La Campania in Strabone

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Alla trattazione della Campania Strabone dedica ben tredici pa­gine, computate secondo l’edizione teubneriana del Meineke: un nu­mero tutt’altro che esiguo, se si considera che in altrettante pagine si trova descritta un’estensione del nostro paese pressapoco decupla: Etruria fino a Fregene, Umbria, litorale adriatico da Rimini alla foce dell’Esino, Corsica e Sardegna, e che non più di diciassette ne occupa la Sicilia, una tra le pietre angolari della civiltà, della storia e della cultura greca.
Affinché questi paragoni spaziali acquistino maggiore risalto, co­minciamo col ricordare che la Campania di Strabone era inclusa in limiti assai più angusti rispetto all’attuale regione italiana dallo stesso nome. Essa risultava della fascia costiera che da Sinuessa (vicinanze dell’odierna Mondragone) s’inoltra, superato il golfo di Napoli, sino alla foce del Sele: ne restavano dunque esclusi dalla parte N – O il tratto di litorale prospicente a Sessa Aurunca, e a S – E la maggior parte della provincia di Salerno. Passando al retroterra, bisogna ri­cordare che appartenevano al Sannio l’alta valle del Volturno, il Beneventano e l’Irpinia. La Campania antica comprendeva dunque l’odierna Terra di Lavoro, il golfo di Napoli, il Nolano e la limitata estensione che va dai monti Picentini al litorale della piana di Salerno.
Parlando di questo territorio Strabone, com’è sua consuetudine, non si limita a fornire i lineamenti fisici e i principali ragguagli sulle condizioni della vita umana; facendo a ritroso le essenziali tappe del cammino della storia, egli illustra l’origine dei singoli popoli, tien conto delle dominazioni succedutesi nelle varie zone attraverso il volger dei secoli, e non manca di riferire perfino i principali miti connessi con la natura e con le vicende dei più remoti abitatori.
Mettendo decisamente da parte, per suggestivi e interessanti che siano, codesti rilievi storico-letterari delle pagine prese in esame, mi limiterò a sottolineare quei dati e quei ragguagli tanto fisici che an­tropici che, a mio giudizio, meglio s’adeguano ai fini dello studioso di geografia storica, in quanto ci presentano i diversi aspetti d’uno stesso luogo attraverso le mutevoli vicende del tempo.
Impostata così la ricerca, ecco profilarsi una pregiudiziale di grande importanza: essa investe, com’è ovvio, il metodo di lavoro dell’antico geografo. Fino a che punto Strabone, nel trattare della Campania, poteva descrivere cose viste, e dove invece si limitava a ripetere quanto trovava già sistematicamente organizzato nelle sue fonti? Per quanto nulla trapeli in modo esplicito dalle sue parole, riesce ovvio postulare ch’egli avesse visitato il golfo di Napoli e le sue adiacenze, luoghi non solo vicini a Roma, dove certo Strabone trascorse molto tempo della sua vita, ma anche tra i più celebri e frequentati del mondo antico proprio in quei decenni che segnarono la fine della repubblica e il principio dell’impero. Napoli, ad esempio, era una città altamente intellettuale: le vicende della vita di Virgilio ne danno ampia documentazione. Strabone stesso, dove riferisce di coloro che vi andavano a soggiornare per evadere dalla vita romana, pone in prima linea gli uomini dediti ad attività culturale, ed è molto probabile parlasse così perché sentiva di appartenere alla loro categoria. Ma c’è di più: tra i non molti luoghi della terra enume­rati nel primo libro, figurano un’accuratissima descrizione della Punta della Campanella, la menzione di Napoli e della tomba della Sirena Partenope, nonché un sommario ragguaglio delle principali località dei campi Flegrei, tra cui non sorprende di trovare il Vesuvio: Stra­bone infatti, nell’associarlo a Cuma, a Pozzuoli, al Fusaro e all’Averno, aveva certo di mira non l’esatta determinazione dei luoghi, ma il punto saliente che li accomunava e li accomuna, voglio dire la natura vulcanica.
