2C Raffaella e la natura

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In un passo del Trattato del Sublime, scritto da un autore anonimo del II sec. a.C., si legge: “Allora.. l’arte è perfetta quando sembra essere natura, mentre la natura colpisce il segno quando nasconde in sé l’arte”.

La perfezione dell’arte, cosi come ce la tramandano i classici, già per l’intrinseca ambiguità e per il carattere di trascendenza del mito che ne permea le pagine, fa sì che qualcosa rimanga oscuro. La natura stessa, poi, come afferma Eraclito, ama nascondersi.

Come potrà, dunque, lo scrittore, nonostante l’evidenza ingombrante dell’apparato retorico, riuscire a far emergere dalla sua opera quell’espressione altissima di perfezione con cui si identifica il sublime?

E’ chiaro, afferma l’autore del trattato, lo farà con la luce stessa. Dopo Omero ed Esiodo, tuttavia, se il bagliore del mito risplende ancora a lungo nella letteratura, lo fa con una luce meno intensa. Una luce che non nasconde più ma cerca di stanare ciò che è nascosto. Con Virgilio, di nuovo, la luce è quella del mondo arcaico. Brilla di una “naturale grandezza che accende nella mente di chi legge o di chi ascolta una simile grandezza” e, nello stesso tempo, protegge ciò che deve restare nascosto.

Chi legge le sue opere si confronta con dei testi enigmatici, segreti, irrequieti, dolorosi nei quali, tuttavia, le emozioni restano appena disegnate, come sospese nella pace drammatica di una cerimonia rituale.

Azzardando un confronto, si potrebbe dire che Virgilio scrive come Apelle, il più grande pittore dell’antichità, dipinge. Velature di colore, via via, più diluito, che lascia trasparire la luce degli strati sottostanti, uno strato di vernice finale, l’atramanto, con cui, i chiaroscuri si integrano e le diverse tonalità cromatiche si addolciscono, caratterizzano i quadri di Apelle. Una ricerca quasi ossessiva di perfezione stilistica, conoscenze approfondite in ogni ambito del sapere mescolate alla durezza delle esperienze personali, alle emozioni che i luoghi dell’anima nascondono, sono i colori usati in sapiente successione dal poeta. Lo stato di atramanto finale coincide, in Virgilio, con un processo di sintesi nouminosa che tutto illumina e vivifica, ammorbidendo, nel contempo, i contrasti e conferendo a tutta la sua opera il senso lieve ma immortale della leggenda.

La bellezza raffinata dei suoi versi che, secondo il costume delle recitationes venivano declamati in pubblico, le straordinarie conoscenze scientifiche e uno stile di vita improntato alla riservatezza hanno fatto di lui, ancora vivente, un mito in cui l’uomo, evocato e mai del tutto sottolineato, rischia di perdersi. Trasformandolo nel simbolo dai caratteri magici presente nella medioevale Cronaca di Partenope, la stessa Napoli, che lo ha conosciuto e amato, ha contribuito a disumanizzarne l’immagine. Potrebbero, tuttavia, essere proprio i paesaggi, gli usi, i costumi della Napoli sperimentata da Virgilio nel suo lungo soggiorno in città, un punto di partenza per recuperare, come in un gioco di specchi, almeno un riflesso della sua essenza umana. Sicuramente nel viaggio della sua vita, in fondo agli occhi, c’è il colore. Il colore rosso bruno dell’argilla di Mantova, la città dove è nato, il bianco abbagliante del travertino di Roma, dove ha studiato eloquenza, l’evidenza solare del tufo di Napoli che lo accoglie nella sua maturità. Sappiamo con certezza che a ventinove anni, dopo una vita di incertezze che lo segna, Virgilio decide di abbandonare gli studi di retorica e di trasferirsi a Napoli per seguire i corsi dell’epicureo Sirone. Il quinto carme dei Catalepta, chiunque ne sia l’autore, ricrea con molto colore la tensione emotiva che deve aver accompagnato la sua decisione.

Via di qui, via vuote ampollosità degli oratori, parole di non attico rimbombo. Via di qui vuoti tamburi alle orecchie dei giovani. Noi dirigiamo le vele verso i porti della felicità”.

