Non sono la donna dell’angolo a destra
Mi conoscono per il posto che occupo. Per loro sono la donna dell’angolo a destra. Sorridono, non sempre, però si alzano per consentire il mio passaggio. Il rispetto della differenza di età è ancora esistente. Forse è l’unico elemento in comune tra la mia e la loro generazione. La conversazione latita, anzi, è proprio assente. Per questo motivo, ripeto il mio gesto ogni mattina. Un po’ per abitudine, ma soprattutto per sfida.Alle sette e trenta, al rintocco delle campane, scendo le quattro rampe di scale del mio palazzo. L’ultimo pianerottolo costituisce la linea di demarcazione tra la vita ordinaria, quella del palazzo, e la vita straordinaria ritmata dalla musica assordante, che rimbomba dalle pareti del bar a bordo strada. La connotazione del bar è mutata. Non sono cambiati soltanto i tessuti delle tovaglie o i colori delle pareti, sono variate pure la clientela e l’atmosfera. Il gruppo consuetudinario di persone che leggevano il giornale e si fermavano per una chiacchierata è stato sostituito da un flusso variegato di clienti di corsa e pressoché silenti. Le parole sono state risucchiate da una musica continua e intensa. Io sono l’unica degli storici avventori che ancora mi ostino a frequentare il bar e alle sette e trenta mi presento all’entrata. «Buongiorno, il solito».Ripeto ogni mattina anche se so che non è necessario. Per me, però, rappresenta il filo invisibile di congiunzione, il tentativo di un legame, il richiamo di un antico scambio di parole, oggi pressoché inesistente. Il caffè scende lento e va a adagiarsi sul fondo. Il proprietario fissa la fila di persone che occupano lo spazio ristretto davanti al bancone. Sporge il mento in avanti e due ragazze depositano alcune monete sul recipiente. Non salutano lui, né parlano tra di loro. Hanno le cuffie alle orecchie e mi chiedo se ascoltino la musica assordante all’interno del bar o riescano a udire altre canzoni. Lui resta immobile. Io invece mi sposto di lato per far transitare le due ragazze, che a capo chino e con lo sguardo occupato dal bagliore del cellulare, mi affiancano ed escono. Per loro rappresento soltanto un ostacolo che si è spostato in tempo lungo il loro cammino. Il resto delle persone di fronte al bancone attende nel silenzio rumoroso della musica che rimbomba nei pochi metri quadrati del locale. Solo una ragazza si distingue rispetto al resto del gruppo: ondeggia sul posto, batte le mani e fa un giro su se stessa. Mi fissa nel momento esatto in cui si blocca sul posto. Le sorrido. E la ragazza pronuncia un buongiorno stentato, che decifro dal movimento delle sue labbra. Continuo a sorriderle. È per attimi come questi che sono qua, perché mi piace lo scambio e il confronto. Marco, il proprietario, deposita il mio cappuccino sopra l’ultima parte del bancone. Come per distanziarmi dal resto della clientela, per lo più studentesca e giovane. Lui alza un muro che io non desidero. «Grazie.» Dico a voce alta sopra la musica rompendo l’assenza di voci nel tentativo di attirare l’attenzione, ma non ascolto nessuna reazione, neppure una levata di sguardi. Sono presenze assenti. Mi incammino lenta all’esterno con la tazza stretta nella mano. La musica si disperde e allenta la sua intensità. La pedana è occupata per metà. Alcuni ragazzi stazionano in piedi e con le dita scorrono veloci sullo schermo del cellulare. Altri sono appoggiati alla balaustra, la sigaretta elettronica posizionata tra le labbra. Quelli seduti hanno le cuffie alle orecchie e il computer aperto davanti agli occhi. Forse studiano. Non parlano. Non con me, ma neppure tra di loro. «Grazie». Dico ai primi che si spostano. Ripeto «grazie» anche ai due che con fatica si mettono di lato. Dico ancora un «grazie» alle cinque ragazze che si sono assiepate intorno a un tavolo lasciando libero quello in fondo a destra. Il mio. Mi siedo appoggiando le scapole alla spalliera e li osservo. Il cappuccino si raffredda, ma non importa. È una scusa per prendere posto ogni mattina lì fuori. Non lo bevo. Il latte mi congestiona l’intestino. Ma non credo che nessuno nell’onda di persone che attraversa il bar se ne sia mai accorto. Sono trasparente, anche se non lo accetto. Non accetto soprattutto che la mia trasparenza assuma nuovamente un contorno solo attraverso l’occupazione di un posto. È per questo che la mia sfida quotidiana continua. Attendo lo spazio di un dialogo. Di un frammento di conversazione. Di uno scambio che abbia il sapore della conoscenza. Di poter dire come mi chiamo e che non sono solo la donna dell’angolo a destra.
Melissa Turchi
illustrazione di Irene Alessandrino
Melissa Turchi è in libreria con «Parole in grammi», Morellini Editore