Tuttavia, per buon conoscitore che fosse della Campania e più particolarmente del golfo di Napoli, Strabone seguiva con diligenza una fonte perpetua, voglio dire gli undici libri geografici composti verso il 100 a.C. da Artemidoro di Efeso. Il nostro lo nomina ben cinquanta volte, cinque delle quali proprio nel corso dei libri V e VI. Inoltre la descrizione delle coste campane equivale a due capitoli dell’opera del naturalista Plinio, e questi non manca di citare Arte­midoro proprio come una delle sue principali fonti geografiche.
Da quanto son venuto rilevando, è facile dunque arguire la dili­genza con cui passo passo va distinto e separato ciò ch’è artemidoreo e quindi precede d’un secolo l’inizio della nostra èra da ciò ch’è straboniano e perciò appartiene all’ultimo ventennio dell’impero di Augusto. Ove poi si consideri che anche Artemidoro ebbe le sue fonti, e che l’opera storica di Timeo di Taormina (350-250 circa a.C.) costituiva per lui una miniera anche geografica ed etnografica, bisognerà star ben cauti al cospetto di una veramente complessa stratificazione di dati, pur tutti degni di studio in quanto ci lasciano intravedere quel poco che resta dei più antichi tentativi di tracciare una geografia del nostro paese.
Dopo il paragrafo introduttivo (4,3), in cui Strabone accenna alla questione dibattutissima e forse insolubile degli Ausoni e degli Opici-Osci e celebra con parole famose la feracità del suolo cam­pano, riferendosi tanto ai cereali che alle specialità vinicole, comincia la descrizione del litorale a partire da Sinuessa. Il geografo menziona Literno con la tomba di Scipione Africano Maggiore, e specifica: accanto alla città passa un fiume dallo stesso nome. Si tratta evi­dentemente del Clanius, l’antico fiume che bagnava le campagne d’Acerra e sboccava a mare nei pressi del lago di Patria; canalizzato dai Borboni, reca oggi il nome di Regi Lagni. Glanis lo chiama Licofrone, nel suo poema composto poco dopo il 295 a.C, ispi­randosi certo a Timeo; fiume di Cuma lo denomina impropriamente Stefano Bizantino; non è da escludere che Strabone, magari attra­verso Artemidoro, calchi qui le orme di Timeo. La coincidenza del nome di Literno città col nome del fiume che le passa accanto sug­gerisce a Strabone quella tra il Volturno fiume e la città omonima sulle sue rive: l’ordine, poiché la trattazione procedere da N – O, risulta invertito, tanto vero che dalla descrizione del corso del Vol­turno si passa senz’altro a parlare di Cuma.
Ed ecco ormai che il racconto si fa assai più vivo e circostan­ziato; Strabone descrive luoghi di cui ha diretta conoscenza: il lito­rale vicino alla città è scoglioso ed esposto, e vi si fa ottima pesca di grossi pesci; in questo golfo v’è anche una boscaglia cespugliosa per l’estensione di parecchi stadi, sabbiosa e priva di acqua, che chia­mano selva Gallinaria. Colà i navarchi di Sesto Pompeo radunarono le proprie soldataglie piratesche, allorché questi fece ribellare la Si­cilia (V 4, 4). La cosiddetta guerra siciliana si chiuse col 36 a. C: siamo dunque certi che Strabone descriveva i luoghi com’erano ai suoi tempi, attingendo da notizie di contemporanei, e forse anche riferendosi a esperienze personali.
Lo stesso si può dire della descrizione delle coste da Cuma a Pozzuoli, vero modello di precisione topografica. Tra Cuma e Miseno, la palude Acherusia, che Strabone chiama emanazione paludosa del mare, e con cui allude certo al lago Fusaro. Che la sua fonte non sia qui Artemidoro, si desume benissimo, come ha osservato il Beloch, da un’osservazione successiva: il nome di palude Acherusia era dato da altri al lago Lucrino, da Artemi­doro al lago d’Averno. Si vede che nel corso d’un secolo l’onoma­stica leggendaria dei luoghi aveva subito modifiche: è importante rilevare che Plinio, pur attingendo di norma da Artemidoro, que­sta volta concorda col nostro.
