Ordinaria quotidianità…

 

Non sono la donna dell’angolo a destra

Mi conoscono per il posto che occupo. Per loro sono la donna dell’angolo a destra. Sorridono, non sempre, però si alzano per consentire il mio passaggio. Il rispetto della differenza di età è ancora esistente. Forse è l’unico elemento in comune tra la mia e la loro generazione. La conversazione latita, anzi, è proprio assente. Per questo motivo, ripeto il mio gesto ogni mattina. Un po’ per abitudine, ma soprattutto per sfida.Alle sette e trenta, al rintocco delle campane, scendo le quattro rampe di scale del mio palazzo. L’ultimo pianerottolo costituisce la linea di demarcazione tra la vita ordinaria, quella del palazzo, e la vita straordinaria ritmata dalla musica assordante, che rimbomba dalle pareti del bar a bordo strada. La connotazione del bar è mutata. Non sono cambiati soltanto i tessuti delle tovaglie o i colori delle pareti, sono variate pure la clientela e l’atmosfera. Il gruppo consuetudinario di persone che leggevano il giornale e si fermavano per una chiacchierata è stato sostituito da un flusso variegato di clienti di corsa e pressoché silenti. Le parole sono state risucchiate da una musica continua e intensa. Io sono l’unica degli storici avventori che ancora mi ostino a frequentare il bar e alle sette e trenta mi presento all’entrata. «Buongiorno, il solito».Ripeto ogni mattina anche se so che non è necessario. Per me, però, rappresenta il filo invisibile di congiunzione, il tentativo di un legame, il richiamo di un antico scambio di parole, oggi pressoché inesistente. Il caffè scende lento e va a adagiarsi sul fondo. Il proprietario fissa la fila di persone che occupano lo spazio ristretto davanti al bancone. Sporge il mento in avanti e due ragazze depositano alcune monete sul recipiente. Non salutano lui, né parlano tra di loro. Hanno le cuffie alle orecchie e mi chiedo se ascoltino la musica assordante all’interno del bar o riescano a udire altre canzoni. Lui resta immobile. Io invece mi sposto di lato per far transitare le due ragazze, che a capo chino e con lo sguardo occupato dal bagliore del cellulare, mi affiancano ed escono. Per loro rappresento soltanto un ostacolo che si è spostato in tempo lungo il loro cammino. Il resto delle persone di fronte al bancone attende nel silenzio rumoroso della musica che rimbomba nei pochi metri quadrati del locale. Solo una ragazza si distingue rispetto al resto del gruppo: ondeggia sul posto, batte le mani e fa un giro su se stessa. Mi fissa nel momento esatto in cui si blocca sul posto. Le sorrido. E la ragazza pronuncia un buongiorno stentato, che decifro dal movimento delle sue labbra. Continuo a sorriderle. È per attimi come questi che sono qua, perché mi piace lo scambio e il confronto. Marco, il proprietario, deposita il mio cappuccino sopra l’ultima parte del bancone. Come per distanziarmi dal resto della clientela, per lo più studentesca e giovane. Lui alza un muro che io non desidero. «Grazie.» Dico a voce alta sopra la musica rompendo l’assenza di voci nel tentativo di attirare l’attenzione, ma non ascolto nessuna reazione, neppure una levata di sguardi. Sono presenze assenti. Mi incammino lenta all’esterno con la tazza stretta nella mano. La musica si disperde e allenta la sua intensità. La pedana è occupata per metà. Alcuni ragazzi stazionano in piedi e con le dita scorrono veloci sullo schermo del cellulare. Altri sono appoggiati alla balaustra, la sigaretta elettronica posizionata tra le labbra. Quelli seduti hanno le cuffie alle orecchie e il computer aperto davanti agli occhi. Forse studiano. Non parlano. Non con me, ma neppure tra di loro. «Grazie». Dico ai primi che si spostano. Ripeto «grazie» anche ai due che con fatica si mettono di lato. Dico ancora un «grazie» alle cinque ragazze che si sono assiepate intorno a un tavolo lasciando libero quello in fondo a destra. Il mio. Mi siedo appoggiando le scapole alla spalliera e li osservo.  Il cappuccino si raffredda, ma non importa. È una scusa per prendere posto ogni mattina lì fuori. Non lo bevo. Il latte mi congestiona l’intestino. Ma non credo che nessuno nell’onda di persone che attraversa il bar se ne sia mai accorto. Sono trasparente, anche se non lo accetto. Non accetto soprattutto che la mia trasparenza assuma nuovamente un contorno solo attraverso l’occupazione di un posto. È per questo che la mia sfida quotidiana continua. Attendo lo spazio di un dialogo. Di un frammento di conversazione. Di uno scambio che abbia il sapore della conoscenza. Di poter dire come mi chiamo e che non sono solo la donna dell’angolo a destra.