Al suo arrivo a Napoli, secondo la tradizione delle scuole di filosofia, lo ospita il piccolo podere di Sirone. Pausillipon, tregua dal dolore. Già il nome è una promessa. Secondo la tradizione Virgilio abita a Mergellina, nell’area della Cripta Neapolitana. Guardiamo i dintorni con gli occhi del poeta. Può esserci di aiuto, allo scopo, la pianta cinquecentesca di Hoefnagel tratta dall’atlante Civitates orbium terrarum. Il punto di vista dalla Cripta Neapolitana è assolutamente originale per l’epoca.

La dorsale che collega il Vomero e l’isolotto di Megaride passando per Monte Echia, divide in due seni il golfo. Sulle pendici costiere, sulle colline litoranee domina ancora la lecceta, una foresta chiusa spesso inestricabile, cupa di ombre profonde. Sotto le folte chiome dei lecci; si sviluppano numerose specie arbustive come il corbezzolo, il viburno, la rosa canina, il pungitopo, la vite nera (tammus communis) e, scendendo verso il mare, il mirto, l’alloro, l’oleandro. Ai tempi di Virgilio numerose tra queste specie botaniche spontanee erano state trapiantate e coltivate negli orti insieme a numerose altre specie esotiche come la palma da datteri, il ciliegio, il limone. Testimonianze dall’impatto estetico dirompente sono costituite dai giardini dipinti di area pompeiana e dal ninfeo della villa di Livia a Roma che certamente Virgilio ha ammirato comprendendone il significato nascosto.

Melograni, corbezzoli, palme, allori, oleandri e numerose specie floreali sono rappresentati secondo il criterio dei paradeisos orientali. Simmetria, armonia, euritmia sono i tre criteri che, nell’antichità, connotano il bello in qualunque forma esso si presenti. A contraltare con la bellezza illusoria dei giardini dipinti, si snoda il verde delle viti sulla collina di Posillipo.

Vitis lenta, bacchica, gratissima Iacco”…”Semiputata tibi frondosa vitis in ulmo est”.

La vite è alta, sospesa alle piante per proteggerla dall’umidità della terra. Da lontano si intravede una nave dalla vela rossa triangolare. Arriva dal sud. E’ una nave alessandrina. Solo gli alessandrini possono tenere la vela issata oltre le bocche di Capri.

Perché il seme del lino asciuga il campo, l’avena lo secca”.

Le vele tessute sono fatte di lino come i libri sacri, i libri lintei, come i tendoni profumati di rose e viole dei teatri. Napoli è famosa per la produzione del lino. Al porto lo stesso Virgilio, forse, sceglie qualcuno dei libri che i marinai vendono sulle bancarelle secondo lo stesso costume dei marinai di Taranto. Qualcuno dei suoi schiavi acquista qualche rotolo di papiro o il bitume naturale necessario per la preparazione dell’inchiostro.

A Posillipo il poeta compone gran parte della sua opera. Per completare le Georgiche impiega sette anni.

Il testo, che trasforma l’arida tecnica della coltivazione dei campi e dell’allevamento del bestiame in un’opera di altissima poesia, riserva qualche sorpresa. Virgilio, che in realtà ha viaggiato pochissimo, conosce perfettamente gli habitat delle piante che descrive. Sicuramente ha letto anche i “Peripli”, libri di viaggi che, più o meno colti, circolavano ai suoi tempi. Nella natura delle Georgiche soffia, costante, l’Anima Mundi di Platone, in netta contraddizione con la lezione materialistica appresa dai maestri epicurei. Accantonato l’amato modello lucreziano, se non nel formalismo estetico della poesia, perlomeno nella visione deterministica semiatea della realtà e nelle scelte esistenziali, il poeta traduce in una visione stoica l’impianto interpretativo della natura in tutte le Georgiche e in parte dell’Eneide. Che si sia trattato di necessità poetica o di opportunismo politico non lo sapremo, forse, mai.

Tutto ciò che avviene nella natura virgiliana si colloca in un ordine superiore delle cose. Il conetto è rafforzato nel VI libro dell’Eneide.

