Napoli: il dominio normanno

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Tramontato il Ducato, Napoli passò sotto la guida dei Normanni che già da tempo si erano insediati in alcune loca­lità dell’Italia meridionale.
Ruggero il Normanno entrò in città nel settembre del 1140, tra le più fe­stose accoglienze non solo del popolo, ma dei nobili, dei cavalieri e del clero che gli andarono incontro fuori la porta di Capua e lo scortarono fino all’Epi­scopio. I napoletani sono facili agli en­tusiasmi e può ben essere che i nor­manni avessero scaldata la loro fantasia e il loro sentimento. Quegli uomini del Nord, che, in periodo pienamente sto­rico, seppero crearsi una leggenda epica, con avventure e imprese quasi incredi­bili, si conquistarono l’animo di questa gente del Sud, amante delle audacie sensazionali. Tanto più che Ruggero, il giorno seguente il suo ingresso in Na­poli, volle rendersi conto dello stato della città, attraversandone le strade a cavallo e, convocato il popolo nel ca­stello del Salvatore, parlò affabilmente, discutendo con esso della libertà e degli interessi dei cittadini e promettendo buone cose a tutti per il futuro.
In seguito Ruggero, pur avendo vi­sitato Salerno, Capua, Gaeta ed Aver-sa, non tornò più a Napoli. Ma non venne meno alle promesse e governò con giustizia e saggezza, senza far sen­tire alla città il peso del suo dominio; ne fece duca il figlio Anfuso; e, morto costui (1144), insignì dello stesso titolo l’altro figlio Guglielmo, principe di Tarante e di Capua.
Mantenne in vita, almeno formalmente, gli antichi ordinamenti giuridici e amministrativi, ma soppresse ogni au­tonomia reale ed ogni avvio alla isti­tuzione di un libero comune napole­tano. Sicché mentre il Comune si affer­mava, nell’Italia Settentrionale, come la nuova forma di libero regime delle grandi e medie e piccole città, impri­mendo, ovunque, un potente impulso di vita nuova; nel Sud la dominazione degli stranieri assumeva la forma sta­gnante del regime feudale.
Gran politico, ma idolatra della po­tenza dello Stato accentratore, Ruggero finse di rispettare l’autonomia di Na­poli, mostrandosi benigno verso i na­poletani e cattivandosene l’animo con concessioni e privilegi, come pure fe­cero i suoi discendenti, specie Gugliel­mo II e Tancredi, verso i quali pure essi si mostrarono grati e fedeli.
Il re Ruggero morì nel febbraio del 1154. Gli successe il figlio Guglielmo I, passato ai posteri – – non sappiamo con quanta giustizia – con l’attributo di « il Malo ». Il suo regno fu agitatissimo: contro di lui si mossero, tutti in­sieme, papa Adriano IV, il Barbarossa, l’imperatore di Bisanzio Emanuele Comneno, i vassalli, sobillati e guidati dal cugino, conte di Loritello. La guerra raggiunse il punto cruciale nel biennio 1155-1156: i bizantini occuparono le città pugliesi, i vassalli la Terra del La­voro e Roberto di Capua si accampò ad Aversa. Ma Napoli, Salerno ed Amalfi resistettero, per opera, soprattutto, di Maione di Bari, sagace consigliere di re Guglielmo.
Ai re normanni, i napoletani ebbero occasione di rinnovare le manifestazioni della loro fedeltà, quando, nel dicem­bre del 1176, le feste natalizie furono rallegrate dall’arrivo della sposa di Gu­glielmo II, Giovanna d’Inghilterra, giunta con una scorta di 25 navi e ac­compagnata dall’arcivescovo di Capua, Alfonso, dal conte di Caserta, Roberto, e da largo seguito di funzionati siciliani.
Il popolo napoletano ama i contra­sti. E come aveva affibbiato l’epiteto « il Malo » al padre, così gratificò quel­lo di « il Buono » al figlio. La storia ci ha mandato assai poco di lui; Dante lo definisce « il giusto rege »: e avrà, cer­to, avuto i suoi motivi che noi ignoria­mo. Non pose mai piede a Napoli, ma fu a Capua e a Salerno. Gli successe il nipote Tancredi, conte di Lecce (1180), ma l’aristocrazia normanna avrebbe pre­ferito vedere sul trono la figlia di Ruggiero, Costanza, moglie di Enrico VI, quella che Dante incontra nel ciclo del­la Luna, e della quale fa dire a Picarda Donati:
« Quest’è la luce della gran Costanza,
che, dal secondo vento di Soave,
generò il terzo e l’ultima possanza ».
