propria. Ecco l’Occidente a cui “si fa notte innanzi sera”.

Marcello Veneziani                                                                                                                

Generazione Z ragazzi orfani della famiglia…

 

Come non condividere un articolo come  questo, quando si è attenti ai nostri giovani ragazzi, che vediamo crescere senza quell’entusiasmo della gioventù, che per moltissimo tempo , ha caratterizzato , prima i nostri occhi, ormai vecchi e stanchi, quelli dei nostri figli che volevamo tutti avessero una vita migliore di chi aveva passato la guerra, noi.  Tuttavia con sforzo e determinazione siamo riusciti a vivere il periodo migliore dell’Italia ed ora siamo preoccupati per i nostri nipoti e pronipoti.

Gen Z

Generazione Z ragazzi orfani della famiglia

Da la STAMPA

 

Identità, tradizione e negazione (spunti della relazione tenuta a Radici, festival dell’identità, da Marcello Veneziani)

 

L’identità è un bisogno radicale dell’animo umano. Un bisogno naturale e culturale, personale e comunitario, su cui si fonda il riconoscimento di sé e il rispetto dell’altro; vale anche l’inverso. Non c’è dialogo che non avvenga tra identità differenti; chi pretende di dialogare mettendo da parte se non addirittura cancellando le identità, rende inutile e impossibile il dialogo; non può esistere infatti un dialogo tra nientità neutre, intercambiabili.
L’epoca che stiamo vivendo è invece protesa a deprimere e vanificare le identità, a considerarle d’ostacolo alla pace e all’inclusione, residui tossici e contundenti di una chiusura al mondo. È un bombardamento dell’identità così vasto, costante e capillare; dall’alto, dall’interno e dal basso. Una cappa di obblighi, emergenze e disposizioni calata dall’alto, un’infiltrazione continua di modelli d’influenza ostili attraverso i media e le istituzioni, e un’affluenza massiccia di flussi migratori che producono alienazione, tensioni e disagio.
Il triplice attacco all’identità produce reazioni ostili di tre tipi principali: un rifugio introverso nel proprio habitat, un atteggiamento di rabbia e scontentezza verso l’esterno, una richiesta di protezione securitaria e insieme di rappresentazione identitaria. E’ quel che sta accadendo nel mondo, in Occidente, in Italia. Larga parte dei conflitti e del malessere che attraversano le società deriva dall’identità in pericolo, il mancato riconoscimento e rispetto di ciò che siamo, la desertificazione delle differenze, la vertigine del mondo globale e spaesato.
L’identità, tuttavia, non è inerte, solida come un macigno e inamovibile. L’identità entra nella storia, ed è comunque un essere nel divenire; il fluire dell’identità si chiama tradizione, che è un trasmettere in cui persistenza e duttilità cercano un punto di equilibrio. L’identità non presuppone un mondo immobile ma una società che sa mutare, ricordare, far tesoro dell’esperienza e del patrimonio ereditato ma anche affrontare le sfide del futuro. La tradizione non è immobilità o culto del passato ma continuità, procedere e tornare; e, mutatis mutandis, salvare quel che non merita di perire. Gioia delle cose durevoli.
L’avversario dell’identità e della tradizione non è dunque il progresso e l’avvenire, ma l’ideologia woke contro la realtà, la storia e la natura; e dai suoi derivati, a partire dalla cosiddetta cancel culture. E’ in corso un’aggressione capillare e pervasiva di tutto ciò che costituisce l’habitat naturale e culturale, biologico e storico della nostra civiltà; il senso religioso, i legami comunitari, le appartenenze affettive, il sentire comune dei popoli.
Chi colse per primo, agli albori della nostra modernità, la negazione del reale e dello spirituale, mediante un attacco al sentire comune, alla famiglia, al senso religioso e al legame territoriale, fu Giambattista Vico, a cui ho dedicato di recente la prima biografia . Vico oppose al dominante razionalismo ateo, e poi illuminista, del suo tempo e alla “boria dei dotti”, il richiamo alla civiltà e a ciò che la connota: la memoria storica e il ricordo delle origini, la tradizione, il linguaggio, la poesia ma anche la famiglia, il sacro, l’amor patrio. In quella visione che connetteva anziché separare o porre in antitesi mito e scienza, storia e pensiero, filosofia e religione, fisica e metafisica, Vico difendeva l’identità come principio di realtà.
Prefigurava tre secoli fa, quel che poi darebbe avvenuto, fino al rovesciamento della realtà, in base al quale, si denuncia la xenofobia, l’omofobia, l’islamofobia per non vedere la patriofobia, la teofobia e la famigliofobia, e più in generale l’odio e la vergogna per la propria civiltà e la sua storia, la sua vita, la sua natura e cultura. E’ una cancellazione sistematica e aggressiva di tutti i vasi sanguigni entro cui scorre la vita di un uomo; dalla famiglia alla natività e al ruolo genitoriale, dalla comunità cittadina alla comunità nazionale, dal lessico corrente ai simboli alle tradizioni in cui è nato e cresciuto agli stili di vita. In questo contesto degradato provate a immaginare dove possa finire la sua identità, l’identità di popolo e di sé persona. Ma poi quando allinei tutti questi fattori, quando metti insieme una demolizione dopo l’altra, ti accorgi che alla fine di te non resta niente, se non il dispositivo che ti fa dir di si, come una foca ammaestrata, per accedere al secondo gradino e poi al terzo, al quarto… O che ti punisce, ti priva di riconoscimento, se scegli una strada diversa. Resti spaesato, esacerbato, ma soprattutto disconnesso, perdi i contatti con le tue origini, la tua vita, il tuo mondo, vivi solo l’ebbrezza del transito. Perdi la libertà di essere te stesso nel miraggio di diventare tutto e il suo contrario, in una fluidità incessante; perdi la relazione col tuo ambiente, la dignità di quel che sei e le tue sicurezze. Perché l’identità non è un sorta di icona che riposa negli iperurani ma è la tua vita col calore di un’anima e dei suoi affetti, il fervore di un’intelligenza collegata alla realtà, la carne dei tuoi amori, il sangue della tua memoria e la rètina delle immagini che vi sono impresse e documentano la tua storia. Dell’identità ti accorgi solo quando è in pericolo, altrimenti ci vivi dentro senza accorgertene. Quando perdi l’identità perdi la familiarità con te stesso e la tua storia; e la familiarità col mondo e con la storia, sul piano dell’identità comunitaria. Diventi mutante in orbita e straniero in casa tua. L’identità è semplicemente quel che siamo, la nostra realtà di uomini, anima, mente e corpo. Anche senza esserne pienamente consapevoli, i popoli chiedono di tutelare la propria identità: e sul piano pratico prima che culturale, passando naturalmente per gli interessi e i bisogni. Con l’identità insorge un’energia negata che scompagina le carte, i teoremi e gli assetti e riapre la storia all’imprevedibile avvenire.

