La Campania in Orazio

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Così profondamente diverso da Virgilio, Orazio fu attratto dallo stesso cenacolo napoletano, dove si legò in amicizia con Virgilio stesso, con Lucio Vario Rufo e con Quintilio Varo. Se nel papiro già citato sull’avarizia (253, fr. 12, 34) il suo nome si leggesse per esteso, dovremmo ritenere che il Venosino, appena ventenne (era nato nel 65 a.C.), avesse avuto già occasione di legarsi al­l’élite degli amici menzionati da Filodemo nei due papiri. Vicever­sa le tre lettere superstiti consentono d’integrare anche Plòtie, soluzione questa che mi sembra più cauta e attendibile: il nome di Plozio Tucca è già nel primo dei Catalepton, la stessa rac­colta dei saggi giovanili di Virgilio in cui trovano anche menzione il «dolcissimo Vario» e le «dotte sentenze del grande Sirone». Poiché, d’altro canto, ci risulta che Orazio nel 44 era già ad Atene, dove si sarebbe incontrato con Bruto che l’avrebbe accolto nelle sue file col rango di tribuno militare, e che in Italia tornò solo alquanto più tardi dopo l’umiliazione della sconfitta sul campo di Filippi (ot­tobre del 42), sembra molto più ragionevole supporre che fosse l’amarezza di chi tornava «con le ali tarpate, abbattuto e privo della casa e del podere paterno» a inoltrarlo verso l’accorata meditazione e il clima rasserenante del cenacolo napoletano. Quegli stessi anni (41-40) non furono neanche lieti per il dolce poeta delle Bucoliche: si creò una comunanza di stati d’animo e di esigenze spirituali, che doveva portare quel gruppo d’intellettuali, poeti o amatori di poesia, ad intendersi e collaborare anche sul piano artistico-letterario. Ad esempio Orazio (De arte poetica 55), trattando del diritto di creare neologismi, sta dalla parte di Virgilio e Vario, contrapponendosi a Plauto e a Cecilio, e più oltre (v. 436 ss.), pone in rilievo l’austero rigore critico di Quintilio Varo.
È probabile che il primo vincolo d’amicizia tra il Venosino e i suoi amici di Napoli fosse già maturato prima dell’anno 38 a. C, quando prima Virgilio, poi Vario parlarono di lui a Mecenate (Sat. I 6, 54 s.). Il legame fraterno era quanto mai vivo nella primavera del 37, all’epoca del famoso viaggio a Brindisi: dopo la notte tra­scorsa a Formia in casa di Murena, Orazio, giunto a Sinuessa, si vede venire incontro Plozio Tucca, Vario e Virgilio: «quali abbracci e quanta letizia fu tra noi!» (Sat. I 5, 44 s.). A pochi giorni di distan­za, quando Vario dovrà staccarsi dagli amici, essi non potranno trattenere le lacrime (ibid. v. 93). Circa due anni più tardi, all’epoca cioè della decima satira, che può considerarsi di poco anteriore alla pubblicazione del primo libro (35 a.C), Orazio accanto al forte epos di Vario menziona la grazia soave delle Georgiche (vv. 42 s.), e poco oltre inizia una lista di poeti o critici di poesia con i nomi dei suoi amici più cari: « Plotius et Varius, Maecenas Vergiliusque » (v. 81). Se a conclusione di questi dati si aggiunge un ac­cenno non irrilevante di S. Girolamo (Ol. 190, 4): «Varius et Tucca Vergilii et Horatii contubernales poetae habentur illustres», abbiamo innanzi a noi la storia del sodalizio napoletano nato da Sirone e rifiorito intorno al poeta di Mantova.
Pare da escludere che Orazio avesse rapporti personali con Sirone: fu invece in amicizia con Filodemo, che rimase in vita alcuni anni dopo il 40 a. C.. Basti pensare ai versi nei quali Filodemo è presentato come fautore degli amori facili e poco rischiosi (Sat. I 2, 120 ss.), una materia che trova eco nella maggior parte degli epi­grammi attribuiti al Gadareno. In essi il motivo erotico è prevalente: sono amori di etere, alle quali lo scrittore si rivolge senza ritegno e senza veli, nel linguaggio di un filosofo del piacere che s’era presa la briga, come sappiamo da Cicerone, di secondare sulla strada del vizio il suo ospite, uomo dal palato grossolano.