Melissa Turchi

656x492 Illustrazione Futura - Irene Alessandrino - Melissa Turchi-klEG-U3480500271364ZXF-656x492@Corriere-Web-Sezioni

illustrazione di Irene Alessandrino

Melissa Turchi è in libreria con «Parole in grammi», Morellini Editore

Le regine d’agosto: mosche, zanzare e cicale …

 

 

Nel silenzio immobile della canicola, ronza sovrano un moscone.  Protagonista assoluta della controra, la mosca è la sola che si fa sentire nell’inerzia pomeridiana e mostra a quell’ora una vitalità sconosciuta a uomini e bestie, accasciati dal caldo. Desta speciale invidia la sua totale libertà negata a ogni altro essere vivente. Le senti ronzare nelle stanze dei morti, nel silenzio tombale o celestiale dei pomeriggi estivi, sprezzanti del calore e del cordoglio; le sentivi violare, con sfrontata irriverenza, il sacro silenzio dell’eucaristia, nelle chiese accaldate d’estate, quando neanche i ventagli accennavano un rumore; le sentivi esibirsi nei momenti di massimo silenzio in scuole e caserme, quando non doveva volare una mosca ma lei se ne fotteva. Ai pranzi solenni violano il cibo e le cerimonie. La sublime libertà della mosca, la sacrilega noncuranza del suo ronzare, la divina strafottenza dei suoi giri…
Ora c’è la demuscazione ma l’arma chimica per combattere le mosche un tempo era il flit, l’arma bianca era invece il picchietto. La prima volta che apparve su un giornale un mio lavoro non avevo quattro anni: era il corpo di una mosca schiacciato col picchietto sulla pagina di un quotidiano. Fui incaricato da mia madre di uccidere le mosche in cucina. Non solo per disinfestazione ambientale ma per tenermi impegnato, perché all’epoca ero nullafacente. Lei sosteneva che “le mosche sono giornaliste” nel senso che amano posarsi sui giornali, forse attirate dall’odore dell’inchiostro, e allora stendeva sulla tavola lenzuolate di quotidiani per attirarle nel gioco fatale. Era il tempo in cui la stampa aveva ancora un ruolo importante. L’informazione come esca, la lettura come alibi. Ed io, armato di picchietto con retina in plastica gialla e manico di metallo, provvedevo a sterminarle. Fu il mio primo incarico per un giornale. La prima cosa mia che apparve su un quotidiano fu una mosca schiacciata. L’esordio precoce nell’attività giornalistica cominciò dunque con una stroncatura, firmando mosconi in cronaca nera; ma da killer e non da semplice cronista. Non si conoscevano le generalità della vittima, ma il corpo era sbattuto in prima pagina.

La sottile punizione dell’estate è la zanzara. Le senti spuntare all’imbrunire, cerchi riparo, ogni casa ormai fronteggia l’importuna creatura, dotandosi di zanzariere; a nessun altro animale è dedicata così speciale attenzione. Ma la pungente molestatrice d’agosto riesce a infilarsi nell’attimo fuggente in cui passiamo della porta; entra da fessure impreviste, e mette a rischio la notte. Di guerre domestiche alle zanzare sono piene le notti insonni d’estate. Si vorrebbe capire la loro funzione nel creato, qualcuno rispolvera antichi testi di teologici per dirci che servono per mettere alla prova l’umana pazienza. Ma non possiamo pensare che la loro vita sia in funzione della nostra. Pungono per proprio piacere e godere, per nutrirsi e bere alla spina, e non perché assumono una funzione educativa nei confronti dell’uomo. Non c’è animalista, tuttavia, che non avverta un senso di sollievo davanti a un corpo di zanzara spiaccicato, e persino a una strage di zanzare. I diritti degli animali non si estendono agli insetti, si è indulgenti pure con l’orso e col lupo nonostante mettano a repentaglio la vita umana; ma con la zanzara non c’è indulgenza, neanche un filo di pietà. Sterminio, o arma letale: aria condizionata a palla.