Le ragazze dell’Iliade, quelle che combattono con le parole…

Le ragazze dell’Iliade

L’Iliade è il poema della forza, scriveva Simone Weil. Un’opera che canta la bellezza della guerra, ma anche la sottomissione alla sua necessità, all’inevitabile destino di uccidere e di essere uccisi, di finire vincitori o vinti. Del resto la Grecia di Omero, come sarà la Grecia di Pericle prima e di Alessandro Magno poi, è una società fondata sulla guerra, composta da un’umanità combattente che non teme di spiegare le vele e di sguainare la spada di fronte all’altro, al nemico, contrapposizione identitaria che garantisce la sua stessa esistenza.

Se da quasi tremila anni l’Iliade non è la storia di una guerra qualsiasi tra le migliaia che hanno insanguinato ogni epoca, bensì è la storia di tutte le guerre, un canto eterno di dolore e di gloria su come è stato e sempre sarà lo scontro armato tra uomini, è solamente grazie alle donne. Senza i suoi personaggi femminili, l’Iliade sarebbe una storia fra molte, dimenticabile e senz’altro già dimenticata: i suoi quindicimila e più versi costituiscono per l’Occidente l’immaginario di ogni guerra perché le protagoniste del poema, con la loro saggezza, profondità e dignità, trasformano un’accozzaglia di corpi schierati in due eserciti opposti in indimenticabile letteratura.

Achille, Ettore, Agamennone e gli altri sono personaggi che si muovono e passano; Elena, Ecuba, Andromaca sono epica destinata a permanere. Nel poema è sempre la donna a trasformare l’eroe in essere umano, il nemico in uomo, il cantore in poeta immortale: e proprio con un’invocazione a una donna, anzi a una Musa, che si apre l’Iliade, senza la quale Omero non avrebbe posseduto il materiale narrativo da cantare e mai il suo talento sarebbe sopravvissuto al buio dell’anonimato.