Doppiato il capo Miseno, Strabone ricorda uno stagno proprio sotto la vetta: gli editori dai tempi del Cluverio correggono stagno in porto, ma io esito a seguirli, pensando alla distesa d’acqua che oggi chiamano Mare Morto. Mi limito ad osservare che, quando Strabone scriveva queste righe, certo Augusto non aveva ancora fatto di Miseno il gran porto militare di cui ci attestano Svetonio, Ta­cito, ecc.
Al capo succede l’insenatura di Baia, di cui Strabone sottolinea la tipica forma sinuosa e menziona le terme; segue a questo punto la trattazione del Lucrino e dell’Averno, che comporta una serie di divagazioni mitiche e di reminiscenze letterarie. Mi asterrò, in questa sede, dal discutere l’evoluzione delle leggende relative secondo Eforo, Timeo, Artemidoro, anche perché una diligente ricerca in proposito fu già condotta dal Beloch, dallo Steinbruck e da altri; vale invece la pena di porre qui di seguito i vari accenni descrittivi, che Strabone ha certo attinti dalle proprie esperienze personali e che sono questi: A Baia è vicino il golfo di Lucrino e nell’interno di questo l’Averno, che forma una penisola prolungatesi fino al Miseno, a partire dal tratto di terra compreso fra esso e Cuma: non resta infatti che un istmo di pochi stadi lungo la galleria verso Cuma stessa e il mare prospiciente… l’Averno è un’insenatura profonda dall’imboccatura ristretta, avente l’ampiezza e la natura d’un porto, ma di porto non consente l’impiego, poiché gli sta davanti il golfo di Lucrino, esteso e poco profondo. L’Averno poi è cinto da ciglioni a strapiombo che gl’incombono da tutte le parti fuorché all’imboc­catura e che attualmente sono lavorati a colture, ma prima erano rive­stiti d’una selva selvaggia e inaccessibile per la grandezza degli alberi, in modo da ombreggiare il golfo e favorire la superstizione… ora peraltro che la selva intorno all’Averno è stata recisa da Agrippa e nei luoghi si sono costruiti edifici e dall’Averno è stata scavata una galleria sino a Cuma, tutte quelle narrazioni sono risultate fole; Coc-ceio poi fece quella galleria attenendosi in qualche modo al racconto suddetto circa i Cimmeri, forse perché riteneva che le vie in gal­leria costituissero una tradizione atavica in quei luoghi (V 4,5). Il golfo Lucrino s’estende poi fino a Baia, diviso dal mare esterno mercè un argine lungo otto stadi e largo quanto un’ampia carreg­giata, che dicono fosse ammonticchiato da Ercole quando conduceva i buoi di Gerione; poiché peraltro durante le tempeste si copriva di acqua sì da non poter essere facilmente praticato, Agrippa lo fece più alto. Ha un’imboccatura adatta a navi leggere, ma non è buono da ormeggiar visi, mentre procura una pesca ricchissima di ostriche… viene quindi il litorale di Dicearchia e la città stessa di questo nome, che fu in origine un approdo dei Cumani, costruito sopra un ciglione… (V 4,6).
Dopo le solite divagazioni storico-mitiche, Strabone passa quindi a sottolineare l’importanza di Pozzuoli come porto commerciale, e accenna ai requisiti edilizi della pozzolana, che rende possibile la costruzione di ormeggi artificiali, coi quali le spiagge aperte si tra­sformano in golfi; conclude quindi il paragrafo con queste parole: subito sopra la città si trova la piazza di Efesto, una spianata cinta da ciglioni vulcanici, con frequenti bocche infocate e alquanto fra­gorose; la pianura è piena di fiori di zolfo.