Eppure qualche nota poetica non manca, qua e là, di occhieg­giare in mezzo al repertorio vieto e trito della musa filodema. Si ponga mente ai seguenti versi di un epigramma dell’Antologia Palatina (IX 570): « O Bionda, plasmata di cera, dal corpo profumato d’un­guenti, dal volto di Musa, stupenda statua degli alati Desideri, into­nami con le mani rugiadose un balsamico carme: bisogna che un giorno in un letto solitario, fatto di sassi e di pietra, io dorma im­mortalmente per un tempo infinito. Cantamela di nuovo, piccola Bionda, sì, sì, questa dolce canzone ».
È il pensiero della morte che subentra alla dolcezza dell’amore, un pensiero reso ancora più triste dalla considerazione epicurea che non l’anima, ma la morte stessa è immortale. La vena di sentimenta­lismo che anima questi versi può ben essere stata ispirata al poeta greco dalla suggestione di un raffinato mondo lirico, quello della Napoli di tutti i tempi.
Quando poi Orazio, intorno al 15 a. C, prese a scrivere l’Arte poetica, Virgilio era già morto, e il dolce sodalizio degli amici cari al cuore dei due poeti ormai non esisteva più. Tuttavia, dagli accenni già fatti a due luoghi dell’epistola e da vari aspetti di essa, mi sembra di poter concludere che gli incontri napoletani di Orazio con Virgilio potessero avere per argomento questioni tecniche e formali, come quelle che affiorano sia nell’Arte poetica che nelle due prime epistole del secondo libro. E forse la conversazione ritornava talvolta su argomenti ch’erano già stati discussi tra le mura ospitali della villa d’Ercolano. Il fatto stesso che l’Arte poetica sia stata dedicata ai Pisoni, cioè al figlio e ai nipoti di quel patrizio che aveva aperta la sua sontuosa dimora a Filodemo, ci lascia pensare che Orazio, tor­nando dopo anni e quindi con nuova maturità critica ai problemi della poesia, cercasse di ristabilire, attraverso la scelta di quei desti­natari, il legame ideale con quel personaggio intorno a cui gli altri amici s’erano stretti in vincoli d’affettuosa simpatia.
Inoltre la suggestione d’uno scritto di Filodemo, il trattato in almeno cinque libri sui componimenti poetici, conservato in molti papiri, e, per il libro quinto, in almeno due esemplari, tutti appar­tenenti alla biblioteca della villa d’Ercolano, dovette certo avere la sua parte nel far sì che Orazio si decidesse a scrivere de arte poetica. Certo non è facile istituire un confronto diretto tra le meticolose polemiche, espresse per giunta in uno stile contorto e spesso oscuro, con le quali il filosofo di Gadara combatteva Platonici, Peripatetici e Stoici che avevano scritto di poesia, e gli esametri armoniosi e suggestivi del poemetto oraziano. Tuttavia l’antitesi tra le due poe­tiche dell’utile e del dilettevole, la sottile differenza tra materia comune e impronta artistica individuale, la ripartizione sistematica dello studio critico nei tre momenti della «poesia», cioè del con­tenuto, del «poema», cioè della forma, e del «poeta», cioè della personalità e dell’indole di chi scrive, costituiscono parte essenziale delle due opere. Inoltre un commentatore di Orazio, Porfirione (del terzo secolo d. C), iniziando lo studio dell’epistola, ci fa testi­monianza che il poeta «nel suo libro raccolse i precetti di Neottolemo Pariano intorno all’arte poetica, certamente non tutti, ma quelli di maggiore rilievo ». Queste parole stanno a dire che Orazio, in sostanza, pur avendo le sue fonti, non mancò di fare opera originale: attinse i punti salienti della trattazione da Neottolemo, ma seppe dare muscoli e nervi a quello schema, facendosi forte della propria esperienza artistica.