A partire dal suo stesso autore, gli uomini dell’Iliade incarnano sì la forza, ma una forza bruta, rozza, comunque insufficiente a risolvere il conflitto e a meritare la gloria: la loro mascolinità è certo possente ma lacunosa, intensa ma piccola se paragonata all’ambizione epica del poema. Se togliessimo al racconto gli episodi della trama di cui le donne sono le artefici dirette o indirette, non resterebbero che scene di battaglia secche, dure, certo poco gloriose, ripetitive e senza via d’uscita.

Gli uomini di Omero sono esseri umani in tutta la loro debolezza e la loro finitezza: Agamennone è un capo inadatto, Achille un guerriero capriccioso ed egoista, Paride un rampollo viziato, Ettore un eroe ipersensibile, Enea nemmeno lo si vede. Senza il potere drammatico femminile, l’Iliade sarebbe il pietoso canto della fragilità umana e non quest’irrimediabile poema della forza di cui parlavamo all’inizio.

Le donne di Omero non sono però supereroine grandiose né intrepide avventuriere secondo i moderni cliché dei videogiochi e dei film americani: nessuna delle protagoniste tocca un’arma e uccide il nemico, la donna è anzi del tutto assente dal settore della forza e dei giochi di potere. La variante del mito tramandatoci dal “cieco di Chio” non contempla nemmeno la presenza delle Amazzoni, il popolo femminile e guerriero che invece compare in altre versioni della storia, nelle quali la regina Pentesilea si scontra direttamente con Achille.

Il lato femminile dell’Iliade è fatto di discorsi e di voci che pretendono di essere ascoltati: sul campo di battaglia gli uomini gemono come fanatici, ai margini del combattimento sono invece capaci di articolare pensieri ed esprimere emozioni grazie alle donne con cui si confrontano. In questo senso, gli uomini e le donne di Omero sembrano appartenere a due diverse fasi della civiltà: i primi si esprimono a gesti, le seconde a parole; i primi distruggono, le seconde riparano, curano, ricostruiscono. E tramandano. Se al poema di Omero dovessimo togliere l’audio e dunque zittire i dialoghi innescati dai vari personaggi femminili, non resterebbe che un calderone di armi e di soldati muti e privi di senso.La storia stessa non inizia nel pieno della guerra, ma con il rifiuto di essa da parte del protagonista, Achille, che racconta – a parole, senza armi – la sua volontà di lasciare la battaglia offeso per la perdita della sua schiava Briseide.Comincia allora tutta una serie di contrattazioni e di colloqui tra le parti in causa, mentre l’eroe non tornerà a combattere se non al canto XX (sui ventiquattro di cui l’Iliade è composta), quando ritroverà le armi solo per vendicare la morte di Patroclo.

Senza la Musa non ci sarebbe Omero, senza Briseide non ci sarebbe Achille, così come non ci sarebbero Menelao e Paride senza Elena né Ettore senza Andromaca. O forse ci sarebbero, ma sarebbero soltanto delle comparse su cui passare oltre, da dimenticare. Del resto senza una donna la guerra di Troia non sarebbe nemmeno mai iniziata. Ciò che le donne apportano al poema non sono soluzioni o colpi di scena, ma letteratura. Le donne sono il motore narrativo dell’Iliade, coloro che trasformano la cronaca di un inutile massacro in capolavoro letterario. Gli uomini combattono, uccidono, spesso piangono; le donne tessono, disfano e rammendano la storia fino a formare il più potente canto bellico del Mediterraneo.

