Napoli nel settecento

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E’ il secolo dei Borboni a Napoli, una dinastia che, si voglia o no, vi la­sciò segni non perituri del suo passaggio. Gli storici disputano ancora sulla funzione politica che i borboni d’Italia si assunsero di svolgere, nel Settecento, nel reame napoletano e Ruggero Mosca­ti, d’accordo col giudizio di Benedetto Croce, di Giustino Fortunato, del Pala­dini e di altri insigni storici, sostiene che la loro azione fu, anche per i loro rapporti con la corte di Roma, positiva, e, nel suo complesso, progressiva, fin quando le due maggiori potenze borbo-niche, Francia e Spagna, sostennero, in Europa, un ruolo di prima grandezza. Ma la loro crisi influì negativamente sulle minori potenze borboniche e, quindi, su Napoli, anche se qui, dopo due secoli, era tornato, coi Borboni, il regno.
Comunque è nel ‘700 che essa acqui­sta quello splendore di metropoli europeistica, che attrasse e innamorò tanti uomini illustri, visitatori di eccezione, in cerca delle emozioni del bello natu­rale e artistico, come Miguel Cervantes che la esaltò in celebri versi.
Il regno indipendente — ci fa nota­re Gino Doria — la rese emula delle grandi capitali europee: Parigi, Madrid, Londra, Vienna. Io penso che, affer­mando ciò, il più appassionato storico della sua e nostra città abbia voluto in­tendere che Napoli, al pari di quelle capitali, pur cosmopolizzandosi, abbia saputo conservare l’originalità dello spirito della sua gente, che, insieme col fascino della incomparabile bellezza del suo ciclo, del suo mare, della sua terra, e lo splendore della sua arte, costitui­sce una delle attrattive più seducenti per i viaggiatori che vi approdano, co­me al porto del loro desiderio, soprat­tutto uomini di alta levatura artistica e intellettuale.
E questa originalità, come nello spi­rito del popolo, traluce nel pensiero dei geni napoletani, primo fra tutti G. B. Vico, che con la « Scienza nuova » chiu­de il passato e apre le porte dell’avve­nire, alle scienze storiche, giuridiche, filosofiche e filologiche. L’evoluzione dei tempi, le idee nuove, che compiono il loro corso storico fatale, hanno avuto, certo, il loro effetto nella trasformazione di Napoli. Ma le idee nuove — si sa – per imporsi hanno bisogno di un propulsore umano; e questo propulsore umano fu Carlo III, fu il suo ministro li­berale Bernardo Tanucci, il cui maggior vanto fu — come dice il grande storico meridionalista Giustino Fortunato – che « nullum vectigal imposuit ». Non si sarebbe attuato il cosmopolitismo di Napoli, se Carlo III avesse ostacolato il corso delle idee nuove e messo al bando Cartesio, Hobbes, Voltaire e Locke e avesse vietata al suo ministro ogni riforma in senso progressivo. Ingegni, invece, come il Gravina, l’Argento, il De Gennaro, il Filangieri, l’Intieri, il Genovesi, il Brogia, il Galiani, il Doria, il Galanti, il Giannone, il Signorelli, poterono liberamente esporre il loro pensiero d’avanguardia, su tutti i problemi politici, economici, religiosi, mo­rali. Non condivido, perciò, l’opinione del Doria su Carlo III, del quale lo storico tende a diminuire la personalità e a ridimensionare i meriti, che, a mio avviso, non si limitano a quelli edilizi, giacché egli si fece anche promotore del­la cultura e dell’arte. La fondazione del­l’Accademia Ercolanense valse a far sor­gere una schiera di illustri archeologi­; finanche i nobili si convertirono alla cultura ed espressero il Filangieri e il Palmieri. E il clero, ignorante e più de­dito agli acquisti di beni terreni che di grazie celesti, e che aveva, perciò, ma­terializzato la fede, tornò agli studi e alla pietà religiosa, di cui divennero esempi luminosi S. Alfonso Maria dei Liguori e Padre Rocco, il famoso cor­rettore del popolo napoletano, per le suppliche del quale Carlo III si decise, nel 1751, a costruire il reale « Albergo dei Poveri » su disegno di Ferdinando Fuga; grandioso edificio, la cui mole noi ancora ammiriamo. Padre Rocco fondò pure l’asilo di Vincenzo della Sa­nità, per le giovani pericolanti; e a lui, preoccupato degli sconci morali, degli agguati, delle rapine e degli assassini, che avvenivano, di notte, nel buio del­le strade, si deve il primo saggio di illuminazione cittadina. Sorsero anche al­tri istituti di assistenza. E per quanto qualche sociologo abbia sostenuto che istituzioni del genere fomentavano l’o­zio e il vagabondaggio, non si può ne­gare che il benefìcio che esse arrecaro­no ai poveri di Napoli fu immensamente superiore agli inconvenienti, che si poterono lamentare.