In tutta la descrizione da Baia a Puteoli si risente una diretta conoscenza dei luoghi, aggiornati alle condizioni in cui si trovavano quando Strabone vi fu. L’aver messo in rilievo l’istmo tra Cuma e l’Averno si giustifica solo in quanto rispondeva al tracciato sotter­raneo del cunicolo eseguito da Cocceio per ordine di Agrippa: esso era ancora praticabile prima dell’ultima guerra, quando uno scoppio di munizioni lo ridusse in pessime condizioni. Opera di Agrippa era pure il disboscamento, che aveva spogliato i luoghi della loro originaria sacertà; Stradone ironizza sulla simpatia di Cocceio per i cunicoli, quasi che avesse voluto emulare gli antichi Cimieri della zona, abitatori di case sotterranee. Quanto all’altro lavoro di Agrippa, quello inteso a preservare dai marosi l’argine tra il Lucrino ed il mare, noto il contrasto palese tra la descrizione di Strabone e il verso properziano Qua iacet Herculeis semita litoribus (I 11,2): semita significa stradina, viottolo che è ben altra cosa rispetto all’ampia carreggiata cui allude Strabone. Il carme di Properzio appartiene a un libro pubblicato non prima del 28 a. C, ma certo dopo il 37, l’anno in cui Ottaviano fece costruire in onore di Cesare il Portus Julius, congiungendo l’Averno al Lucrino ed entrambi al mare. Di questi lavori parla Virgilio (Georg. II 161 sgg.), ne tace Stradone, ma io credo di cogliere nelle sue parole qualche richiamo sottinteso: perché dichiarare che l’Averno, malgrado la forma e l’ampiezza ido­nea, non si prestava a far da porto per colpa del Lucrino, e che questo non è buono da ormeggiarvisi, ma serve piuttosto da vivaio? Evidentemente il Portus Julius ebbe poca fortuna: dopo qualche tempo anzi Agrippa stesso volle consolidare lo sbarramento laterale dalla parte del mare aperto, trasformando la semita, cui alludeva ancora Properzio, in una strada ampia e comoda, che facilitasse il traffico tra Baia e Pozzuoli. A migliorare e semplificare la stessa viabilità mirava naturalmente anche la galleria scavata pure in quegli anni da Cocceio nella collina di Posillipo.
Aggiungiamo ancora due rilievi non privi d’interesse. Gli otto stadi della via di Ercole possono sembrare molti a chi consideri oggi la lunghezza del tratto di strada che costeggia il Lucrino: bi­sogna tuttavia tener conto delle conseguenze della famosa eruzione del 1538, che fece sorgere di fianco al lago la collinetta del Monte Nuovo. Infine è stato notato dal Beloch che la coltura delle ostriche fu introdotta nel Lucrino un po’ prima della guerra sociale e che la relativa notizia può essere ereditata dall’opera geografica di Artemidoro. Non ho nulla da eccepire di fronte all’esplicita testi­monianza di Plinio (IX 54,168); ritengo tuttavia del tutto inutile, fra tanti particolari collegati a esperienze dirette del nostro, voler ricondurre a consultazione di fonti proprio il più ovvio e banale.
Ed eccoci alla descrizione di Napoli. Il Beloch fa notare la so­miglianza tra il modo come Strabone presenta la storia della città e quello con cui lo stesso ci parla di Cuma, e pensa, come al solito, ad Artemidoro. Indubbiamente due città greche così importanti e ricche di vicende avevano già attirato da epoca remotissima l’in­teresse degli scrittori. Per esempio l’imbarbarimento di Cuma ad opera dei Campani circostanti, che avevano assoggettato malamente gli abitanti della città e s’erano congiunti con le donne greche risale ad un’epoca per lo meno anteriore a Timeo; l’immigrazione degli stessi Campani tra le mura di Napoli, provocata da lotte interne e il graduale infiltrarsi dei loro nomi nelle liste dei demarchi prima tutti greci e poi greci e oschi appartengono certo al periodo che tenne dietro all’invasione della Campania da parte dei Sanniti; inol­tre la notizia sulla tomba della sirena Partenope e sull’agone ginnico in suo onore derivano certamente da Timeo, di cui abbiamo un sunto presso Tzetze a Licofrone: Timeo dice che il navarco ateniese Diotimo, giunto a Napoli, sacrificò a Partenope secondo un vaticinio e istituì una corsa di fiaccole, per cui ancor oggi l’agone con le fiaccole ha luogo presso i Napoletani (fr. 98 Iac). Eppure anche