Il ruolo femminile di tessitrici di storie non esiste soltanto nell’Iliade, che pure è considerata il primo poema della letteratura occidentale. Chiunque sia stato Omero, uno, nessuno o centomila (o una donna, come credeva fortemente Samuel Butler), la capacità delle donne di farsi sarte dell’epica e ricamatrici di storie è nota fin dall’antichità in molte società dall’Africa all’Asia passando per l’Europa: il talento femminile di raccontare storie attraverso drappi decorati e ricamati con scene tratte dalle grandi saghe del repertorio mitico è oggi riconosciuto come una forma di letteratura non scritta degna di essere ricordata e tramandata. Dopo millenni di assenza di nomi femminili nei manuali di filologia, sembra che sia proprio qui, in questa forma di saggezza domestica e intima, fatta di storie ricamate con ago e filo e di versi affidati al ritmo del telaio (il cui simbolo letterario è Penelope, la protagonista dell’Odissea, che insieme all’attesa del marito tesse tutta la storia del secondo poema omerico), che debba ricercarsi l’origine della letteratura femminile. Canti non scritti ma intessuti, poesie affidate alla stoffa e non al papiro, che per secoli hanno trasmesso nei ginecei e nelle stanze riservate alle donne i grandi capitoli della letteratura antica.

La prova è fornita dall’etimologia della parola “rapsodo”, ossia il ruolo stesso di Omero, il cantore che viaggiava di villaggio in villaggio per narrare le gesta dei grandi eroi di Troia: deriva dal greco rapsodós, composto da rápto, “cucire”, e odé, “canto”. È grazie al lavoro minuzioso e paziente di questi sarti, e soprattutto di queste sarte di poesia, se i poemi di Omero hanno assunto la loro forma definitiva, quella che leggiamo tutt’oggi, a partire da un patrimonio orale di miti sovrapposti e spesso confusi tra loro.

L’Iliade è diventata dunque la storia di tutte le guerre, sì, ma cucita e tramandata attraverso la parola femminile

 Andrea Marcolongo, LA STAMPA

Da Omero a Disney, la parabola del mito…

 