Fu l’odio per i tedeschi, fortissimo nell’Italia Meridionale, ma più in Sici­lia, che fruttò a Tancredi il trono. Co­stanza aveva il primato della legittimità; ma era moglie di un tedesco: perciò fu scartata. Tancredi, brutto di faccia e basso di statura rappresentava un’ec­cezione fra i normanni. Ma possedeva una mente acuta e sagace. Egli esordì nel regno, compensando quanti lo ave­vano favorito. E Napoli, specialmente, dove la discordia fra le classi aveva avuto fine, Sessa e Gaeta ottennero da lui larghi privilegi tra il 1190-91.
Tancredi considerò Napoli la città a lui più devota: tanto che, avendo la popolazione di Palermo dimostrata vi­va simpatia per Costanza, egli la fece trasferire a Napoli, nel castello del Sal­vatore e ve la ritenne prigioniera, sotto la custodia di Aligerno Cottone, fino a quando, liberata, per intervento del papa, potè tornare in Germania.
Enrico VI ebbe ragione della tenace resistenza di Napoli solo nel 1194. La flotta sveva, pisana e genovese, conqui­stata Gaeta, navigò verso Napoli e l’imperatore marciò contro la città, alla testa del suo esercito, dalla parte di terra.
Tancredi era morto, non vinto. E il regno, debolmente rette dalla regina ve­dova Sibilla, tutrice del figlio minoren­ne re Guglielmo III, non era in grado di resistere. I napoletani, perciò, che già avevano inviato ambasciatori allo Svevo, quando questi era ancora a Pi­sa, gli aprirono le porte della loro città. E toccò ad Aligerno Cottone il triste ufficio di riconoscere l’autorità imperia­le. Nello stesso tempo si sottomisero Ischia, Procida, Capri. Ma la sottomis­sione non evitò che Enrico VI punisse i napoletani, nel modo per essi più of­fensivo, l’abbattimento delle mura, che avevano sempre avuto un ruolo deter­minante per la loro difesa. Anche dopo, le mura furono ricostruite, tanto è mu­tevole il corso della storia. Ma per quel­l’atto, che essi considerarono oltraggio, l’odio che già i napoletani nutrivano contro i tedeschi, si rinfocolò.
Sotto i normanni, nonostante le in­quietudini e le guerre, la città aveva potuto prosperare nei commerci, anche per il declino già iniziato di Amalfi, per cui il porto di Napoli ridiveniva il più trafficato della Campania. A Napoli, i normanni avevano il loro fondaco di terraferma più importante, congiunto con la Dohana. La popolazione, sulla fine del secolo XII, oltrepassava — pa­re — i 40.000 abitanti, ma la città non si era proporzionalmente estesa in su­perficie. Tuttavia, l’edilizia dovè pur co­struire, in numero più o meno rilevan­te, degli edifici, in quello stile siculo-normanno, di cui ammiriamo una così ricca fioritura d’arte in altre città del Mezzogiorno e, specialmente, in Sicilia, ma di cui nulla avanza a Napoli, quasi per un singolare destino di alcune ci­viltà che vi dominarono, come nessun documento esiste, in base al quale ci si possa fare un giudizio esatto sulla cultura del tempo. In Napoli normanna vivevano — lo sappiamo dalle relazioni dei viaggi in Italia di Beniamino Tudela, — 500 famiglie ebraiche, anima del commercio cittadino, 600 a Salerno, 300 a Capua. Ma non si sa con cer­tezza se gli ebrei fossero anche qua con­finati nei ghetti – iudeca – benché sussistano ancora una strada e un vicolo della Giudecca. La denominazione po­trebbe esser derivata dal fatto che gli ebrei vi svolgevano le loro attività com­merciali, come per la Loggia dei Pisani, così detta perché quella colonia vi ave­va il suo fondaco.

Napoli: il dominio normannoultima modifica: 2021-02-24T14:17:04+01:00da masaniello455