Napoli nell’arte del ‘600

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Napoli spagnola, nel Seicento, è in contatto diretto con Roma. Vi si reca, quando
la morte di Sisto V ferma i lavori della riforma urbanistica romana, DOMENICO
FONTANA: tracciando una nuova strada lungo la marina e allargando alcune
arterie del vecchio centro guida l’espansione della città verso il mare e la mette in
rapporto col suo ambiente paesistico naturale. L’artista che determina il volto
barocco della città è il bergamasco COSIMO FANZAGO (1591- 1678), la cui
attività vastissima ma spesso ridotta a interventi parziali in chiese e palazzi
segna piuttosto una riforma del gusto che l’instaurazione di una nuova
concezione dello spazio architettonico. Non c’è, come a Roma, un problema
ideologico di fondo, la volontà di dare un significato profondo alla forma urbana,
di caratterizzarla con il prestigio degli antichi e dei nuovi monumenti. Lo sviluppo
della cultura figurativa barocca si innesta sulla tradizione cinquecentesca e
manieristica: ciò che da un lato lo limita e dall’altro gli apre infinite possibilità di
soluzioni occasionali, spesso improvvisate, talvolta felici, specialmente nella
tipologia planimetrica delle chiese. Il Fanzago fu pure scultore e, come tale,
ottimo ritrattista: lo si vede anche nel grande busto d’argento di San Bruno nella
Certosa di San Martino (dove lavorò come architetto e dov’è il meglio della sua
scultura) d’una intensità plastica e luministica che lo avvicina alla pittura
contemporanea, specialmente del Ribera.
Delle scuole pittoriche del Seicento la napoletana è, dopo quella di Roma, la più
importante. Ne dipende, in gran parte, anche per i vari artisti che, come
Domenichino e il Lanfranco, giungono da Roma. Il passaggio più sensazionale è
certamente quello del Caravaggio che, nel suo doppio soggiorno partenopeo
(1607; 1609-10), lascia a Napoli un numero consistente di opere, tra cui la
Flagellazione e le Sette opere di misericordia (entrambe pagate nel 1607). La
sua lezione luministica è sùbito raccolta da BATTISTELLO CARACCIOLO(1578-
1635) che già nel 1615 dipinge, per il Pio Monte, San Pietro liberato dal carcere,
dando un’interpretazione del Caravaggio c he sarà fondamentale per lo sviluppo
della cultura napoletana. La luce non estrae dalle tenebre l’historia senza azione,
il flagrante dramma della realtà che la coscienza rivela; rende incandescente,
abbagliante, il bianco della veste dell’angelo, fa brillare l’elmo del soldato, suscita
un’ombra che serve a tornire i volumi, a renderli turgidi, quasi scultorei, come
nelle contemporanee nature morte di Luca Forte. Si spiega: non esiste a Napoli
una tensione tra la tradizione manierista e le correnti rinnovatrici, e il Caravaggio
stesso, nel 1607, aveva da tempo superato la fase della polemica
antimanieristica. L’incontro con il Caravaggio non determina dunque, nel
Battistello, una brusca conversione, ma un approfondimento e un arricchimento
della sua cultura essenzialmente disegnativa. Un segno incisivo, analitico,
seguita a spezzare i contorni, a precisare l’andamento dei piani. La luce
caravaggesca si rifrange così ai limiti delle forme, lungo le diverse pendenze del
modellato; ed alle sue variazioni corrispondono quelle delle ombre. Non rivela la
cruda, incontestabile presenza del reale; anzi dà alla figur azione, con la
singolarità dei suoi effetti, un senso di mistero, di vita sospesa. È dunque
l’iniziatore di una tendenza poetica, che non contraddice neanche quando, come
negli affreschi più tardi, quasi ritorna alla sua prima educazione manierista, sia
pure rinforzata dalla conoscenza della “riformata” pittura fiorentina e dei
carracceschi.
A suscitare per reazione questa inclinazione poetica concorse probabilmente la
ricerca opposta, realistica, del valenziano JUSEPE DE RIBERA (1591-1652):
formatosi a Roma tra il primo e il secondo decennio del secolo, si trasferisce, nel
1616, a Napoli. Dipinge, ancora a Roma, la serie dei cinque sensi, recentemente
ricostruita dal Longhi con l’aiuto di alcune copie: si serve del lume caravaggesco
per mettere a nudo il lato fisico, carnale, delle c ose. Nel Gusto, la luce fredda,
avvolgente, incide le pieghe del giubbotto troppo stretto, dà risalto alla faccia un
po’ stupida del personaggio, rivela la cosalità degli oggetti sul tavolo.
