Napoli: il ducato autonomo

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Sul frontone principale del palazzo reale di Napoli c’è, nelle statue dei re, la sintesi pietrificata della storia di Na­poli. Manca – però – la statua che raffiguri il Ducato Autonomo. Omis­sione grave, perché, certo, il monumen­to avrebbe concorso a far conoscere al popolo napoletano che non sempre, lun­go il corso della storia, esso fu assog­gettato a dominazioni straniere, ma eb­be un periodo di gloriosa indipendenza, durante il quale i napoletani dimostra­rono fierezza, ardimento, spirito di di­sciplina civile e capacità di lotta e di vittoria, confermando l’esperienza sto­rica di Niccolo Machiavelli, il quale af­ferma che le nazioni tanto più danno il massimo di sé alla cosa pubblica, quanto più sono consapevoli di difendere la propria libertà. Quanti napoletani sanno – mi domando — chi fu quel Cesario Console, al quale è intitolata una delle più belle vie cittadine? Io penso che – se ne fossero richiesti -si troverebbero in un imbarazzo peg­giore di quello in cui si trovò Don Abbondio di fronte al nome di Carneade. La scarsa conoscenza della propria sto­ria contribuisce, purtroppo, a formare quei complessi di inferiorità che trasci­nano i popoli alla decadenza. Perciò, Ugo Foscolo ammoniva gli italiani allo studio della loro storia; e con questo fine, io penso, storici maggiori e mino­ri hanno tenuto a scrivere la storia di Napoli, e ricordo qui Benedetto Croce, Michelangelo Schipa, Gino Doria, dal­le cui opere – lo dichiaro una volta per tutte – ho tratto, come da fonti inesauribili, tanti dati e tante notizie. I quattro secoli del Bucato Autono­mo rivelano tutte le virtù del popolo napoletano: dall’audacia più ardimen­tosa alla prudenza più saggia, messe a servizio di una politica intesa a preser­vare l’indipendenza del piccolo Stato dalle invasioni straniere e dai pericoli di disgregazione interna, in un periodo in cui lotte di razze e di contrastanti interessi, per quanto violente, andarono sempre ad infrangersi, come marosi con­tro scogliere, ai piedi delle mura di Na­poli. I papi, i longobardi, i re franchi, gli imperatori bizantini, i predoni sara­ceni, il furore musulmano, tutto si spezza di fronte alla sapiente politica dei napoletani, che, con un gioco ge­niale di alleanze e di ostilità, ora con la guerra, ora con la pace, con la scaltrez­za e l’astuzia dei trattati, sempre all’er­ta, riescono a deludere e a frustrare le cupidigie di quanti agognano alla bella preda.
I duchi, infatti, non solo provvede­vano alla difesa della indipendenza di Napoli, con una politica saggia, corag­giosa e lungimirante, ma ne incremen­tavano le industrie, i commerci, la cul­tura, le arti, facendone un centro di ci­viltà degno di gareggiare con i maggiori d’Italia e delle altre nazioni.
Un solo punto al passivo di Napoli deve segnalarsi nel secolo X: la perdita del primato marittimo, che passò ad Amalfi.

