Napoli nell’arte del ‘700

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L’architettura
La fine della dominazione spagnola e l’inizio del regno delle Due Sicilie
determinano nell’Italia meridionale, specialmente a Napoli, una situazione piena
di contraddizioni. Già alla fine del Cinquecento si era formata nelle Puglie, con
epicentro a Lecce, una corrente architettonica estremamente vitale anche se
culturalmente composita: mescola infatti l’artigianato popolare dell’intaglio della
tenera e dorata pietra locale con strutture tipologicamente derivate da fonti
diverse solamente nel Settecento derivanti dal barocco romano. Ne risulta una
decorazione esuberante e festosa, di accento vernacolo e popolaresco: un
fenomeno, nella sua genesi, non molto dissimile da quello dell’architettura
“coloniale” dell’America latina, una “maniera salentina” più che un “barocco
leccese” (Blunt). In Sicilia predomina, nel tardo Seicento e nel Settecento, un
fasto architettonico tanto più appariscente quanto più provinciale e privo di una
radice culturale profonda: e mescolato, anche qui, con larghi interventi decorativi
dell’artigianato locale. Sono tuttavia importanti le ricostruzioni delle città rovinate
dai terremoti: Noto e specialmente Catania, quasi interamente rifatta da GIAN
BATTISTA VACCARINI (1702-1768) prendendo come nota dominante l’accordo
degli intonaci bianchi e della pietra lavica grigia.
Napoli è, nel Settecento, una grande capitale europea: concorrono ad inserirla in
un circuito culturale di raggio internazionale, dopo la fine della dominazione
spagnola, la sua brillante cultura pittorica e gli scavi di Ercolano, che attirano da
ogni dove studiosi di antichità e artisti, ma anche filosofi, letterati, intellettuali.
FERDINANDO SANFELICE, con Juvarra il più originale architetto italiano della
prima metà del secolo, ha una cultura europea: dilettante autodidatta, di nobile
famiglia, non ha dietro di sé una tradizione artigianale, trasmessa di padre in
figlio, come il suo rivale DOMENICO ANTONIO VACCARO. La decorazione, per
lui, non è architettura, e progettare è una sfida, calcolo di scenografiche
soluzioni, da ottenersi esclusivamente tramite mezzi architettonici. “Dilettante”,
oppone la sua disinteressata speculazione intellettuale al “mestiere” degli
architetti-decoratori, trovando, nella Napoli del primo Settecento, un parallelo
nella pittura del singolare Andrea Belvedere, filosofo, letterato, drammaturgo, che
trasforma la pittura di fiori (il più mestierante dei generi) in colto e raffinato
esercizio melodico. Il Sanfelice ritrova, forse tramite l’architettura austriaca e
boema, la lezione borrominiana, non volgendola però in “barocchetto”, ma
riscoprendone il valore di architettura pura, autogiustificantesi nei propri fini e nei
propri mezzi. Nel progettare il palazzo di famiglia, parte dal rapporto con la
strada e con il cortile, elemento di mediazione tra spazio aperto e spazio chiuso:
distrugge di conseguenza la facciata come organismo autonomo,
scomponendola e riorganizzandola poi intorno allo scalone, filtro di interno ed
esterno. Anche nel palazzo Serra di Cassano, l’elemento che dà il via al mosso
effetto scenografico è il monumentale scalone che, partendo dall’atrio, lo collega
al cortile, terminando con un arco gigantesco che sfonda la facciata retrostante.
Versione napoletana del rococò si può considerare invece l’opera di Domenico
Antonio Vaccaro (1681-1750): nonché architetto, è pittore, e scultore. La chiesa
della Concezione di Montecalvario è tutta sua: dipinge le pale d’altare, dà i
disegni per la decorazione, disegna virtuosisticamente l’architettura con la luce,
che scorre sul bianco degli stucchi, sulle volte oblique del deambulatorio,
sfruttandone i vivaci effetti pittorici. Nel chiostro di Santa Chiara assume come
materiale architettonico la maiolica colorata e figurata dell’artigianato locale,
dichiarando così la sua precisa intenzione di fare un’architettura non tanto
popolaresca quanto, linguisticamente, dialettale, eppure raffinatissima, colta,
felicemente ironica, così come può essere raffinato, colto, ironico un presepe che
si compiace della vivace osservazione del volgo.