il paragrafo straboniano relativo a Napoli lascia cogliere vari elementi ed aspetti che svelano l’immediata partecipazione dello scrittore: Dopo Dicear-chia viene Napoli… colà sopravvivono molte tracce di cultura greca, ginnasi, collegi d’efebi, associazioni e nomi greci, sebbene in sostanza si tratti di Romani. Proprio ora si celebra presso di essi il sacro agone quinquennale, musico e ginnico, per diversi giorni, degno di stare al pari coi più famosi della Grecia. Vi è colà anche una gal­leria scavata nella montagna tra Pozzuoli e Napoli come quella che mena a Cuma, e vi si apre una via praticabile a carri nelle due dire­zioni opposte per parecchi stadi. E la luce dalla superficie del monte filtra fino a grande profondità, essendo state tagliate in molti punti delle lustriere. Napoli possiede sorgenti d’acque calde e stabilimenti di bagni non inferiori a Baia, ma molto minori per numero: colà infatti, a forza di costruire ville su ville, che sono autentiche regge, è andata formandosi un’altra città, grande quasi quanto Pozzuoli. A Napoli poi fanno continuare la maniera di vivere greca quelli che vi riparano da Roma per stare tranquilli: uomini dediti alla cultura ovvero anche altri che vogliono vivere in pace perché vecchi o ma­lati; e taluni Romani che si compiacciono d’un tal genere di vita, vedendo la folla di coloro che vi dimorano secondo lo stesso modo dì vivere, s’affezionano al luogo e finiscono col rimanervi (V 4,7). Il quadro non potrebb’essere più vivo e più completo: si sa benis­simo che, pur atteggiandosi a Greci nei costumi — palestre, collegi, associazioni e fin nomi propri — gli abitanti della città sono in gran parte immigrati provvisori dall’Urbe: li chiamano a Napoli l’alto tono di vita intellettuale, l’attrattiva delle terme, un bisogno d’evasione e di distensione. Strabone parla certo per esperienza propria, un’esperienza che fu comune a Cicerone, a Virgilio, a quasi tutte le personalità più in vista d’allora. Ma sopra tutti questi rag­guagli la nostra attenzione è polarizzata dalla descrizione della grotta. Il paragone con la grotta di Cuma si trova ripetuto due volte: prima a p. 337 1. 6, poi a p. 338 1. 29. Il primo luogo ha tutta l’apparenza d’una nota entrata nel testo: essa tuttavia, anche se non di Stra­bone, ci riesce ugualmente preziosa, in quanto assicura che pure il cunicolo tra Pozzuoli e Napoli fu opera di Cocceio. Questo doveva apparire come un prodigio d’ingegneria, sia per l’ampiezza, sia per la illuminazione attraverso profonde feritoie. Altro particolare di molto rilievo è infine il breve ma efficacissimo schizzo di Baia; lo troviamo fuori posto, in quanto inserito nella descrizione di Napoli, ma evidentemente le solite fonti non potevano dare notizia d’una località venuta di moda soltanto in quegli anni. Strabone invece non poteva mancare di parlarne, e chi ha visto coi suoi occhi lo spettacolo solenne degli scavi recenti, che presentano un digradare di superbe rovine lungo il pendio collinoso, corre subito colla mente alle ville principesche addossate le une alle altre in una gara di grandiosità e di sfarzo che pei felici abitanti di Baia costituivano lo spettacolo di tutti i giorni.
Di Ercolano Strabone ci parla come d’una fortezza con uno sprone proteso nel mare e ben ventilato dal Libeccio (V 4,8): il litorale oggi non consente identificazioni possibili, ma non è diffi­cile immaginare che la cittadina, vista dal mare, si presentasse allora con una prominenza di edifici costieri, tali da rispondere a questi tratti descrittivi. Seguono Pompei, Nola, Nocera e Acerra, e la fa­mosa descrizione del Vesuvio, che certo deriva di Timeo. Banali notizie tratte da un periplo, probabilmente da Artemidoro, sono quelle relative a Sorrento e alla punta della Campanella: ma ecco, a conclusione delle pagine destinate al cratere, cioè alla coppa in­clusa tra i due promontori, il Miseno e l’Ateneo, un altro felicis­simo sprazzo di luce: il cratere è completamente costellato dalle città che abbiamo dette, nonché da ville e da giardini, e queste e quelli, trovandosi frammezzo l’una di seguito all’altro, porgono l’aspetto d’una sola città (V 4, 8).
