Napoli nel seicento

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Nel Seicento molte e originali furono le opere di architettura sorte in Napoli soprattutto per la genialità del Fanzago di cui ancora oggi ammiriamo S. Teresa a Ghiaia, S. Ferdinando, S. Maria degli Angeli alle Croci, S. Maria Egiziaca, la Certosa di S. Martino.
Ma più che l’architettura, fiorì la pittura. E’ noto che, nella Napoli sei-centesca, gli influssi della potente arte pittorica di Michelangelo Merisi da Caravaggio, creatore del luminismo italia­no, si fecero sentire su tutti gli artisti dell’epoca. Non passivamente, però. So­prattutto i pittori maggiori, Battistello Caracciolo, Bernardo Cavallino, Mattia Preti, — che dipinse i famosi pannelli della peste del 1656 per le porte della città — pur attingendo spunti e motivi alla grande arte caravaggesca, seppero infondere toni, movenze, espressioni nuove alle loro figurazioni; e così pure Massimo Stanzione, il Fracanzano, Salvator Rosa, che, interpretando il natu­ralismo e il colorismo congeniti ai napotani, precorsero quella transizione dal­la pittura del ‘600 a quella del 700, che si attua con Luca Giordano e con Francesco Solimena.
Nella seconda metà del Seicento, na­sce anche la musica nel senso tutto na­poletano di quest’arte. Si smette con le imitazioni veneziane e fiorentine; e il teatro di San Bartolomeo, costruito nel 1620, a gara con quello del Palazzo reale, diviene, a partire dal 1651, sotto il viceré d’Onate, il tempio del dramma musicale napoletano, ove si rappresentano le prime opere di Fran­cesco Provenzale e di Alessandro Scar­latti, iniziatori e precursori del nostro Ottocento musicale. I conservatori del­la città preparano le nuove generazioni di musici e di cantanti; e, insieme con essi, sorgono schiere di ballerini, di mi­mi, di scenografi, di vestiaristi, di at­trezzisti, che, a poco a poco, acquistano fama di bravura in tutta Italia e al­l’Estero.
Insieme con le arti, si afferma a Na­poli la nuova cultura. La vita del pen­siero, che si era precedentemente asso­pita, si riaccende alla luce viva della filosofia di Cartesio e dell’illuminismo di Hobbes, che relega in soffitta l’ari-stotelismo e il tomismo, e da inizio a quello che possiamo chiamare il nuovo corso della verità e della ricerca scien­tifica, con una serie di uomini geniali, quali Tomaso Cornelio, il Valletta, Leo­nardo di Capua, l’Ausilio ai quali spet­ta il vanto di avere spianato la via a Giovanbattista Vico. Né, per la verità storica, il nuovo pensiero fu imbava­gliato dal regime viceregnale spagnuo-lo: quantunque i sovrani di Spagna si atteggiassero a strenui difensori del cat­tolicesimo e si fregiassero con orgoglio del titolo di re cattolici, pure, sotto sot­to, si guardavano sempre in cagnesco col potere ecclesiastico, per via delle questioni giurisdizionali, di cui erano gelosissimi. Contro il nuovo pensiero intervenivano solo se sconfinasse in propaganda eversiva politica: per il resto, lasciavano correre.
Non progredirono molto, nel ‘600, le scienze giuridiche e neppure gli stu­di storiografici, sebbene questi fossero stati avviati, per opera del Capaccio e del Summonte, del Capecelatro e del Parrino, che fornirono molto materiale a Pietro Giannone. Ma avvio notevole ebbero le scienze economiche, per ope­ra del cosentino Antonio Serra, il qua­le meditando sulla miseria delle popo­lazioni meridionali, ne intuì per primo le cause e ne propose i rimedi, dando inizio agli studi per la soluzione di quel­la questione del Mezzogiorno, che, co­me la tela di Penelope, non arriva mai a un compimento definitivo. Trattato da visionario e cacciato in galera dal conte di Ossuna, il Serra è stato piena­mente riabilitato dal giudizio della sto­ria. Le cose del mondo vanno spesso così. Il Leopardi amaramente cantò: « Virtù, viva sprezziam, lodiamo, estin­ta ».
Napoli generosa ha intitolato ad An­tonio Serra l’istituto statale di econo­mia e commercio.
Ed eccoci alla poesia. Il Seicento na­poletano è il secolo di Giovanbattista Marino: poeta, senza dubbio dotatissimo di estro e di senso dell’armonia, di immaginazione anche troppo viva e di virtuosismo coloristico, gran conoscito­re della lingua, ma privo di potenza creativa e di quel freno d’arte, che gli avrebbe risparmiato la ridondante gon­fiezza e vacuità, che i critici gli rimpro­verano e che spesso ha causato la messa in evidenza più dei difetti che dei pregi della sua poesia, collocata in pes­sima luce dai suoi stolidi imitatori: i marinisti. Ma, dal flagello di costoro, la poesia napoletana si redense subito, accostandosi alla vena popolare, con le fiabe del « Pentamerone » e con le « Muse napoletane », di Giovambattista Basile, che si diffusero e piacquero in tutta Italia e in altri paesi d’Europa; e, se pure in grado minore, con la Vaiasseide e il « Micco Spadaro » di Giusep­pe Cesare Cortese e con gli scritti di altri poeti dialettali meno importanti, i quali descrivono tanto realisticamente la vita quotidiana del popolino napole­tano da farcene un quadro assai più chiaro che non tanti libri di storia. Na­turalmente, si scrissero anche opere da buttare al macero, di ogni specie, giu­stamente sepolte senza infamia e senza lode, perché nessuno le lesse, tranne i loro autori.
Intanto, però, lo stato della città pre­cipitava sempre più nel disastro econo­mico. Nel 1648. finanche soldati spagnuoli, detti, forse per questo, bisogni, chiedevano l’elemosina « con gravità spagnuola » come si esprime, umoristi­camente, il cronista. Sommosse, specie di donne, si verificarono al Lavinaio, per il diminuito peso della palata. L’in­flazione monetaria e la falsa monetazio­ne causarono lo svilimento della mo­neta; e i torbidi civili e l’insicurezza sociale ad opera del banditismo (dive­nuto tanto potente che il capo-brigante abate Cesare Riccardi osò imporre pat­ti al viceré per non chiudere completamente le vie, di cui era padrone, al vet­tovagliamento) gettarono la città nella situazione più disperata. Vi si aggiunse­ro le calamità di due terremoti, 1688 e 1692, che fecero vittime e rovine nelle province e in città, dove crollarono la cupola del Gesù Nuovo e la parte ri­manente del portico del Tempio di Castore e Polluce, incorporato nella chie­sa di S. Paolo.
Man mano, poi, che il regime vice-regnale spagnuolo volgeva al tramonto, si vennero acuendo le lotte fra nobili e plebei, che ebbero particolare recrudescenza sotto il viceré Pietrantonio d’Aragona, benemerito – dice il Doria — per miglioramenti edilizi, ma nel­lo stesso tempo spoliatore della città di opere d’arte. Allorché si verificò una gravissima rottura fra la nobiltà e il Viceré, il popolo stette dalla parte del governo. Avvenne, però, che, mentre, a Napoli, il Viceré minacciava fulmini e tuoni contro i nobili, i cui eletti si erano ritirati, per protesta, dall’ammi­nistrazione della città, a Madrid, la regina reggente approvava l’operato dei nobili.

Napoli nel seicentoultima modifica: 2021-02-24T14:05:34+01:00da masaniello455