Un’estate lunga sei mesi. Senza più nessuna dolcezza, solo un ineluttabile disagio: come si sopravvive alla monostagione che va da aprile a ottobre?

Uno degli incipit che preferisco nella storia della letteratura l’ha scritto Roberto Calasso a 12 anni, e non è mai stato pubblicato. Calasso però ne ha poi parlato in Memè Scianca, un libriccino del 2021, e fa così: «L’estate la sentivo arrivare dal viale». Il viale sarebbe Spartaco Lavagnini, circonvallazione di Firenze, e all’epoca a cui si riferisce Calasso – l’immediato Dopoguerra – era uno stradone con il pavé al centro per i binari del tram 19, pochissime auto, tigli verdi e slanciati. L’estate che descrive il fondatore di Adelphi si avvicinava come una nave alla costa: lentamente, con emozione e una certa allegria. Ottant’anni dopo l’estate ci travolge come uno schiaffo in piena faccia. Alla prima settimana di aprile i termometri segnano trenta gradi, l’asfalto dei viale è già torrido, i cofani delle automobili scottano. Sudiamo. Un paio di anni fa uscì uno studio molto ripreso dai giornali che diceva: se non si fa niente per ridurre il cambiamento climatico, alla fine del secolo avremo un’estate lunga sei mesi. È il 2024 e l’estate pare iniziata ad aprile, quindi proseguirà a maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, chissà se anche ottobre, è possibile, è probabile. I sei mesi sono già qui, se consideriamo non solo i trenta, ma anche i venticinque gradi temperature estive. Questo, ovviamente, porta con sé una serie di conseguenze gravi che conosciamo bene: dall’ansia climatica alle disuguaglianze sociali acuite dal clima, dalle migrazioni climatiche ai sempre più frequenti dissesti idrogeologici. Ma anche una domanda più faceta che riempie gli aperitivi e le cene e le pause caffè e i pensieri interrogativi davanti allo specchio la mattina: come ci si adatta a un’estate di sei mesi?  C’è intanto un cambiamento nell’immaginazione, e ci penso rileggendo quella frase di Calasso: le primavere e le estati descritte nei romanzi, nei quadri e nei film soprattutto europei del Novecento erano dolci e attese, portavano leggerezza e una dote di maggiore libertà. Ce ne sono molte altre, semanticamente simili, che mi vengono in mente: quella di Arbasino nelle Piccole vacanze, quella di Cassola in Tempi memorabili, quella di Bassani nel Giardino dei Finzi-Contini. Sono primavere ed estati di giardini all’ombra e vestiti chiari, serate che rinfrescano, mattinate oziose in spiaggia e poi pomeriggi nelle camere riparate a riposare. Certe scene di Guadagnino, anche quelle incastonate in un passato dolce e sensuale, sembrano uscite proprio dai Finzi-Contini: «In certe sere di maggio, coi finestroni laterali spalancati dalla parte del sole al tramonto, a un dato punto ci si trovava immersi in una specie di nebbia d’oro».