Forse con intento polemico rifà, per un colto collezionista e mercante d’arte di
Napoli, Gaspare Roomer, una scena antica, derivandola da un bassorilievo
ellenistico; mostra di conoscere la cultura classica e i suoi significati reconditi;
firmandola, si vanta accademico romano, ma anche l’antichità diventa una
sguaiata scena di ebbrezza che si svolge in uno spazio ristretto, tra botti di vino,
il sileno ebbro dalla grande pancia un po’ ributtante è quasi ridimensionalmente
appiattito dalla luce frontale. Non meraviglia che si dedichi, nella città di Della
Porta, all’analisi fisiognomica; ma si tratta di una ricerca sperimentale dettata
dalla curiosità per la varietà del naturale, trascritto a mo’ di esempio, non
rifuggendo (anzi, compiacendosene) dal grottesco, dal deforme, dall’orrendo.
Altro che ideale classicistico: i filosofi antichi sono raffigurati come straccioni e
vagabondi, gli apostoli come vecchi dalla pelle flaccida, grinzosa; i martiri, poi,
sono dei poveretti torturati nel modo più efficace possibile (efficace,
naturalmente, dal punto di vista dell’effetto pietistico). Il senso della polemica è
scoperto: non c’è ideale che riscatti la volgarità, la bestialità umana. Il suo
realismo non è affronto diretto del reale; è soltanto l’opposto dell’ideale. Si
capisce quindi come più tardi, a partire dal quarto decennio, possa cambiare il
senso della ricerca, volgendolo dal brutto al bello: e si avrà la entusiasmante
libertà cromatica, la gioia della pittura come poesia pura dei dipinti mitologici, dai
colori spiegati, dalla luce tersa, che gioca, impreziosendola, sulla materia.
Poesia e realismo, lirismo e commedia, ispirazione colta e ispirazione popolare
rimangono i temi, talvolta intrecciati, della pittura napoletana del Seicento.
Accanto alla storia-poesia fiorisce infatti il “genere”: pittori di “lazzaroni” e di
vagabondi, come MICCO SPADARO (1609c.-1675), di battaglie, come ANIELLO
FALCONE (1607-1656?). Anche nella fiorente produz ione di “nature morte” –
fiori, frutta, pesci, interni di cucina, bodegones ricolmi di cibi – si possono
distinguere due filoni, tuttavia mai drasticamente separabili: un senso di
partecipazione emotiva alla dolente realtà delle cose, più lirico in GIUSEPPE
RECCO (1634-1695), di maggior impegno naturalistico e drammatico in GIOVAN
BATTISTA RUOPPOLO (1620- 1685), o GIOVAN BATTISTA RECCO(1615-
1660), e uno scenografico, tripudiante decoratismo barocco, che ha in PAOLO
PORPORA il suo massimo rappresentante.
La tendenza naturalistica ha un esponente di levatura europea, tra Velazquez e
Le Nain, in un anonimo pittore, chiamato il MAESTRO DELL’ANNUNCIO AI
PASTORI (Napoli, secondo quarto del XVII secolo), dal tema che spesso ripete
nei suoi dipinti: in quello di Capodimonte, la serrata struttura compositiva è
determinata da rette diagonali, verticali, orizzontali, che si incrociano e si
spezzano: lo spazio affollato, ma senza alcuna profondità, è un mondo di cose
indagate a fondo nella loro effettiva presenza visiva e sensoriale: anche la luce
non ha altra funzione che svelare, traendone raffinatissimi effetti cromatici, la
lanosità del vello delle pecore, la pesantezza delle stoffe vestite dai pastori e del
sacco incastrato al centro della composizione, il segno della materia di ciascuno
degli oggetti partecipanti all’insieme. Il passaggio del ligure G. B. Castiglione
(proveniente da Roma, dove è in contatto con Testa e Mola) e la lunga
permanenza di Artemisia Gentileschi rafforzano la tendenza alla pittura-poesia:
ad una poesia che nasce da una ferita dell’anima, da un’esperienza da cui ci si
ritrae dolenti. Eros e pathos sono i motivi dominanti nella pittura di MASSIMO
STANZIONE (1585-1656) il “Guido napoletano”, vero contraltare del Ribera, e di
ANDREA VACCARO (1598-1670) . Non già il furor caravaggesco con le sue gravi
ragioni morali; ma una pittura appassionata, che non vuol sorprendere,
dimostrare, ma toccare il cuore: anche con le accentuazioni patetiche, i
trasalimenti, le note cupe e strazianti del colore. Al vertice di ques ta tendenza è
BERNARDO CAVALLINO (1616-1656), l’interprete più sottile dell’ambigua
poetica di Artemisia, il pittore-letterato che si ispira alla sofferta poesia del Tasso.