Nel principio era il Cielo e la Terra e le titanie Stelle e gli sterminati campi del mare e il lucente corpo della Luna e in tutti uno spirito è diffuso e dà vita e si fonde con il gran corpo universale”. […]


Tutti gli elementi naturalistici appaiono pervasi da una sacralità latente cui fa da lente di convergenza la cerimonia rituale.

Tu soprattutto onora i sommi Numi e al cadere dell’estremo inverno … innalza devoto altari a Cerere né vi sia mai chi cominci a segare le mature spighe se, prima, cinto il capo con un ramo di quercia, non canti inni in onore di Cerere e saltando non batta la terra”.

La natura ha un suono, quello profetico dello stormire delle fronde dei boschi sacri. Nello stesso tempo risuona ai segni del cielo.

“ Se tu osservi il rapido corso del Sole e le variazioni lunari … potrai antivedere il tempo del giorno veniente né la serena notte ti potrà insidiosa tradire”.

La tradizione astronomica di Arato (III sec a.C.) e le sue indicazioni per ricavare pronostici meteorologici dall’aspetto del cielo è ancora saldamente affermata ai tempi di Virgilio che ne fa uso, pur dimostrando, in altri punti delle Georgiche, di conoscere bene il fenomeno della precessione degli equinozi, grande scoperta di Ipparco (II sec. a. C.).

La natura è associata ad un criterio di necessità. Separando l’Eclittica dall’Equatore Celeste, Zeus ha inclinato l’Asse del Mondo sostituendo l’eterna primavera dei tempi di Saturno con la dinamica faticosa del lavoro dei campi associata all’alternarsi delle stagioni.

Carattere fondamentale della natura è, dunque, il ritmo: espansione e contrazione. Primavera-Estate: espansione. Autunno-inverno: contrazione.

Il ritmo è il grande respiro della Terra.

Occorre osservare la stella di Arturo (costellazione di Boote) e i Capretti (costellazione dell’Auriga) e il lucido Serpente”…”Quando il Toro dalle corna aurate recherà la primavera”…”Quando la Libra avrà pareggiato le ore del giorno e della notte (equinozio d’autunno) ”.

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I temi astronomici trattati, anche se con coloriture e toni personalissimi, riecheggiano Esiodo e Arato, quasi a voler sottolineare che, nella relazione speculare tra Cielo e Terra, l’uomo, interprete dell’uno e attore sull’altra, occupa un ruolo centrale. Le fatiche dei campi presentano il carattere di un epos in cui il contadino è il sacro custode della tradizione.

In realtà, quando Virgilio aveva circa trent’anni, Giulio Cesare aveva introdotto dall’Egitto il calendario solare per ovviare ai problemi posti dal calendario lunare in uso a Roma. L’anno lunare corrispondente a dodici lunazioni, più corto di quello solare, risultava inadatto a seguire l’alternarsi delle stagioni, che dipende invece dal moto annuale apparente del Sole. Lo sfasamento temporale tra i due astri era una cosa così seria che, ancora ai tempi della giovinezza di Virgilio, i contadini si erano adattati ad usare un calendario stellare (anno sidereo) abbastanza preciso in cicli temporali non troppo lunghi. Così sapevano che al sorgere e al tramontare di una serie di stelle particolarmente luminose corrispondevano determinati lavori dei campi: “prima che tu sparga le semenze negli aperti solchi … aspetta che tramontino le Pleiadi figlie di Atlante”.

Era questo il modulo di misura del tempo per Virgilio ragazzino nel podere del padre. Così le stelle evocano un mondo lontano e perduto, quello di Esiodo, suo modello letterario, ma anche quello della sua infanzia.

La natura, tuttavia, non parla solo il linguaggio arcano delle stelle, ma, selvaggia e spesso incontrollabile come quella di Lucrezio si esprime in un linguaggio tutto suo che accenna sempre a grandi sovvertimenti nell’ordine naturale delle cose.

“ Ah quante volte vedemmo l’ondeggiante Etna sboccare nei campi dei Ciclopi e per le aperture del monte spaccato vomitare fiamme e sassi liquefatti … le Alpi tremarono per insolite scosse; orrende voci si intesero rimbombare nel silenzio dei boschi … e sull’imbrunire furono vedute, in modo prodigioso le bestie parlare, i fiumi arrestarsi e i simulacri degli dei stillare sudore dal volto.

