Se abbiamo ben compreso, il pacco prevede qualcosa come una staffetta a Palazzo Chigi. Si, staffetta è il termine giusto e non solo perché siamo in tempi d’Olimpiadi. Chi corre nella staffetta non può andarsene per conto suo, deve seguire il percorso prestabilito e consegnare il testimone al successore. Dopo una crisi, sul tipo di quelle provocate dalle spread, già accadute in Italia e altrove, ci sarebbe un cambio della guardia a Palazzo Chigi. Esce Meloni entra Schlein, con larghe alleanze e ampi sostegni, regia politica di Matteo Renzi nel ruolo ormai consolidato di malefico scazzamuriello; ma regia transpolitica di Autori Vari del Quartier Generale, più concorso esterno di collaudate figure jolly e faccendieri nostrani. Pressioni in questo senso raggiungerebbero pure Forza Italia e il mite Tajani. Ignara precorritrice di questa politica trans è la ricca ereditiera Francesca Pascale che ha dichiarato di sognare un governo berlusconiani-dem a guida Schlein, in modo da sistemare non certo l’Italia ma almeno la sua biografia…
Un tassello utile sarà la battaglia sulle tre regioni in cui si vota – Liguria, Emilia-Romagna e Umbria – per dare la parvenza di un vento elettorale cambiato a favore della sinistra.
Sulla caduta della Meloni dopo le Europee e comunque nel corso del terzo anno di governo, scommette dall’inizio Renzi; di recente anche Cacciari in un’intervista al Corriere della sera si è sbilanciato in questo senso, dicendo che bastano due pomeriggi ai mercati per rovesciare con un golpetto finanziario (diciamo noi) il governo in carica. Convinzione condivisa anche al governo, da cui la prudenza.
Qual è la ratio della svolta? Si potrebbe dire che nonostante le numerose prove di lealtà e di adesione al Quartier Generale, sussistono sulla Meloni riserve, accresciute dal mancato sostegno all’elezione di Ursula Von Der Leyen, lo scontro per il controllo del comando Nato nel sud Europa, le visite a Roma da Mattarella e i vertici parigini appena la Meloni è volata a Pechino; la sua amicizia malvista con Marine Le Pen e con Orbàn, i suoi tentativi di una politica estera relativamente autonoma, da ultimo con il viaggio in Cina. E sopratutto il timore che l’Italia meloniana-salviniana possa diventare domani la sponda euro-mediterranea di Trump, bestia nera dell’Establishment.
In realtà, dietro le ragioni contingenti c’è un nodo strutturale: i governi nazionali, quando non possono essere affidati direttamente al personale della Casa – tecnici, maggiordomi o affini – devono allinearsi nelle scelte di fondo, e non possono pretendere di sottrarsi ai cicli sempre più brevi di durata loro consentita, per evitare che con la permanenza lunga al governo azzardino una parvenza di sovranità nazionale, politica e popolare e di autonomia decisionale. Il ciclo previsto da tempo non supera il triennio. Fatti questo mezzo giro ma poi devi riportare la staffetta qui. Brevi governi di passaggio, in modo che ben si comprenda quali sono i poteri veri e permanenti e quelli fittizi e transitori, e ben si rispecchino gli interessi forti (economici, finanziari, militari, geo-strategici) rispetto a quelli labili collegati al consenso, gli umori, le retoriche identitarie.
I cicli della politica dopo Berlusconi, sono stati sempre più corti, nessuno è durato più di un triennio, inclusi Renzi e Conte nel suo duplice format, e alla fine anche Draghi. Il triennio sembra essere ormai la curva fisiologia della leadership politica, anziché il quinquennio canonico delle legislature. Abbiamo presidenti della repubblica che diventano monarchi a cui si concede il bis dei già lunghi settennati, e poi abbiamo presidenti del consiglio che scadono precocemente, per consentire il turn over e impedire che mettano radici e passino da esecutori a decisori. Tutti transitori…
Da qualche tempo, dopo un anno di prove, scetticismo e incredulità, è in corso una specie di investitura politico-mediatica di Elly Schlein. Lo si capisce da troppi indizi; è trattata da prossima premier, le hanno dato il numeretto e aspetta il turno. La politica ci ha abituato a ricambi repentini e a giri completi di turnazione: antipolitici e politici, tecnici e grillini, sinistre e destre, non avendo il centro una consistenza elettorale che permette di governare da solo. In questo modo tutti sono provvisori, sostituibili e complementari. Così ora si prepara il turno della Schlein, e ci sono già le tifoserie mobilitate, i marchettifici pronti a narrare il cammino dell’astro nascente, riconoscerle uno spessore politico prima negato e lanciare la svolta. Ma è ben chiaro che eccettuata la fuffa, che riassunsi sin dall’inizio in “gay, migranti e bella ciao”, la politica richiesta alla Schlein non è né più né meno di quella che si pretende dalla Meloni: in politica estera, nelle alleanze, nelle scelte economiche, civili e militari. La stessa di Draghi, e di Conte. La fuffa serve per sceneggiare il cambiamento, ma la sostanza resterebbe la stessa, anzi i dem sono più omogenei al Quartier Generale e ai suoi paraggi, e in più non sono sovranisti ma sottanisti, cioè reputano l’Italia un inquilino subalterno del Palazzo euroglobale. La loro speranza è che arrivi la Harris, Amala col K, alla Casa Bianca. Ma se arriva Trump, si complicano le cose.
Intanto la prospettiva serve per minacciare la Meloni e farla rientrare nei ranghi; e dare più spazio di manovra a Tajani e ai centristi rispetto a Salvini (nel frattempo Crosetto è sull’attenti, in tuta mimetica, pronto per la guerra). L’Italia si attrezza di nuovo a portaerei della Nato in vista di imprese belliche e il Mediterraneo si conferma acqua di colonia.
Marcello Veneziani