Il luminismo, in lui, è un’illuminazione innaturale, un raggio che estenua, quasi
distrugge le figure, risparmiando soltanto la grazia neo-manieristica delle mosse,
i riflessi delle stoffe, i pallori o i rossori improvvisi dei volti: così come nel
melodramma, alla cui forma più alta può accostarsi la sua pittura, la vicenda e la
figura stessa del personaggio si dissolvono all’arabesco prezioso del canto.
Un impulso nuovo, che la riscatta dall’eccesso del patetico e del melodico,
imprimono, alla scuola napoletana dopo la peste del 1656, due grandi artisti,
MATTIA PRETI (1613-99) e LUCA GIORDANO (1634-1705). Il primo, calabrese,
già nel 1630 è a Roma, dove frequenta l’ambiente caravaggesco; più tardi è in
Emilia, poi a Venezia. La base della sua cultura è la pittura larga, d’effetto, del
Guercino e del Lanfranco; ma la sorgente da cui trae l’impeto drammatico delle
grandi composizioni, l’ampiezza dei suoi scenari percorsi da correnti e
lampeggiamenti di luce è, chiaramente, la pittura veneta del Tintoretto e del
Veronese. Nel 1656, è a Napoli, dove incontra il giov ane, ma già affermato astro
nascente della pittura napoletana, Luca Giordano. Nei bozzetti per i distrutti
affreschi votivi dipinti sulle porte della città per la fine della pestilenza, Mattia
Preti sfodera tutto il suo repertorio, dai ricordi caravaggeschi (i morti, dal corpo
livido, in primo piano) al Guercino, e attraverso di lui i veneti, e ancora la
contemporanea pittura romana, per costruire una composizione teatrale,
consapevolmente drammatica. Nella decorazione di San Pietro a Maiella, sfoggia
la sua visione in grande, al posto di affreschi incassa tele nel soffitto
fastosamente adorno, perché la pittura non rinunci al brillante colore ad olio e
alle spavalde pennellate a corpo. Le esigenze della decorazione lo portano a
ridurre gli scuri e a rialzare le gamme dei colori, facendo prevalere l’elemento
veronesiano sul tintorettesco, ma non può contrastare, su questa strada, il
crescente successo del più giovane Luca Giordano. Nel 1661, sconfitto, parte
per Malta, dove, senza rivali, continuerà, fino allo scadere del secolo, la sua
pittura raffinata, colta, rimuginando dentro sé tutta la pittura del Seicento,
producendo ancora brillantissimi capolavori (come la decorazione ad olio su
muro nella volta della cattedrale di La Valletta).
Come Preti, anche Luca Giordano predilige i veneti; come Preti, si forma, sia
pure attraverso Ribera, sul realismo caravaggesco; conosce i bolognesi, e in
particolare Lanfranco; ama Pietro da Cortona, e la sua spiegata decorazione: lo
scontro non è quindi tra due riferimenti culturali diversi, ma tra due concezioni
differenti della tecnica. Se Preti appartiene in pieno al Seicento, e anzi è il
Seicento, dalle sue radici caravaggesche fino al Berrettini, Luca Giordano fa a
buon titolo parte del secolo seguente, quello dei virtuosi del pennello; troppo
spesso sottovalutato per l’enorme abbondanza e la qualità ineguale della sua
opera, conosce tutta la pittura del suo tempo e del Cinquecento, può rifarla a
memoria, contraffare anche artisti stranieri come Rubens e Rembrandt; ma
soprattutto è inventore ed esecutore rapido, di getto. I veneti, che può studiare
direttamente nel 1667, rimangono i suoi modelli: specialmente il Veronese, da cui
deduce il suo colorismo estremamente vivace, fatto di giustapposizioni tonali così
vicine e frequenti da sprigionare luce dall’impasto stesso, animatissimo, del
colore a tocco. È, la sua pittura, il “miracolo tecnico” del Seicento napoletano: da
valutare, più che nelle singole opere, nella continuità e nella massa della sua
produzione d’immagini.