L’attività del Fuga a Napoli, dopo il 1751, muta questo stato di cose. Non pone un
problema di gusto, ma di etica professionale. Si tratta di dotare la città delle
fondamentali attrezzature di cui, durante il malgoverno spagnolo, nessuno s’era
mai occupato. L’Albergo dei Poveri è un edificio colossale (354 metri di fronte)
che doveva avere cinque cortili quadrati e, nel centrale, una chiesa esagonale
collegata ai dormitori da sei navate a raggiera. I Granili (1779) sono una
“semplicissima e singolare anticipazione dei moderni edifici industriali” (Pane):
contenevano i granai pubblici, un arsenale, una fabbrica di cordami. La chiarezza
con cui il Fuga imposta e risolve i problemi funzionali e d’impiego è già nello
spirito di quella praticità sociale, che sarà uno dei principi fondamentali del
Neoclassicismo. Altre opere, come la villa La Favorita e la facciata dei
Gerolamini (che ritorna ai modi tardo-manieristici del Silvani), dimostrano come il
Fuga sapesse modulare le sue strutture nell’aperta e luminosa spazialità
naturale, senza nulla concedere al pittoresco confuso dell’ambiente napoletano.
Anche LUIGI VANVITELLI (1700-1773) studia i suoi progetti movendo dai dati
accertati delle esigenze obbiettive. Figlio del vedutista olandese Gaspare van
Wittel, è dapprima a Roma, dove partecipa senza fortuna ai concorsi per la
facciata di San Giovanni in Laterano e della Fontana di Trevi, poi ad Ancona,
dove progetta il lazzaretto e il molo. Incaricato da Carlo III di studiare i piani della
reggia di Caserta (1751), imposta da urbanista e da ingegnere tutti i problemi
pratici relativi al funzionamento di quella che doveva essere non soltanto una
residenza reale ma,come Versailles, la sede decentrata di tutti i servizi
governativi. Progetta un immenso edificio rettangolare con quattro cortili, vere e
proprie piazze divise da quattro bracci che s’incrociano formando al centro un
“grande portico”, cioè un ampio vano con gallerie radiali: il perno centrale di tutto
il sistema. Le lunghe facciate sono rialzate da un alto basamento rustico affinché
più libera e leggera si distenda nello spazio luminoso la duplice, interminabile
teoria delle finestre, il cui movimento chiaroscurale si conclude agli estremi nei
corpi avanzati, a colonne addossate. Questi e il prospetto dell’ingresso segnano
anche l’incastro dei vari corpi di fabbrica, facendo sentire all’esterno la struttura
dell’insieme. In tutte le soluzioni interne la forma architettonica risponde ad un
tempo ad un’esigenza strutturale, ad un’esigenza di ordinamento prospettico, ad
un’esigenza di prestigio decorativo. Nel perno centrale, le gallerie a raggiera
sono divise da pilastri triangolari con una colonna sullo spigolo acuto: hanno una
precisa ragione portante, costruiscono la prospettiva delle gallerie secondo la
“veduta d’angolo” così frequente nella sc enografia del Settecento (Bibiena),
mettono in valore le colonne cilindriche come apparenti cardini di rotazione. Il
complesso sistema, dunque, è tutto impostato sulla pura, classica forma della
colonna.