Tuttavia sorge spontanea una domanda. Come si spiega che proprio uno scritto dell’ignotissimo Neottolemo (Diogene Laerzio, ad esempio, nelle Vite dei filosofi, lo ignora assolutamente) cadde tra le mani di Orazio e si guadagnò subito la sua scelta? La risposta è semplice. Il quinto libro di Filodemo sui componimenti poetici è una scorribanda attraverso le opinioni dei filosofi postaristotelici in fatto di poesia; la parte relativa ai Peripatetici prendeva le mosse da una serie d’estratti dal lavoro di Neottolemo, che Filodemo dice d’avere attinti di seconda mano. Dunque, neanch’egli possedeva l’opera com­pleta di Neottolemo, ma solo quei punti essenziali, che sarebbero diventati, in Orazio, i praecepta eminentissima cui allude Porfirione. È chiaro dunque che Orazio prese i suoi primi appunti per l’Arte poetica proprio in una delle discussioni critiche tenute ad Ercolano, di cui Filodemo era certo protagonista. Che anzi, se possedessimo per intero le prime colonne del papiro 1425, potremmo forse scor­rere ancora con gli occhi gli appunti riassuntivi dell’opera di Neot­tolemo che Orazio, in una delle sue visite alla villa di Pisone, consultò e trascrisse avidamente.
Anche l’Arte poetica oraziana, che, accanto alla Poetica di Ari­stotele, rappresenta l’essenza del pensiero antico in fatto di critica letteraria ed esercitò un’influenza così grande nel Medioevo e durante l’Umanesimo, ci appare, attraverso questi solidi richiami, come un prodotto dell’attività culturale che si svolgeva nel golfo di Napoli, degno quindi di stare accanto alle Georgiche di Virgilio, nate, come l’autore medesimo confessa, dalla suggestione ideale della dolce Partenope.
Nel descrivere un concilio di fattucchiere (Epod. V 43), Orazio non sa trovare una sede più appropriata che Napoli e dintorni, e affibbia senz’altro alla città l’epiteto poco lusinghiero di «otiosa».
Questo evidentemente non vuol essere un elogio, né alludere agli otia filosofici della scuola di Sirone: il poeta ha voluto dire sempli­cemente «città di sfaccendati», e ha certo inteso alludere alla facile credulità d’un popolo che tutto prende per moneta contante.
Non tutti, peraltro, sono persuasi che Orazio, nel menzionare Napoli, intendesse considerarla come il luogo prescelto dalle streghe per il loro conciliabolo; è vero che, qualche verso prima, la maga Sagano sparge «Avernales aquas», cioè acque del lago d’Averno, ma poco più oltre (v. 100) compaiono gli uccellarci dell’Esquilino. Inoltre la maga numero uno, Canidia, viene identificata dall’antico commentatore Porfirione con una certa Gratidia, unguentaria napo­letana, cosa che spiegherebbe l’improvviso e sorprendente richiamo topografico. Una cosa sola è evidente: più l’addentellato con Napoli risulta tenue, e più l’averla menzionata diventa grave, quasi che quell’opera volesse appunto dire «la vera patria dei perdigiorno di tutto il mondo greco-romano».
Pochi anni dopo, Virgilio chiudeva le Georgiche con due versi che, pur facendo leva sullo stesso vocabolo, otium, sono tanto dis­simili dall’impennata oraziana (IV 563 s.):
illo Vergilium me tempore dulcis alebat
Parthenope, studiis florentem ignobilis oti.
«In quei tempi la dolce Partenope ospitava me
che fiorivo di entusiasmo per un otium poco nobile».