Nel racconto che segue si possono distinguere tre nuclei: Ischia e Capri, retroterra campano, coste del golfo di Salerno.
Non entro in merito circa la colonizzazione greca della prima isola e i fenomeni di natura vulcanica che più volte l’avrebbero fatta abbandonare dagli abitanti. Strabone non ha certo trascurato d’at­tingere alle sue solite fonti greche, in primo luogo a Timeo, eppure egli non manca di riferirci, anche questa volta, una notizia dei suoi tempi, un dato del più alto interesse: Capri in origine aveva due villaggi, in seguito uno solo. I Napoletani l’occuparono; più tardi però riebbero sì Pitecuse, che avevano perduta in guerra, per con­cessione di Augusto, ma questi volle Capri come suo possesso privato e vi fece edifici (V 4,9). Cominciarono così le vicende mondane dell’isoletta, che dovevano essere immortalate dal lungo e misterioso soggiorno di Tiberio.
Quanto al retroterra campano, Strabone diventa conciso, se non addirittura sommario: i luoghi sono meno celebri, meno abbondanti di notizie i testi da cui poteva attingere. Oltre Capua, della quale riporta una etimologia diffusa certo dall’annalistica romana, facen­dola derivare da caput, il geografo nomina ancora Teano, Casilino (l’odierna Capua) nonché Cale, Suessula, Atella, Nola, Nocera, Acer-ra e Avella. La concisione è tale, che nulla possiamo congetturare circa le condizioni di sviluppo e di floridezza di queste cittadine. Di Nocera ad esempio sappiamo da Floro che era stata distrutta l’89 da Papio Mutilo e rovinata ancora nel 73 durante la guerra servile; ma ciò non basta per desumere dal silenzio di Strabone che tali avvenimenti non fossero ancora registrati dalla sua fonte perché posteriori ad essa e che quindi il nostro avesse attinto anche questo luogo da Artemidoro: il ragionamento dello Steinbruck mi pare infondato.
Venendo infine alle coste del golfo di Salerno, Strabone si sof­ferma parecchio sui Picenti, trasferiti colà per iniziativa romana dalle coste dell’Adriatico, e sulla loro metropoli Picenzia, distrutta poi dai Romani stessi per punirne gli abitanti della connivenza con Annibale, ma assai poco ci dice dei luoghi: nomina il seno pestano, ubica Marcina nel bel mezzo tra le Sirenusse e Posidonia e specifica che l’istmo da Marcina a Pompei attraverso Nocera non supera i 120 stadi; da ultimo nomina Salerno, fortificata dai Romani, non proprio sul mare, ma a poca distanza da esso (V 4,13).
Pur riconoscendo col Beloch che Strabone, nel capitolo sulla Campania, abbia fatto largo uso di fonti geografiche e storiche, non ci sentiamo tuttavia di sottoscrivere il suo severo giudizio: «Stra­bone non è né più, né meno di un compilatore, e diciamolo pure, un compilatore poco abile». Le pagine che siamo andati illu­strando presentano molte osservazioni dirette dello scrittore, molte vivaci impressioni di viaggio; lo prova la stessa superficialità sciatta e sommaria con cui egli passa invece in rassegna le parti del retro­terra, di cui certo non aveva personale esperienza.
La descrizione del cratere, cioè del golfo meraviglioso di Napoli, incorniciato tra le arcane bellezze dei campi Flegrei e la mole gigan­tesca del Vesuvio resta invece a documentare nei millenni il profondo spirito d’osservazione e il vigore descrittivo d’un grande geografo.

La Campania in Straboneultima modifica: 2021-02-24T13:02:18+01:00da masaniello455