La cultura si rinnovò, si estese a stra­ti più larghi della società. E, quel che è veramente significativo, specie a Na­poli, dove le donne erano ancora con­siderate a tutt’altro destinate che alla cultura, vi si dedicarono, con entusia­smo e successo, alcune patrizie, anche se costituirono un’eccezione. Si noti che, come nella antica Roma, anche ai tempi di Terenzio, era considerato me­stiere da schiavi, per un nobile, darsi alle lettere e alle scienze, così il fana­tico pregiudizio era ancora vivo nel ‘700 a Napoli.
Si coltivava, invece, molto la musica, specie quella melodrammatica che tro­vò il suo tempio nel San Carlo.
Durante i primi anni del suo regno e finché visse Filippo V, Carlo III fu sotto la tutela autoritaria del padre. Tanto che, scoppiata, nel 1749 la guer­ra tra Austria e Spagna e avendo Fi­lippo V, per volere della moglie Elisabetta, inviato un esercito in Italia, im­pose al figlio di rinforzarlo con truppe napoletane. Ma l’Inghilterra spedì una flotta nel golfo di Napoli, e re Carlo fu costretto a ritirarsi dalla guerra, per timore di perdere il regno. Solo alla morte del padre divenne sovrano di fatto e potè manifestare la sua vera per­sonalità. La madre Elisabetta gli fece sposare, a 22 anni, la bellissima quat­tordicenne Maria Amalia di Sassonia, figlia del re di Polonia, ma la cui bellez­za rimase deturpata, più tardi, dal vaio­lo, che le lasciò quella sua caratteristica butteratura. Quando lui e la mo­glie, al ritorno dalla luna di miele, en­trarono in Napoli, accoltovi festosamen­te, istituì l’ordine di S. Gennaro e fece coniare delle monete d’oro, dette onze, e delle monete d’argento, dette « mezze pezze » donde la parola «pezza» del dialetto napoletano, corruzione di « pe­sos » per dire danaro in genere.
Gli nacque l’erede al trono, Filippo, nel 1747, fra il tripudio suo e della ma­dre. Ma il ragazzo, malaticcio e triste, campò male fino a 30 anni, allorché mo­rì e fu sepolto in Santa Chiara, dove la lapide, apposta al sepolcro, lamenta pa­teticamente che fu anche minorato di mente.
Carlo III fu un uomo di costumi se­veri; forte e sano di costituzione, amava molto la caccia e la pesca. Per questi suoi passatempi, egli fece costruire il parco di Capodimonte, col gran bosco, ricco di cacciagione pregiata, cervi, ca­prioli, cinghiali, fagiani, beccafichi ecc., nel 1735; ricostruì la casina di caccia che già c’era e, poi, nel 1738 la reggia del Medrano, ove sistemò le collezioni d’arte farnesiane e le fabbriche delle fa­mose ceramiche e porcellane, che vi fondò. Anche la regina Maria Amalia fu presa dalle attrattive della caccia, sul­l’esempio del marito.