La popolazione di Napoli, nel perio­do aureo della sua storia, era salita a circa 40.000 abitanti. Ma, agli inizi dell’XI secolo, dovè ridursi intorno ai 30 mila, su per giù quanti ne contava nel­l’epoca greco-romana. La superficie del­la città era, però, alquanto più vasta, a giudicare dalla pianta delle mura, che lo storico Bartolomeo Capasso fece esegui­re per le sue ricerche topografiche su Napoli medioevale. Si era ampliata spe­cie a sud, col nuovo Castello, le chiese e i conventi fuori mura, il campo Mo­ricino, dove si andarono stabilendo log­ge e banchi di mercanti, che conferi­rono alla zona quel caratteristico aspet­to di immenso bazar, che ancora con­serva, in piazza del Mercato e adiacenze.
Il traffico marittimo era assai vivo. I due porti, l’Arcina, tra l’Immacolatella Vecchia e la moderna via Depretis, e il Vulpilum, a Piazza Municipio e adiacenze, anche quando decadde la na­vigazione napoletana di lungo corso, continuarono ad avere un movimento intenso di piccolo cabotaggio per le na­vi che trasportavano a Napoli i pro­dotti dei campi e della pesca, da Gaeta, da Salerno, da altri punti del golfo.
Una caratteristica della città erano le case a due piani, circondate da orti e giardini, che man mano scomparvero, invasi da fabbriche al tempo di Carlo II d’Angiò. Un particolare ornamento era­no i portici, uno dei quali, bellissimo, e dal quale si spaziava su un meravi­glioso panorama, sorgeva intorno al Palazzo dei duchi; ed altri ne sorgevano in tanti altri punti della città, che si tra­sformarono, poi, nei « tocchi » o « se­dili ». La città era ricca di bagni pub­blici, secondo la tradizione greco-roma­na, e offriva tante altre attrattive e comodità, che ne rendevano amabile e confortevole il soggiorno. Ma il suo ve­ro splendore architettonico veniva dalle chiese, le due più antiche delle quali, Santa Restituta, già esistente, sotto al­tro nome, fin dal IV secolo e la Stefania – così detta perché ricostruita, nell’VIII secolo, da Stefano II, dopo un incendio — congiunta alla prima, co­stituivano la Sancta neapolitana eccle­sia, la Cattedrale, che un anonimo agiografo di S. Atanasio paragonò al Vec­chio e al Nuovo Testamento. Santa Re­stituta, prima basilica di Napoli, intito­lata al Salvatore, nella restaurazione angioina del Duomo perdette la faccia­ta ed alcuni elementi, ricostruiti in for­ma gotica e deformati, in seguito, dal restauro del 1808. Attualmente, è una cappella del Duomo con 27 colonne an­tiche, a tre navate, di cui, quella di de­stra, conserva frammenti di un affre­sco della scuola del Cavallini; la cen­trale è stata affrescata da Luca Gior­dano.
Di fronte alla basilica c’erano il bat­tistero e la chiesa di San Lorenzo Mag­giore, antichissima e di somma impor­tanza artistica, la cui storia è stretta­mente collegata non solo alla vita reli­giosa, ma agli avvenimenti civili della città. Sulla facciata, rifatta dal Sanfelice nel 1742, si vede ancora il bellissimo portale del 1325. In San Lorenzo G. Boccaccio si innamorò di Fiammetta, la figlia naturale di re Roberto, Maria d’Aquino. Sulla destra, è il convento francescano con un portale del 400, sormontato dagli stemmi a colori dei Seggi, cioè delle rappresentanze dei va­rii rioni della città. Vi fu ospite Fran­cesco Petrarca, nel 1345. Divenuto in seguito sede del Tribunale di San Lo­renzo, il convento cadde in possesso del Comune di Napoli, il quale, lo trasfor­mò in uffici e depositi, che arrecarono ad esso gravi danni.
C’erano, poi, le quattro basiliche cattoliche maggiori: S. Giorgio, che la tra­dizione vorrebbe fondata da Costantino, ma, in realtà, è opera di S. Severo e ri­sale al IV secolo; i SS. Apostoli, fon­data nel 468 dal vescovo Sotero; S. Maria Maggiore, fondata dal vescovo san Pomponio, intorno alla metà del VI secolo; e S. Giovanni Maggiore, an­che questa attribuita a Costantino, ma storicamente fondata dal vescovo Vin­cenzo, tra il 555 e il 560. San Giorgio Maggiore fu rifatta, nel secolo XVI, dal Fanzago, dopo un violento incendio.

Napoli: il ducato autonomoultima modifica: 2021-02-24T14:18:28+01:00da masaniello455