Qui otium significa certamente attività letteraria: la dolcezza di Partenope, forse dovuta al clima, forse alla cordialità degli abitanti, o forse al livello della sua tradizione culturale, aveva contribuito a orientare Virgilio verso la poesia dei campi. Perché poi tale otium dovesse parergli «ignobile», si può spiegare in due diverse ma­niere: o il poeta lo paragonava alla musa epica, quella dell’Eneide, di cui già presagiva la creazione, o pensava all’alto livello degli otia filosofici, cioè degli eletti incontri spirituali che si tenevano presso le scuole, come quella che era stata del suo maestro, Sirone epicureo. Che tale tradizione di otia intesi nel significato più nobile continuasse a fiorire a Napoli ancora una quarantina d’anni più tardi, durante i primi tempi della nostra era, lo possiamo arguire da un luogo del­l’ultimo libro delle Metamorfosi d’Ovidio (vv. 708 ss.). Il poeta descrive il viaggio costiero d’una mitica nave, che, superato lo stretto di Messina, «punta su Leucosia e i roseti della tiepida Pesto, quindi sfiora Capri e il promontorio di Minerva e i colli che alimentano le vigne generose di Sorrento e Stabia e la città di Ercole e Partenope nata apposta per gli ozi, e, dopo di essa, i templi della Sibilla cumana».
Quel «Parthenopen in otia natam» che ha tutto l’aspetto d’una battuta umoristica, magari proprio ispirata all’otiosa Neapolis del poeta venosino, rispecchia invece senz’alcun dubbio quel clima e quella tradizione filosofico-letteraria di cui la greca Napoli, ormai anche sede ufficiale di solenni agoni e certami poetici, era, dopo Roma, la depositaria più degna. La città, con le sue bellezze natu­rali, la vita gaia e serena, l’amenità salutifera delle vicine terme e le periodiche manifestazioni di cultura e d’arte, era divenuta l’am­biente più idoneo per ricreare in un clima distensivo il corpo e lo spirito.
Tale consuetudine del resto aveva radici abbastanza profonde. Nell’orazione Pro C. Rabirio Postumo (26 s.), del 54 a.C, Cicerone vuol giustificare il suo cliente, che aveva smesso per qualche tempo la toga romana per indossare il mantello greco, citando il caso di tutti quei cittadini i quali, una volta giunti a Napoli, non si vergo­gnavano neanche minimamente di dar luogo alla stessa mascherata. Oltre ad essere autentici cittadini romani, molti di costoro apparte­nevano all’aristocrazia, e non erano ragazzetti imberbi, ma addirit­tura senatori delle famiglie patrizie più elevate; e l’oratore precisa che tale contegno rilassato, tollerabile al massimo per chi trascorre le vacanze nelle proprie campagne, pure non dava nell’occhio, anzi passava inosservato per le vie di Napoli, città molto «illustre», o forse anche molto «frequentata». Infatti l’aggettivo «celeberrimus» si presta così all’una come all’altra interpretazione: e certo la Nea­polis romana, inclusa in un perimetro tutt’altro che capiente, doveva trovar difficoltà ad accogliere, di primavera o d’estate, l’eccezionale afflusso dei nobili Quiriti. Ma tale periodica ondata di turismo era poi a sua volta dovuta alla celebritas, cioè alla rinomanza che la città era andata conquistandosi proprio perché adatta a trascorrervi una parentesi beata: Ovidio ha colto nel segno.
A Cicerone fa eco un noto brano di Strabone (V 4, 7) com­posto pochi decenni dopo da chi aveva avuto agio di frequentare Napoli e la Campania, osservandone con vigile acume la natura e i costumi: «Anche Napoli possiede sorgenti di acque calde e impianti balneari non inferiori a quelli di Baia, ma molto più ridotti di nu­mero. A Baia infatti è venuta creandosi un’altra città, non più pic­cola di Pozzuoli, con edifici principeschi addossati gli uni agli altri. Prolungano in Napoli la maniera di vivere secondo l’uso greco quelli che da Roma vi si ritirano per cercarvi riposo: uomini che si son dati da fare nel campo delle lettere, ovvero anche d’altre categorie, che, vecchi o malati, sentono il bisogno d’una vita comoda e serena. Vi sono poi anche taluni Romani che, dilettandosi di questo tenor di vita, alla vista delle tante personalità che vi praticano la stessa indole di costumi, trovano piacevole il soggiorno e vi fissano la propria dimora».

La Campania in Orazioultima modifica: 2021-02-24T15:11:20+01:00da masaniello455