Di ben altro tenore sono i segni che accolgono il misterioso puer della IV Egloga. Lasciamo da parte le numerose questioni concernenti il tema interculturale del puer divinus, le sue connessioni con i grandi cicli cosmici, il problema dell’identificazione e soffermiamoci, invece, sull’aspetto simbolico botanico in cui Virgilio è uomo del suo tempo.

E a te vago fanciullo la terra in copia germoglierà spontanea eletti doni di edere serpeggianti e di intrecciate bacchere e in un la colocasia mista al festevol acanto … e fin la culla per te di fiorellini ameni pullulerà … struggerassi il germe delle fallaci, velenose piante e dell’assiro amomo in ogni luogo sarà fecondo il suol.”

In pochissimi versi si materializza, attraverso il simbolo, una serie di fanciulli divini.

Iacco che guida la processione di Eleusi, Dioniso, in veste di Zagreo orfico, simbolo di morte e di resurrezione, Bromo, figlio della dea duale Demetra-Core. Ad essi è destinata l’edera, il cui decotto, secondo la farmacopea dell’epoca, combatte lo stato di ubriachezza. Alla colocasia può essere associato il fanciullo divino egiziano, Sole che rinasce al solstizio d’inverno, emerso dal Caos su una pianta acquatica.

L’acanto, simbolo per eccellenza di prestigio sociale, è anch’esso associato ad un mito di resurrezione (renovatio mundi).

L’accenno velocissimo alle piante velenose, fallaci cioè ingannevoli, pone in modo poetico il problema degli errori in cui era facile incorrere, con conseguenze a volte mortali, per l’assenza di criteri oggettivi per l’identificazione delle piante. Bacchere intrecciate e ameni fiorellini richiamano all’uso dei profumi e, soprattutto, delle corone, presenti in tutti gli aspetti del quotidiano dei Romani.

Intorno ad un giro economico di enorme portata ruota la corona. C’è poco da scherzare con la corona. Chi ne fa un uso improprio rischia la pena di morte!

Solo in apparenza la corona definisce un mondo di colori e di bellezza. La corona è il “bordo della coppa colma di vino” delle libagioni rituali, è “la benda sacra di lino” che si è chiusa su se stessa. E’ il confine nettissimo tra il sacro e il profano, tra l’eccezionale e l’ordinario, tra la vita e la morte. Di corone di rose si cingono le spose e si decorano i sepolcri. Dentro e fuori. Separati ma uniti nello stesso bordo mistico. Napoli è piena di rose. Se ne fanno unguenti e profumi conosciuti in tutto il Mediterraneo.

Immaginiamolo nel foro di Napoli Virgilio. Sarà intento ad osservare le taberne coronarie, mentre aspetta la processione per la festa di Core e Demetra o sta per assistere ad un agone poetico o ginnico o, semplicemente, acquista fiori per i Lari. Alto, piegato su se stesso, riflette forse sul senso della vita e della morte. Arriverà fin troppo presto il tempo del viaggio fatale. A Brindisi, ancora giovane, lo coglierà la morte. I suoi amici di sempre, Varo e Tucca, si rifiuteranno di bruciare i rotoli dell’Eneide, come Virgilio, ripetutamente, chiede. E con questa scelta legheranno il loro nome all’immortalità dell’opera, perché:

“… è un onore e un privilegio amare ciò che la morte non tocca … Se disastro e oblio hanno inseguito … (l’opera d’arte) attraverso il tempo, così ha fatto l’amore. Nella misura in cui … (l’opera d’arte) è immortale … (noi abbiamo) una minuscola, luminosa, immutabile parte in quella immortalità. Esiste e continuerà ad esistere. E … (noi aggiungiamo il nostro) amore alla storia delle persone che hanno amato le cose belle, se ne sono prese cura e le hanno strappate al fuoco e le hanno cercate quando erano disperse e hanno provato a preservarle e salvarle in tanto che se le passavano, letteralmente, di mano in mano, chiamando dalle rovine del tempo la successiva generazione di amanti e quella di dopo ancora.” (da Il cardellino di Donna Tartt).

Raffaella Di Costanzo

2C Raffaella e la naturaultima modifica: 2023-08-04T14:47:01+02:00da masaniello455