In certe sere di maggio, a Milano nel duemilaventi e qualcosa, dopo aver letto l’ennesimo bollettino che annuncia: “L’ultimo aprile è stato il più caldo della storia umana”, le finestre se ne stanno invece chiuse, perché il termometro tocca già i trentadue gradi e non piove da settimane e la città puzza da far schifo. Nessuna nebbia d’oro, semmai una patina grigetta che contorna lo skyline di vetro. Accendo l’aria condizionata, guardo le piante rinsecchite sul balcone. Faccio la terza doccia del giorno. Devo uscire per una cena o un aperitivo con il giusto anticipo: in bicicletta me la devo prendere comoda, per non sudare anche tutta questa camicia. Le cene si scelgono nelle case provviste di freddo artificiale. A pranzo, i terrazzi sono ormai banditi, anche se avevamo passato l’autunno a sognare i pomeriggi a casa di tizio, immaginando scene, appunto, guadagninesche e oziose. Ma ci si può stare la sera, semmai, a terminare le notti che si sono trascinate nell’umidità.  Il caldo infiacchisce, camminare stanca: il mondo dell’estate perenne gira al contrario rispetto a quello precedente, non è un mondo di libertà ma di frustrazioni. Se prendere gli aperitivi diventa una sofferenza, allora gli uffici ben condizionati si trasformano in un posto di requie, ci si sta volentieri. Quel briciolo di sindacalismo che si era risvegliato, fatto di smart working o altri termini sul lavorare meno e più indipendentemente, si scioglie nella consapevolezza che stare al computer in case poco ventilate è forse peggio che farlo negli uffici a venti gradi. Due estati fa è capitato piovesse, finalmente, dopo mesi di siccità che aveva investito l’Europa intera: Instagram si era allora riempito di Stories di festeggiamenti, venti-trenta-quarantenni entusiasti che ballavano nella pioggia. Un altro ribaltamento: finisce così che siamo felici quando piove, e non in senso crepuscolare, come diceva una canzone dei Jesus & Mary Chain, ma proprio felici-felici. Perché l’arsura era insopportabile già da marzo, e perché abbiamo introiettato un certo senso di colpa climatico, come se le colpe dei padri, dei nonni, dei bisnonni e degli avi degli avi, dalla macchina a vapore in poi, ricadessero sulle nostre spalle. E poi, con la pioggia, ci si può almeno vestire in modo decente: altro importante elemento di disagio e dibattito da bar, in questa estate caldissima e lunghissima. Dal cappotto alla maglietta, senza passare da quelle dodici giacche da mezza stagione destinate a una reclusione putiniana nell’armadio, una boccata d’aria ogni tanto, e poi di nuovo un anno a riposare. Dureranno se non altro per sempre, passeranno e poi torneranno di moda come i cicli solari lunghi undici anni. È diventato pure difficile andarsene dalle città, perché non esiste più quella furbizia di andare ai laghi o al mare prima che scoppino le vacanze: ci si va appena possibile. La Liguria è invasa da Camogli a Sarzana ogni weekend da febbraio in poi (il Ponente non so, non frequento, ma immagino una situazione simile), i laghi anche, i cittadini hanno pure scoperto i fiumi, pur di lasciare i viali e i palazzi. Anche le città con vista sul mare sono invase: la spiaggetta di Boccadasse, a Genova, è diventata una specie di Ponte di Rialto per densità di instagrammatori, sembra una riproduzione dell’Italia in Miniatura, a vederla così piena. Anche gli odiatori dell’inverno, i fisici e le menti più evoluti per resistere a sudore e umidità, devono fare un passo indietro davanti all’estate semestrale. Non si può sopportare per centocinquanta giorni questa violenza costante. A Milano, gli alberelli dei piani di riforestazione urbana sono poco più alti di una persona, boccheggiano impotenti e smunti. Dove c’è il mare, l’acqua si scalda già a maggio come in una pozza poco profonda. Si guarda all’orizzonte con terrore, immaginando cieli color sabbia, scenari da Mad Max nei viali della circonvallazione, nuvole infuocate. Se non ci sono più le mezze stagioni, se la l’immaginario estivo è così mutato – altro che sahariane elegante da Finzi-Contini, semmai magliette iper traspiranti di multinazionali giapponesi, braghette corte, ahimè ciabatte – allora dovremmo trovare un altro nome a questa macro-stagione inevitabile, inespugnabile, in cui agonizzare. Estate ha un suono ancora troppo dolce, che ogni volta ci fa sperare possa andare meglio, possa tornare com’era stato. Non tornerà.

Davide Coppo

 

all'aperto1

 

Un’estate lunga sei mesi. Senza più nessuna dolcezza, solo un ineluttabile disagio: come si sopravvive alla monostagione che va da aprile a ottobre?ultima modifica: 2024-08-12T15:44:40+02:00da g1b9

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