Il re aveva il senso del grandioso e il gusto raffinato del bello artistico. Tutto quello che costruì ne reca, per­ciò, l’impronta. Tra l’altro, era felicis­simo nella scelta dei luoghi, dove far sorgere gli edifici. Il palazzo reale di Capodimonte e quello di Caserta, con l’incantevole parco, alle falde di monte Taburno, col quale volle emulare e su­perare il castello di Versailles dei re di Francia e la reggia di Schonbrun degli Asburgo, affidandosi al genio del Vanvitelli, perché realizzasse il suo propo­sito davvero degno di un grande mo­narca, ne sono la prova. Carlo III am­pliò pure il palazzo reale di Napoli e un altro ne costruì a Castellammare, an­ch’esso cinto da bosco per la caccia. Nel 1737, mise mano al tempio musicale della Napoli settecentesca, creandovi il « San Carlo » uno dei più belli e fa­mosi teatri lirici del mondo. A proposito del « San Carlo » si racconta un aneddoto, di cui non si può garantire l’autenticità. Si dice che il Carasale, co­struttore ed impresario del teatro, si fosse recato ad invitare il re e la regina, perché si degnassero di intervenire alla serata inaugurale. E che il re si fosse lamentato con lui perché non aveva pensato a un passaggio interno fra la reggia e il teatro. Il Carasale uscì mor­tificato; ma, qualche ora più tardi, tor­nò dal re ad annunziargli che il passag­gio interno era stato approntato e che le loro Maestà potevano, con ogni co­modità, accedere per via interna al tea­tro. L’impresario aveva radunato d’urgenza il maggior numero possibile di operai e di tecnici; e, una volta scavato il corridoio, ne aveva tappezzato la vol­ta, le pareti, il pavimento con arazzi e tappeti, sicché i sovrani vi passarono co­me attraverso una serie di fantasmago-riche sale, illuminate da torce e candele. A torto — a me pare – Carlo III è stato accusato di aver creato a Napoli soltanto un’edilizia di lusso, per i propri gusti voluttuari. E l’Albergo dei Po­veri? Ma c’è ancora il grande acquedot­to, insigne opera d’arte, che egli fece costruire nella Valle di Maddaloni e le cui arcate grandiose gareggiano, per la arditezza della costruzione, con quelle degli antichi acquedotti romani. Un’al­tra accusa: per le sue costruzioni, Car­lo III si sarebbe servito di galeotti, di prigionieri e di schiavi musulmani, sen­za curarsi, per risparmiare il danaro dello Stato, di cui era custode gelosis­simo, di giovare ai disoccupati locali.
E’ probabile che il re si sia valso degli uni e degli altri. Anche per le fabbriche di Capodimonte, lo si incolpa di aver fatto venire maestranze e tecnici dalla Sassonia, la patria della regina. Ma è da ritenere che ciò si sia verificato solo in un primo tempo, finché non si for­marono le maestranze locali. Quell’arte, era del tutto nuova per Napoli. Non va dimenticato, inoltre, che Carlo III com­pì molte opere di pura utilità pubblica: oltre all’« Albergo dei Poveri » e allo acquedotto di Maddaloni, già ricordati, fece eseguire importanti lavori al Molo, aprì le strade della Marinella e di Mergellina, costruì l’edificio dell’Immacola­tella.
E, nel 1757, dette inizio all’emiciclo al largo del Mercatello (l’odierna Piaz­za Dante) su progetto del Vanvitelli, compiuto, poi, da Ferdinando IV, nel 1765. Napoli cambiò volto: ma, per i difetti organici dei suoi successivi ingrandimenti e abbellimenti, a meravi­gliose aree monumentali, come quella — per citarne una — difficilmente ri­scontrabile in altre grandi città, tra piazza Municipio, il Maschio Angioino, la Galleria, il « San Carlo », la reggia del Fontana, la Basilica di S. France­sco di Paola e Piazza Plebiscito, si con­trappongono angusti meandri stradali e case e palazzi oscuri e cadenti, che fan­no lamentare l’assoluta deficienza di un piano regolatore di integrale sventra­mento e ricostruzione, come quello mes­so in opera, con vantaggio enorme per il decorso cittadino, con l’abbattimento di quella fungaia malsana, covo di ma­lavita, che era tutto il vecchio rione fra la Corsea e i Guantai Vecchi. Non si può, dunque, far torto a Carlo III se non costruì secondo un razionale piano regolatore, soprattutto se si consideri che anche oggi, nonostante tutti i progressi delle tecniche edilizie, un pia­no regolatore veramente razionale Na­poli non l’ha, come dimostrano le caotiche costruzioni dei nuovi quartieri re­sidenziali di Posillipo alto e, forse, per un complesso di cause, che non è qui opportuno enumerare, non lo avrà mai. Ma dovunque Carlo III ha costruito ha creato delle zone monumentali, che de­stano l’ammirata attenzione degli stra­nieri e danno luce e gloria alla città.