Anche la cappella reale, del resto, non è che un nitido vano rettangolare, con due
filari di c olonne scanalate affiancate su un basamento altissimo; al di là di esse e
di uno stretto corridoio si aprono le ampie finestre. La luce entra filtrando
attraverso le file di colonne, graduandosi e prendendo vibrazione sui loro fusti
scanalati: le colonne, infine, agiscono come apparati regolatori della luce, le
danno la qualità necessaria affinché riempia, uniforme ma vibrante, il vano
rettangolare con un lato absidale semicircolare e volta a botte. La purezza già
neoclassica di questo ambiente non è dunque raggiunta imitando modelli antichi,
ma riducendo a proporzione, fino a ritrovare necessariamente una morfologia
classica, uno spazio ancora sentito come immagine luminosa, pittorica.
Napoli è una delle grandi sorgenti della cultura neoclassica, in gran parte fondata
sui risultati sorprendenti degli scavi di Ercolano e di Pompei, che certo
contribuirono anche a fissare la nuova morfologia classica del Vanvitelli. Ma che
questa non sia soltanto una scelta di gusto si vede nella chiesa dell’Annunziata
(iniziata nel 1760): il cui schema a navata unica, con cappelle laterali, breve
transetto e cupola è lo schema tipico, dopo il Gesù, dell’architettura chiesastica
tardo-manieristica e barocca. Ma qui tra i vani in penombra delle cappelle e il
luminoso vano principale ritroviamo, come a Caserta, le doppie colonne
scanalate che ricevono la viva luce della navata, la fanno girar e sui loro fusti
mettendola in vibrazione con le scanalature, la trasmettono attenuata ma viva
nelle cappelle. E la cupola, quasi a metà della navata, è nello stesso tempo il
nucleo del sistema prospettico e la cavità più luminosa della chiesa. Come a
Caserta, la riduzione a sistema dell’immagine luminosa dello spazio elimina le
penombre suggestive e le illuminazioni abbaglianti delle chiese barocche: la
chiesa non è più fatta per turbare od esaltare i fedeli, è il nobile ambiente dove si
adempie ad una funzione religiosa che rientra nell’ambito delle funzioni civili. Ed
è in questa concezione civile dell’architettura religiosa che emerge il carattere
illuministico dell’opera del Vanvitelli.

La pittura
Non solo a Napoli ma in tutta l’Italia, al principio del Settecento, non si parla che
di Luca Giordano. Lo s’incontra dappertutto, dipinge con incredibile sveltezza e
con effetto sicuro, assomma le qualità di tutte le scuole passate e presenti. È un
“fenomeno” e il Settecento ha la passione dei fenomeni. In realtà non soltanto la
sua pittura utilizza tutta la pittura passata e presente; la brucia. La svuota dei
suoi contenuti di idee, la riduce a clamoroso concerto visivo. Ciò che si ammira è
il suo prodigioso mestiere, che arriva al livello dell’alta cultura. Si cesserà di
ammirarlo quando, poco più tardi, si avrà l’intuizione di una nuova tecnica,
diversa dal mestiere. La distinzione tra mestiere e tecnica, nel XVIII secolo, è
fondamentale: e serve a mettere un certo ordine nella congerie di fatti div ersi e
spesso contraddittori di cui è intessuta la pittura del tempo.
Muove da Luca Giordano e dilaga anche fuori d’Italia, specialmente in Austria e
in Spagna, l’ultima ondata della decorazione barocca. FRANCESCO SOLIMENA
(1657-1747) è il continuatore del Giordano. È un’eredità difficile. Fa il possibile
per mantenere l’impeto travolgente del maestro; ma, osservando una qualsiasi
delle sue opere decorative, si vede subito che tiene ben distinti i mezzi di cui si
varrà per concertare l’effetto finale: la prospettiva, l’illuminazione, il colore, i tipi
delle figure e dei loro gesti. Lavora su un repertorio, anche se vasto. Ricorrerà
sempre ad un’architettura con grandi ar cate per dar spazio al fondo e con
gradinate in primo piano per far precipitare la composizione addosso agli
spettatori; si servirà di un’illuminazione forte, da riflettore, che imprime alla
composizione un’oscillazione luministica che accompagna il tumulto delle masse;
la rompe con squilli di colore, come ottoni in un’orchestra. Varia le figure e i gesti,
ma sulla base di tipi costanti: il re, la regina, il gran sacerdote, l’angelo; sdegno,
timore, sorpresa. Non sono persone, ma figure rettoriche. Più che scenografo è
coreografo: come nello spettacolo coreografico, la figurazione non comunica
alcun contenuto ma soltanto il proprio movimento. Non mira a suscitare alcun
sentimento determinato, ma uno stato emotivo; non vuole far pensare, ma
riempire gli o cchi e trasmettere un dinamismo in atto.