Ogni estate ha la sua canzone regina, ma in ogni estate non finisce mai il refrain della cicala, vera colonna sonora d’ogni agosto. I suoi concerti sono gratuiti e non richiesti, inesorabili, a vasta diffusione. Vivono poco le cicale, ma il loro frinire non finisce con la vita di un singolo insetto; l’una riprende il canto dell’altra, la loro vita è corale: tante singole brevità formano un’eternità collettiva. La cicala canta l’agosto rimando i diurni silenzi nel ventre sopito di una campagna, nell’afosa quiete d’agosto. Pensieri e parole s’arrendono, come asciugate dal caldo e cedono il posto al suo ritmo infinito. La nascosta regina delle calure dissolve le voci, cattura gli uditi, nei suoi lunghi, frenetici monologhi, di rado interrotti da magiche intermittenze. Il suo canto d’agosto scioglie gl’istanti, nell’incessante monotonia sonora, che scorre e si placa, e ancora riprende, uguale, vana e soave, incurante del tempo. Eterni ritorni racconta la sua effimera vita. Da sempre, dai tempi delle favole, si oppone la vanità estetica del suo frinire all’operosità etica della formica, lavoratrice indefessa, che trasporta pesi più grandi di lei. Eppure breve è la vita di entrambi, l’una terrestre, l’altra nascosta tra le fronde degli alberi. Da Esopo a La Fontaine, da Trilussa a Rodari, si è inventata la lotta di classe tra le parassitarie cicale e le lavoratrici formiche; eppure non sappiamo se la cicala sia privilegiata dalla sorte o sia condannata a frinire come in una pena infernale. Le formiche sono laboriose, “un popolo di formiche” furono definiti da Tommaso Fiore i fatigatori della terra, i cafoni delle campagne pugliesi. La cicala, insieme al suo più sobrio parente, il grillo, sono invece considerati i gagà nullafacenti della natura, che si perdono nel dire mentre le formiche si ammazzano nel fare. Sono smartphone della natura perennemente in linea. Cicale sono chiamate le persone che parlano a dirotto; e cicale sono definite le persone inconcludenti dalla vita oziosa, dissipata nel loro infinito ciarlare. Mosche, zanzare e cicale sono le vere regine d’agosto. Noi umani siamo solo comparse di passaggio.

 Marcello Veneziani          

Agosto al lavoro, barca o piscina, e l’arte dello scrocco…

Questa stagione è un libro felice: da quelli che dai suoceri ci mandano solo i figli, a quelli che scarpinano in montagna ore e in verticale così si guadagnano la cena.