Il sogno che ci ha allevati quando eravamo bambini aveva un nome mitico e famoso: Walt Disney. Era la versione infantile dell’american dream, il sogno americano a misura dei più piccoli, il magico mondo parallelo che nutriva e incanalava la fantasia puerile e faceva anche dei bambini dei piccoli consumatori in erba; di fiabe, fumetti e pomeriggi al cinema o davanti alla tv. In fondo non è stato celebrato in grande il centenario della nascita della Walt Disney, nell’ottobre del 1923. Troppe le celebrazioni recenti, dedicate ai cartoons, troppe le polemiche sulla deprimente virata politically correct della multinazionale della ricreazione, che ha riscritto molte fiabe famose in versione edulcorata e corretta, nel segno del femminismo, dell’omofilia, della non violenza e della retorica dell’accoglienza e dell’inclusione. Walt Disney ha prodotto la mitologia del Novecento, made in Usa; un racconto per i bambini di tutto il mondo, o quantomeno d’Occidente, che colonizzava l’immaginario collettivo, non solo infantile. Lo popolava di figure della fantasy che vivevano in una realtà verosimile, e traducevano in chiave di fumetto, situazioni, caratteri, perfino rapporti di classe, avrebbero detto i marxisti di una volta, che rispecchiavano la società capitalista, tra padroni, proletari, emarginati, furbetti e fessi. Paperone “sdoganava” la figura del capitalista, Topolino era letto come un agente piccolo borghese del capitale, quasi un cripto-fascista.
Ma la forza e il fascino maggiore dell’universo disneyano è in quella specie di mitologia parallela. Walt Disney è stato davvero l’Omero del secolo americano: alla mitologia degli antichi che fu il terreno originario della civiltà mediterranea ed europea, Disney sostituì la mitologia fumettistica e cinetelevisiva degli States che ha imperato nel Novecento. Una mitologia in chiave industriale, in cui da un verso si riprendeva in modo nuovo la fiaba, prodotto creativo e narrativo dei secoli passati, e dall’altro si mitizzava il mondo della natura e degli animali, fino a generare un mondo parallelo, in cui assumevano tratti, parole e sentimenti umani anche topi, papere, oche, maiali e lupi, cagnoloni e cagnolini, gatti e canarini, insetti e creature del mare. Più qualche irruzione nel mondo degli umani, come Mary Poppins e alcune comedy disneyane. La cosa che più colpiva la fantasia dei bambini era la bellezza smagliante dei colori, il piacere di entrare, di tuffarsi, in quell’universo cromatico e sgargiante, dai colori netti e vivi, in cui la natura si faceva parlante, amichevole, favolosa. Avveniva così per i bambini cresciuti con i cartoons e con i fumetti, una prodigiosa sostituzione: il mondo reale veniva doppiato e surrogato dal mondo magico dei fumetti. Tanti bambini che vivevano in città ritrovavano un rapporto felice e facile con la natura, ma mediato, cartaceo o in pellicola, grazie agli animali disneyani. Ma al tempo stesso sostituivano la realtà della natura, le sue vere bellezze ed asprezze, i suoi pericoli, la “naturale” aggressività del mondo animale, con una specie di universo finto, giulivo, bonario, antropomorfizzato. Pochi erano i cattivi, sempre puniti, in fondo anch’essi simpatici; tanti erano i giocosi, innocui e affettuosi animali. Sarebbe da studiare il nesso assai stretto tra quella passione fiction per la natura e gli animali disneyani e la successiva passione green, ambientalista e animalista che ha caratterizzato gli stessi bambini diventati adulti e poi i loro figli e nipoti.
Della passione disneyana ricordo con affetto due amici che non ci sono più e che all’universo di Topolino & C hanno dedicato saggi di grande interesse: lo studioso tradizionalista Alessandro Barbera e il filosofo della scienza Giulio Giorello. Ai loro occhi Topolino appare un gigante del Novecento. Giorello salutò il Mouse di Disney come suo collega e maestro in un saggio “La filosofia di Topolino”, uscito da Guanda. La sua non era una civetteria da pop filosofo: Ezra Pound disse che la figura letteraria americana più importante era Mickey Mouse.
Il Topolino di Giorello era fatto su misura per lui: non è Legge e Ordine, come si è spesso detto del topo disneyano, ma è un progressista e un relativista che precorre temi odierni, un ribelle che combatte contro le ingiustizie. A Giorello, contrapposi la mia idea di liberarci di Topolino: derattizziamo il Novecento e la filosofia, gli scrissi. Ricordai poi a Giorello che il padre del Topo, Disney, era un conservatore, vicino ai partiti di destra, con simpatie per il fascismo e perfino con venature reazionarie, esoteriche e massoniche da nazismo magico. Disney fu ricevuto due volte da Mussolini che amava Topolino – suo figlio Romano era tesserato nel club di Topolino – e quando con l’autarchia proibirono i fumetti made in Usa, Mussolini di suo pugno scrisse “eccetto Topolino”. Per il Natale del 1937, raccontava Barbera in Camerata Topolino, Goebbels regalò ben 18 film di Topolino a Hitler. Certo, bisogna distinguere tra fasi diverse di Disney e di Mickey Mouse.
Da bambino mi convertì a Topolino provenendo dal mondo più rude delle “strisce” di Capitan Miki, Tarzan e sopratutto Blek Macigno. Paradossalmente il passaggio dai fumetti “umani” a quelli zoologici fu una specie di urbanizzazione e di ritorno alla contemporaneità. Il Topolino in fondo era un civis americanus, con auto, consumi ed elettrodomestici, un po’ troppo perfettino e assennato, con insopportabili venature yankees. Preferivo Paperino, sfigato con brio, anarcoide e un po’ cazzaro…