FRANCESCO DE MURA (1696-1782) segue Solimena ma ne riduce
ulteriormente la spinta; il repertorio si logora e assottiglia; la formula decorativa
tende a prevalere sulla formula inventiva. GIACOMO DEL PO (1652-1726) e
soprattutto CORRADO GIAQUINTO (1703-1765) capiscono che il copioso filone
sta esaurendosi e che, per impedirgli di estinguersi, ciò che va rinnovato è
l’emozione visiva. Non trasformano la struttura dell’immagine ma l’alleggeriscono
cercando nuove gamme coloristiche, intonate specialmente sulle note fredde e
squillanti. È una scelta che esce già dall’ambito del mestiere e tocca quello della
tecnica.
I due ambiti non sono ancora distinti. GIUSEPPE BONITO (1707-1789) è un
seguace del Solimena ma quando, per dipingere ritratti, smonta la macchina
compositiva, il mestiere pittorico si semplifica e riacquista una capacità di pr esa
diretta. GASPARE TRAVERSI documentato dal 1749 al 1776, quando non
dipinge quadri d’altare, fa un gran passo avanti. Il ferito (come gli altri dipinti dello
stesso gruppo) non è un quadro di genere e non rispecchia assunti morali o
satirici. La pittura funziona come un obbiettivo fotografico, il mestiere pittorico
diventa tecnica di ripresa. Non è un processo meccanico: come poi con la
fotografia (ma in altro modo), nell’immagine dipinta si vede diversamente e di più.
La pittura è come un occhio più preciso o meno appesantito da abitudini visive.
Non dà particolari maggiori né si ferma a interpretare e commentare il dato: fa
vedere meglio. Non dice nulla al di là dell’immagine; ma dà all’immagine una
densità, una consistenza maggiore. I materiali e i procedimenti sono sempre
quelli del mestiere pittorico; ma è mutata la tecnica mentale. L’immagine che la
pittura rende esplicita non è quella che l’immaginazione genera allorché le si
imprime un moto artificioso, ma è quella che si forma quando l’immaginazione è
portata, come strumento conoscitivo, sulla realtà.
È a Napoli, del resto, che nasce il vedutismo con l’olandese GASPARE VAN
WITTEL (1653-1736), che rientra già, di pieno diritto, nell’ambito della cultura
illuministica. Non ha più senso parlare di emozione, di sentimento della natura, di
scena naturale. Si confronti una prospettiva del Solimena con una veduta
prospettica del van Wittel: la prima è il processo della costruzione di uno spazio
illusorio, la seconda è uno strumento ottico che inquadra e permette di vedere
meglio la realtà. Vedere meglio non vuol dire vedere di più, come con un
cannocchiale, ma vedere con ordine, con gli occhi e la mente insieme. Vedere le
singole cose e il contesto che formano; ma sapendo che l’ordine non è della
realtà oggettiva, bensì della m ente che valuta e coordina i dati del senso. La
sensazione visiva è già pensiero; non si tratta più di svelare il significato celato
dall’apparenza delle cose, ma di percepire distintamente. Siamo già entro i
confini del sensismo illuministico: quello per cui la sensazione non è apparenza
ingannevole che l’intelletto corregge, ma la materia prima del lavoro dell’intelletto.
Nulla essendo nell’intelletto che prima non sia stato nel senso.

(G.C. Argan, Storia dell’arte italiana)

Napoli nell’arte del ‘700ultima modifica: 2021-02-24T15:21:51+01:00da masaniello455