Quelli che ce l’hanno e non ci vanno mai.
Quelli che se la sognano, la casa al mare.
Quelli che non la comprano apposta “sennò smetti di viaggiare”.
Quelli che si sono dovuti fare i conti e quest’anno si va dai tuoi cinque giorni al paese.
Quelli che si sono fatti i conti e la vacanza coi tuoi manco se mi pagano due stipendi.
Quelli che dai suoceri ci mandano solo i figli, la migliore idea dell’anno.
Quelli coi figli a Londra.
Quelli coi figli a Londra che dopo tre giorni hanno finito i soldi.
Quelli coi figli a Londra che non hanno parlato una parola di inglese ma al college si sono fatti un sacco di amici italiani.
Quelli coi figli senza compiti per le vacanze, anzi il professore ha mandato a tutti una bella poesia nella chat dei genitori.
Ludus animo debet aliquando dari, ad cogitandum melior ut redeat tibi. “Ma che vuol dire, che li devono fare o non li devono fare?”.
Quelli coi libri da leggere per le vacanze. “Se questo è un uomo”, “I Malavoglia”, “La coscienza di Zeno”. Approvazione silente dei genitori per i grandi classici: per forza o per amore, basta che li leggano.
Quelli col professore moderno che assegna Erin Doom. Magari leggono.
Quelli che una volta i bambini li dovevi recuperare frolli in mare dopo tre ore di bagno e ora fanno la fila al bar, neanche per il gelato, per farsi mettere in ricarica l’iPhone.
Quelli che in vacanza ci vanno a settembre e ad agosto lavorano benissimo.
Quelli che provano per la prima volta agosto in città, pensavano di farcela invece si deprimono. Non ci sono manco le anime dei morti.
Quelli incontentabili.
Quelli accontentabili, va bene pure il bagno nella bacinella blu.
Quelli che come si mangia in Sicilia.
Quelli che si lamentano che tornano chiatti dalla Sicilia.
Quelli che non si può più andare in Sicilia perché fanno 42 gradi.
Quelli che Marzamemi sei anni fa la conoscevano solo loro.
Quelli che vanno a Capri da sempre e sanno tutti gli aneddoti locali su Gianni Agnelli e Jackie Kennedy. Lo chiamano l’Avvocato, come gli amici.
Quelli che la Liguria, gli porti i soldi e ti trattano così. Ce l’avete coi milanesi?
Quelli che la Sardegna, gli porti i soldi e ti trattano così. Ce l’avete coi milanesi?
Quelli che la Sardegna sì, ma non Costa Smeralda.
Quelli che la Campania sì, ma non Costiera Amalfitana.
Quelli che sono cafoni e contenti: Capri, Positano, Porto Rotondo, Forte dei Marmi, Portofino.
Quelli con la barca.
Quelli che “i due giorni più belli se hai la barca sono quando la compri e quando la vendi”.
Quelli che hanno l’amico con la barca.
Quelli con caratteri meravigliosi, gli spassosi e sempre allegri, li trovi ovunque, loro vacanza gratis, e c’è la gara a invitarli. Se li conosci capisci che non è scrocco, è arte.
Quelli che vanno al porto di Bordighera alle sette e mezza ad aspettare il battello perché il pescatore gli tiene da parte la cassetta del pesce appena pescato, solo a loro.
Quelli che al ristorante come il signore del Glen Grant bendati ti dicono se il branzino è allevato o no. Vanno al banchetto del ghiaccio, come i sommelier di pelle di pesce, e ne scelgono uno “perché ha un’ombra verdastra sotto le branchie, vuol dire che è di mare”. Il cameriere lo accompagna con ampi cenni di assenso, per confermare che il signore la sa lunga.
Quelli complottisti, con tutto il pesce che serve ad agosto in Italia secondo te ti danno il pescato, imbecille.
Quelli che affittano la villetta con piscina in Umbria e non sono mai stati così bene, non c’è nessuno per chilometri.
Quelli che vanno in montagna.
Quelli che scarpinano in montagna ore e in verticale così si guadagnano la cena. Che vita.
Quelli che non c’erano mai andati ma adesso cominciano ad apprezzare le cime, il laghetto, la pace, la copertina, il maglioncino. Passa un cervo e fanno una foto. Giusto ogni tanto, all’imbrunire dopo la doccia, si chiedono se è vecchiaia.
Quelli che la vacanza è solo sull’isola perché stacchi.
Quelli che la vacanza è solo in barca perché stacchi.
Quelli che hanno bisogno di andare all’estero, per staccare.
Quelli che si chiedono cosa devono staccare.
Quelli che hanno bisogno di andare ancora più lontano, in Oman.
Quelli che leggono sempre, quelli che non leggono mai ma un libro per agosto lo comprano per tradizione. Questo libro, spesso un saggio o un finalista Strega, frulla per giorni sulla sdraio, al vento, bagnato dagli spruzzi. Le pagine si gonfiano, diventano dorate sotto il sole. Passa una bella estate pure lui, è un libro felice..