La pittura – ed è questo che lo differenzia dal Preti – non ha più contenuti che le
siano proprii, non uno specifico campo in cui agisca come mezzo di ricerca: non
tende neppur più a illudere, a darsi come rappresentazione di qualcosa di vero o
di possibile. Ciò che deve sorprendere e suscitare ammirazione non è il fatto
rappresentato e neppure il modo con cui è rappresentato, ma la fattura brillante,
la tecnica prodigiosa: come un discorso di cui la mente distratta non segue il filo,
ma tuttavia ci eccita con l’enfasi del tono e il suono delle parole o come una
musica a cui non si pone attenzione e di cui tuttavia, inconsciamente, battiamo il
tempo col piede. La sensazionale ma peric olosa scoperta del Giordano è proprio
questa: una pittura che si può guardare distrattamente, senza neppur chiedersi
che cosa rappresenti, e che tuttavia ci comunica il suo ritmo visivo e mette in
moto, magari a vuoto, il meccanismo dell’immaginazione.
Domina, fino alla morte, ma anche dopo, la pittura napoletana; è conosciuto
dappertutto, le sue opere sono richieste in tutta Italia, lui stesso si reca a Firenze,
è perfino chiamato in Spagna, ad affrescare le dimore reali. È un fenomeno, ha
del prodigioso; è lo straordinario tecnico della comunicazione visiva, il pennello di
Luca-fa-presto addirittura anticipa l’immaginazione creativa, anzi ne può fare a
meno, ricorrendo all’inesauribile mestiere pittorico.
Una posizione a parte ha SALVATOR ROSA (1615-1673), napoletano per
nascita e formazione, ma attivo soprattutto a Roma e a Firenze: curiosa figura di
pittore, di uomo di teatro e di poeta, autore di sette Satire in cui se la prende con
i costumi del suo tempo ed anche con la pittura, specialmente “di genere”. Pittore
di genere, di paesaggi e battaglie, era stato lui stesso prima di dedicarsi, con
l’idea di confondere i suoi detrattori, alla grande pittura sacra e di storia. La sua
pittura, come videro i contemporanei, è più spiritosa che originale. Combina
formule eterogenee; riflette interessi culturali disparati e superficiali ma vivaci,
letterari, scientifici, filosofici. È in aperta polemica con la rettorica barocca, ma
anche con quella che considera la volgarità della pittura di genere. Si interessa a
tutto ciò che è fuori delle correnti ufficiali , principalmente agli stranieri. A Roma si
accosta alla concezione paesistica classica di Claude Lorrain; ma mescola al
tema aulico di Claude l’elemento che chiamerà “pittoresco” (un termine che avrà
una grande importanza nelle poetiche figurative europee del Settecento) e che
discende dagli olandesi con gusto degli aspetti curiosi ed anche paurosi della
scena naturale. Nel periodo fiorentino, prendendo lo spunto dai fiamminghi e dai
tedeschi, inventa il “genere” della veduta fantastica: paesaggi selvaggi e
tenebrosi con scene di stregoneria e di magia. È, insomma, l’intellettuale che
ostenta, per spirito di contraddizione, il gusto del popolaresco. “Questo modo di
sentire,… la tesi dell’indipendenza della fantasia dall’intelletto,… il mito del
selvaggio, del primitivo… pongono il Rosa sulla linea di sviluppo che va
dall’affermazione del suo grande compatriota, il Vico, fino al romanticismo
rousseauiano” (Salerno). E fanno di lui, più per le sue idee che per la qualità
dell’arte, uno dei nessi essenziali tra l’Italia e la cultura artistica del resto
d’Europa.

(G.C. Argan, Storia dell’arte italiana)

Napoli nell’arte del ‘600ultima modifica: 2021-02-24T15:20:40+01:00da masaniello455