Marcello Veneziani                                                                                                                     

La miserabile campagna contro la famiglia…

La lezione morale, civile e culturale che la fabbrica delle opinioni ha sfornato in questi ultimi giorni è: la famiglia è fallita, come dimostra casa Meloni. Veniamo da una settimana in cui osservatori, influencer, opinion maker della sinistra italiana e paraggi grillini hanno decretato in coro la fine della famiglia naturale e tradizionale in seguito alla fine della relazione con Andrea Giambruno decretata dalla premier Giorgia Meloni. Parlate tanto di famiglia, e poi vi separate. Anzi, dopo quanto è accaduto in casa vostra, smettetela di presentarvi come i difensori di Dio, patria e famiglia. Revocate quei principi assurdi e impraticabili, come avete dimostrato pure voi nella vostra vita.
Proviamo a ragionare su questa tesi che già in partenza mostra di non avere senso della misura: deduce da piccole vicende grandi svolte epocali. L’argomentazione usata è allo stesso livello di chi si professa non credente perché ci sono alcuni preti pedofili; o chi nega l’amor patrio perché ci sono certi mascalzoni e mariuoli che fanno affari sotto l’alibi altisonante della patria. O chi nega valore alla famiglia perché ci sono emeriti puttanieri in sua difesa. Ossia, dovremmo cancellare i principi su cui si fondano storicamente ogni civiltà e la vita reale dei popoli con la miserabile motivazione dei cattivi esempi in loro nome.
L’amor di Dio, l’amor patrio e l’amore per la famiglia sono stati, nel bene e nel male, e in tutte le contraddizioni, la bussola e il filo conduttore per tenere unita una società, per fondare comunità e legami non provvisori né utilitaristici e per stare al mondo non badando solo ai propri esclusivi interessi egoistici e ai propri desideri individuali. Negare quei fondamenti significa negare il fondo persistente, benché ferito e tante volte calpestato, su cui regge la vita della gente e il sentire comune.
Non è mai esistita una società fondata sulla negazione di quelle basi e del loro intreccio. Noi proveniamo da quel mondo, siamo figli ed eredi di quel modo di vivere e di vedere; i nostri legami più forti e duraturi derivano da quelle basi. Sarebbe assurdo ridurre quei fondamenti alti, vasti e profondi al programma politico, ideologico, elettorale di uno schieramento; sarebbe riduttivo, meschino, del tutto improprio. Ma ancora più assurdo è pensare di poter cancellare quei principi e la vita che ne discende solo perché ci sono esempi malriusciti o solo per contrastare la parte avversa.
Chi difende la famiglia non finge di credere che sia immacolata, senza fallimenti, divorzi e separazioni. La famiglia non è illesa, incontaminata, figuriamoci; ma vive il travaglio del nostro tempo, è dentro il suo trambusto.
Quel che è in gioco è la priorità assegnata ai legami derivati da quell’unione, non solo tra marito e moglie, ma tra padri e figli, tra nonni e nipoti, tra fratelli e congiunti. Famiglia non è solo ménage di coppia, è un insieme vivente transgenerazionale. Chi difende la famiglia non si oppone alle altre unioni e alle altre scelte che ciascuno compie in libertà: ma un conto è rispettare le scelte private di ciascuno, gli orientamenti sessuali e le preferenze, un altro è relativizzare la famiglia, considerarla unione tra le tante, e reputare del tutto irrilevanti la paternità, la maternità, il significato della procreazione e della natività, il legame speciale biologico e spirituale, tra madri e figli, tra genitori e figli, le responsabilità educative verso i minori.
Se una cosa può essere imputata a chi difende nei discorsi politici l’universo familiare è semmai l’incoerenza e l’inefficacia nella tutela: vorremmo da loro più cura, più leggi e strutture a protezione della famiglia. Qualche segnale positivo c’è nell’ultima finanziaria. Ma vorremmo che a livello pubblico e istituzionale la politica della famiglia avesse una reale, decisa priorità a tutela dei suoi legami e dei soggetti più deboli che ne sono parte (i bambini, i vecchi, i malati). Andrebbero tutelate e incentivate la maternità e la natalità, piuttosto che il traffico degli uteri in affitto o altre forzature artificiali che prescindono dalla famiglia e dal suo progetto di vita. Chi sceglie di vivere da solo ne ha tutto il diritto, chi sceglie di unirsi in coppie libere lo faccia pure; chi ha storie omosessuali è libero di averle. Ma la politica sociale e famigliare dovrebbe preoccuparsi di tutelare e promuovere la famiglia, lasciando ai singoli la facoltà di compiere altre scelte. Cosa c’è in questo di ostile, illibertario, repressivo? La famiglia è un bene da tutelare, le scelte individuali sono invece diritti da garantire. Due piani diversi. La tutela della famiglia è sancita anche dalla nostra Costituzione, che tante volte, anche a sproposito, reclamate come se fosse la Bibbia.
La dialettica politica e culturale dovrebbe riguardare il confronto tra i due modelli di società e non la pretesa di ridurti tutto ai soli diritti soggettivi. La famiglia comporta diritti, doveri e responsabilità. Non può essere sostituita da l’Io voglio o dai desideri soggettivi e momentanei. E’ un legame, genera comunità, comporta reciprocità.
Avete tutto il diritto di non condividere questo orizzonte che pure è il mondo reale nel quale siamo nati e cresciuti, ed è ancora – nonostante tutto – l’architrave più solida della nostra società, senza la quale si sfascia. Ma non potete avere la pretesa di dedurre dalla vostra premessa – ognuno decida la sua vita come vuole – la conseguenza di relativizzare, declassare e screditare la famiglia. O attaccarvi ai Giambruno di turno per abbattere le famiglie come fossero ciuffi da tagliare. Le famiglie si sfasciano, dunque è inutile anzi è dannoso difenderle. Ma dove porta questo cupio dissolvi, questa furia di cancellare, di sradicare, di espiantarsi? Le destre passano, con le loro Meloni & partner, ma i legami naturali e famigliari restano finché resta l’umanità. Poi quando l’umano verrà definitivamente rimpiazzato non sarà più affar nostro.