Ester Viola__da __IL FOGLIO

 

estate

Niente novità, non aspettiamo nessuno…

 

Non aspettiamo nessuno. Se dovessi riassumere in una frase il sentimento prevalente nel nostro Paese, il tratto comune e per certi versi la novità del momento, direi proprio così: non aspettiamo nessuno.

Ferragosto è il vero spartiacque tra l’anno vecchio e l’anno nuovo. Si spezza la sequenza dei giorni, finisce un periodo, un ciclo e ne comincia un altro. E nel giorno in cui si cominciano a riaprire gli occhi fino a risalire all’incipit di settembre, ci accorgiamo di questa novità: che non ci sono novità, non si aspettano arrivi, non attendiamo qualcuno o qualcosa che da qualche parte porterà cambiamenti, svolte, ad ogni livello. Sul piano politico, che è poi il più vistoso, non cova nessuna novità nella pancia del Paese: tutti i soggetti in campo, dico tutti, sono stati al governo negli ultimi cinque anni, ogni partito ha avuto un ruolo di governo e di coabitazione, oltre quello periferico delle amministrazioni locali. E non c’è nessuna forza nuova, intonsa, che si profili in qualche angolo della realtà. Il leader più giovane guida il partito più vecchio, con una consuetudine di potere e di egemonia ormai proverbiali: dico Elly Schlein e il Pd. Antico sembra ormai il movimento 5 Stelle, che pure era il più giovane e radicale movimento di contropotere; oggi ha la conformazione di un camaleonte coi reumatismi, che si muove a scatti, anchilosato e mutante; ma non rappresenta la novità, semmai il più recente passato da cui vogliamo fuggire. Novità furono Grillo e Casaleggio, e poi Di Maio e Di Battista, ma Conte è tutto meno che una novità. Frattaglie sclerotizzate vegetano ormai da anni ai bordi della politica, da Calenda a Renzi, dai rossoverdi ai residui radicali. Centrini che non ce l’hanno fatta, movimentini da passeggio; tutto risaputo da tanti, troppi anni. L’ultima novità, seppure non assoluta, era Giorgia Meloni, che veniva dall’opposizione al tempo delle ultime ammucchiate. Nel paragone con gli altri leader è ancora la più verace, non dirò genuina o sincera ma con una sua autenticità, proviene dalla vita politica anche sul territorio; usa un gergo politico ancora legato alla realtà e alle passioni, anche quando è fatto di slogan, non è un prodotto “artificiale” come la Schlein o Conte. Ma è al governo da due anni, ci abbiamo fatto l’abitudine a vederla nei vertici interni e nei consessi internazionali, non c’è più l’effetto novità, e la sua prima preoccupazione per restare in sella è rassicurare, fugare ogni possibile segno di frattura e di novità.  I suoi alleati sono ormai stagionati, i loro partiti sono vecchie conoscenze da almeno trent’anni. L’ultima novità risale ai loro fondatori, più di trent’anni fa. E minestre riscaldate sono ormai i tecnici al governo che periodicamente ricicciano in un paese eurodipendente e sbilanciato, sempre in bilico tra guerre bipolari e tregue inciuciose, tra scontentezza e rassegnazione. Che dovrebbero ogni volta trarci in salvo ma fanno solo manutenzione per conto di poteri sovrastanti.A confermare al massimo livello il girare a vuoto della politica, i suoi circoli viziosi, è la presenza di un replicante al Quirinale: per la prima volta nella storia della repubblica abbiamo lo stesso Presidente del Consiglio per ben due mandati, quattordici anni. Il Mattarella bis è la prova più altolocata e schiacciante che il Pd non ha mai lasciato il Palazzo ed è nelle sedi istituzionali, anche internazionali. Il ritornello si è incantato, dopo il vecchio non arriva il nuovo ma lo stravecchio, ossia il vecchio che continua. Insomma non ci sono novità all’orizzonte, quel che può succedere è solo qualche avvicendamento di routine, cambi della guardia al Palazzo, staffette, turnazioni e rotazioni, non svolte o progetti innovativi. Non aspettiamo che arrivi nessuno da nessuna parte: da sinistra o da destra, dal centro o dall’Europa, dai tecnici o dall’antipolitica, dai verdi o da ogni altro colore.