A Carlo III successe Ferdinando IV, re tipicamente napoletano che si trovò a vivere avvenimenti più grandi di lui, come la Rivoluzione francese e le inva­sioni napoleoniche.
A Carlo III successe Ferdinando IV, che curò molto lo sviluppo della marina napoletana: il primo si dedicò partico­larmente a quella mercantile, il secondo alla marina militare. Si potè formare quella scuola marinaresca napoletana, da cui uscirono insigni uomini di mare, come l’audace e leggendario Capitano Pepe, (il Martinez), distintosi nella lot­ta contro i corsari, l’eroico ammiraglio Francesco Caracciolo, sacrificato dal­l’odio di Maria Carolina alla vendetta di Nelson, il Bausan ed altri. L’aumento dei commerci marittimi fu enorme, spe­cie per effetto dell’abolizione dei privi­legi di bandiera e l’istituzione di una compagnia di assicurazioni marittime. E la città ne beneficiò.
Il popolo ottenne da Ferdinando IV l’abolizione del monopolio sui tabacchi, con gran giubilo dei fumatori. Ma, in compenso, nel 1774, egli istituì il gioco del lotto — la bonificiata — a cui il popolo napoletano era ed è rimasto appassionatissimo, tanto da avervi creato su tutto un sistema cabalistico, e che rendeva allo Stato oltre 560.000 ducati annui. Arte raffinata di cavar danari al popolo senza farlo strillare.
Carlo III regnò dal 1737 al 1759. Ferdinando IV dal 1759 al 1790; ri­tornò sul trono, dopo la fuga in Sici­lia, nel 1791 e vi rimase fino al 1806. In questo anno, nonostante le sciocche vanterie del generale russo Lascy, di­venuto comandante in capo dell’eserci­to napoletano, che aveva promesso al re di umiliare Napoleone, il 14 feb­braio, i francesi giunsero alle porte di Napoli, sicché a Ferdinando e a Maria Carolina non rimase altro da fare che ritornarsene in Sicilia. Pietro Colletta descrive vivamente la confusione e lo sgomento di quelle giornate: « Chi fug­gia, chi nascondevasi, chi andava incon­tro al vincitore ».
Ma Ferdinando IV ritornò ancora a Napoli, dopo il brevissimo regno di Giuseppe Bonaparte (1806-1808) e la avventura, conclusasi tragicamente, di Gioacchino Murat, che vi regnò dal 1808 al 1815, l’anno fatale del tramon­to definitivo dell’astro di Napoleone. Per Ferdinando IV, il tramonto fu pla­cido, ma senza gloria. Dal 1815 al 1825, sopravvisse come l’ombra di se stesso; non fu granché amareggiato dai lutti familiari: la morte del fratello e quella della moglie Maria Carolina, per la quale, anzi, parve tirare un respiro di sollievo, come chi si scarica di un gros­so peso. Ebbe, però, tempo di infamar­si, rinnegando, al convegno di Lubiana coi sovrani della Santa Alleanza, la co­stituzione ch’egli aveva concesso dopo i moti rivoluzionari del 1821 e giurata solennemente sul Vangelo nella chiesa dello Spirito Santo. Morì il 3 gennaio 1825, all’improvviso, a 76 anni di età, dopo 65 di regno. Fu sepolto in Santa Chiara.

Napoli nel settecentoultima modifica: 2021-02-24T14:03:11+01:00da masaniello455