Marcello Veneziani   

Senza il Natale, ma Progressisti…

Una notizia clamorosa. Che lascia sgomenti. Che pone interrogativi sulle nostre tradizioni e sulla difesa degli stessi. Al prestigioso Istituto Universitario Europeo di Fiesole, meraviglioso centro ad un passo da Firenze, il presidente ha deciso che, per ottemperare agli obblighi del “Piano per l’uguaglianza etnica e razziale dell’Eui”, la festa più importante del cattolicesimo verrà depennata. Secondo l’indiscrezione raccolta da Sir, l’agenzia che fa capo alla Cei, la Conferenza Episcopale Italiana, “l’ex festa Natale verrà rinominata, per eliminare il riferimento cristiano”. Così si legge in una corrispondenza interna.
Le regole per l’uguaglianza etnica nell’Eui prevedono infatti che, se da un lato le feste religiose vanno inserite nel calendario, dall’altro il linguaggio con cui le si comunica deve essere “inclusivo”. Quindi ora è partita la “caccia” ad una denominazione alternativa. I fan del politicamente corretto però sono disposti, bontà loro, a tollerare “gli aspetti tradizionali e folcloristici possono rimanere parte dell’evento”. Una proposta circolata è “Festa d’Inverno”, ma non convince granché. All’interno dell’Istituto non mancano ovviamente le perplessità e c’è chi ritiene che Natale sia un nome legato alla cultura dell’Italia, alle comuni radici, ovvero una festa che va “oltre la religione”. Una notizia che, come era prevedibile, ha sollevato un vespaio di polemiche.
“È sconcertante che un istituto accademico, ospitato all’interno di un luogo di culto cattolico, decida di rimuovere il riferimento cristiano dalla celebrazione del Natale. Ed è ancora più inquietante considerando che questa istituzione ha la propria sede nella ‘badia fiesolana’, un luogo dove nel passato sorgeva l’oratorio dedicato ai santi Pietro e Romolo (patrono di Fiesole). Questa decisione sembra completamente fuori luogo e dimostra una mancanza di rispetto per le tradizioni italiane e per il significato profondo che il Natale ha per tantissime persone – ha dichiarato il consigliere metropolitano di Fratelli d’Italia, Alessandra Gallego -. Annullare queste tradizioni e sottrarre il Natale dalla sua autentica essenza religiosa significa svilire il suo significato profondo e minare le radici culturali della nostra società”.

Christian Campigli, IL TEMPO

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Ambientaliste che confondono il verde della bandiera di Hamas col green…

 

donne di Gaza

La condizione delle donne nella Striscia di Gaza è lontanissima da quella delle civiltà occidentali, ma questo non sembra avere un peso in chi sostiene la causa di Gaza

Ma precisamente che cosa attira tutte queste Grete alla causa di Gaza? Le ambientaliste confondono il verde della bandiera di Hamas col verde dei prati svizzeri, dei boschi svedesi? Le attira forse l’aspetto bucolico-zootecnico della Sura della Vacca, quella che recita “Le vostre spose per voi sono un campo da arare”? O l’obbligo di velo che consente di risparmiare sullo shampoo inquinante? Oppure la comune centralità del venerdì, per i maomettani giorno di preghiera collettiva e per loro dei raduni Fridays for Future? Dubito che siano affascinate dalla poligamia, forma di matrimonio che nella Striscia pur non essendo maggioritaria è perfettamente legale e praticata. Sarà magari l’obbligo, recentemente imposto da Hamas alle donne che intendono viaggiare, di avere il permesso ufficiale del padre o del marito? In effetti i viaggi hanno un impatto ambientale negativo, osteggiarli ha il suo perché, starsene tutto il giorno in casa fra talamo e fornelli è molto più green.

Camillo  Langone   ,  IL FOGLIO