C’è chi dice che una democrazia matura sia proprio questo, tutto avviene dentro il range prescritto, senza salti o fratture; la mano passa tra soggetti ben noti e collaudati, usato sicuro, senza mai fuoruscire dal programma, dalle direttive internazionali e dal pacchetto prestabilito. Però un paese si spegne quando non aspetta niente e nessuno, né da chi c’è già, né da chi vorrebbe subentrare al suo posto, semplicemente perché nel giro precedente era già lì, e dunque già sappiamo quanto valgono, cosa fanno e come si muovono.  Le ultime novità o new entry della politica, non possono produrre alcun tipo di svolta, rappresentavano solo curiosità d’assortimento delle offerte in catalogo: dico la Salis, Mimmo Lucano, Vannacci. Sono single senza voce in capitolo, che si perdono tra settecento e rotti europarlamentari, non possono incidere su nulla, non ne avrebbero la forza, prima ancora di chiederci se ne hanno il proposito e la capacità. Un nuovo movimento politico, con un minimo di prospettive, non si vede ormai da non so quanti anni.     Ma la politica è solo la punta dell’iceberg di un più profondo malessere sociale e civile, morale e psicologico che tocca l’animo e la vita degli italiani, o degli europei. Perché quel “non aspettiamo niente e nessuno” in realtà investe la cittadinanza anche in ambiti privati o nelle relazioni sociali e non risparmia le comunità a tutti i livelli. Questo stato d’animo potremmo riassumerlo in una espressione: demotivati. Siamo demotivati, perché delusi e in precedenza illusi da troppe aspettative, perché anziani, con una popolazione di pensionati ormai debordante; ma soprattutto abbiamo perso la vitalità e la vivacità che denotano le società giovani, intraprendenti, dinamiche.  Viviamo però nell’agiatezza e nella longevità, non ci mancano i conforti e i surrogati, non viviamo male e in modo così infelice. E poi vale sempre il proverbio “niente nuove buone nuove”. Però quel tarlo ci corrode, quell’assenza di aspettative, quella demotivazione che si legge nelle facce e nelle parole è il malessere maggiore che cova nella società del benessere. Dovrebbe essere quella domanda il punto di ripartenza: perché non aspettiamo nessuno che bussi alla porta, cosa è successo?

  Marcello Veneziani    

Addio Alain Delon..

Macron: ‘Delon più che una star, un monumento francese’. Claudia Cardinale: ‘Il ballo è finito’
“Mister Klein o Rocco, nel Gattopardo o il Samurai, Alain Delon ha interpretato ruoli leggendari e ha fatto sognare il mondo – ha scritto su X il presidente francese Emmanuel Macron ricordando Alain Delon -. Prestando il suo volto indimenticabile per stravolgere le nostre vite. Malinconico, popolare, segreto, era più che una star: era un monumento francese”.

“Il ballo è finito. Tancredi è salito a ballare con le stelle…per sempre tua, Angelica”: rivivendo un’ultima volta le storiche scene che li videro indimenticabili protagonisti de “Il Gattopardo”, Claudia Cardinale affida all’ANSA le sue ultime parole per Alain Delon. “Mi chiedono parole – dice – ma la tristezza è troppo intensa. Mi unisco al dolore dei suoi figli, dei suoi cari, dei suoi fan… Il ballo è finito. Tancredi è salito a ballare con le stelle… Per sempre tua, Angelica”.

Alain Delon,nato  l’8 novembre 1935 a Sceaux nell’Alta Senna, se n’è andato per sempre a 89 anni ; con lui se ne va la grandeur frances .
Anche se solo adesso ha deposto la corona Alain Delon, indimenticabile re del cinema francese, se l’era già sfilata nel 2017 con l’annunciato ritiro dalle scene: “Ho l’età che ho – diceva-. Ho fatto la carriera che ho fatto. Ora, voglio chiudere il cerchio. Organizzando incontri di boxe, ho visto uomini che si sono pentiti di aver fatto un combattimento di troppo. Per me, non ce ne sarà uno di troppo”. Ben più del peso degli anni e dell’orrore nel vedere allo specchio la sua leggendaria bellezza sfiorita, a minare la sua voglia di vivere c’era stato un ictus (destino condiviso col suo eterno amico-rivale Jean-Paul Belmondo) e poi la diagnosi di un linfoma lentamente insinuato nei polmoni. Da combattente irriducibile il vecchio leone aveva ancora salito la scalinata di Cannes nel 2019 per una Palma d’onore che risarciva l’unico Prix César ottenuto in carriera. Poi si è piegato definitivamente alla solitudine, una segreta compagna che in più momenti della vita l’aveva accompagnato nel tunnel della depressione. (di Giorgio Gosetti)
Non c’è cosa più triste di una bellezza sfiorita né cosa più amara di una giovinezza appassita. La vecchiaia che per tutti è un declino, agli occhi dei belli è una catastrofe; quelli che più hanno avuto dalla vita, dalla giovinezza e dall’amore, sprofondano ancora di più nell’abisso degli anni.(M. Veneziani)
Alain Delon aveva avuto dalla vita una bellezza sfolgorante, aveva avuto le donne che voleva, ne ha amate alcune, come Romy Schneider , un amore travolgente ,tragico, che lasciò un segno profondo nella sua vita, che trovò poca pace in senso amoroso. Credo sia stato l’uomo più amato di tutto il mondo, almeno per le donne della mia generazione . Lo porterò nel cuore, continuando a vedere i suoi occhi azzurri, il suo sorriso bastardo e la sua tristezza, che il suo cuore non riusciva a nascondere  ,mai . Addio Alain Riposa in Pace !

Alain Delon

Ognuno, quando fa del bene a un altro, lo fa a se stesso.

Dobbiamo fare di tutto per dimostrare la massima gratitudine. Questo è un bene nostro, allo stesso modo che la giustizia non riguarda gli altri, come comunemente si crede: gran parte ricade su se stessa. Ognuno, quando fa del bene a un altro, lo fa a se stesso. E non lo dico perché chi è stato aiutato vuole aiutare, chi è stato difeso vuole proteggere e perché il buon esempio ritorna sulla persona che lo ha dato, (così come i cattivi esempi ricadono sugli autori, e se uno con le sue azioni ha insegnato che si può offendere, non trova commiserazione quando viene a sua volta offeso); ma lo dico perché ogni virtù trova in se stessa la sua ricompensa. Non la si esercita in vista di un premio: il guadagno di un’azione virtuosa consiste nell’averla compiuta.  Dimostro gratitudine non perché un altro spronato dal mio precedente esempio mi aiuti più volentieri, ma per compiere un’azione dolcissima e bellissima; sono grato non perché mi conviene, ma perché mi piace. Per renderti conto che le cose stanno così, sappi che se potrò dimostrare la mia gratitudine solo sembrando ingrato, se potrò ricambiare un favore solo sotto l’apparenza di un’offesa, con la massima tranquillità realizzerò questo giusto proposito anche a prezzo dell’onore. Nessuno, secondo me, tiene in maggior conto la virtù, nessuno le è più devoto di chi rovina la propria reputazione di uomo onesto per non tradire la propria coscienza.  Perciò come ho già detto, il dimostrare gratitudine è un bene maggiore per te che per il tuo prossimo; a lui càpita un fatto comune, di tutti i giorni, riavere quello che ha dato, a te un fatto importante, generato da uno stato d’animo di intensa felicità, aver dimostrato gratitudine. Se la malvagità rende infelici e la virtù felici, e l’essere riconoscenti è una virtù, hai dato una cosa comune e ne hai ottenuta una di valore inestimabile, la coscienza della gratitudine, che nasce solo in un animo straordinario e fortunato.

Seneca__Lettere a Lucilio___ I secolo d.C.

th gratitudine

” Dinanzi ai libri aperti parlavamo più di amore che di filosofia”.

Dinanzi ai libri aperti parlavamo più di amore che di filosofia, ed erano più i baci che le sentenze. Più ai seni che ai libri correvano le mani, e gli occhi riflettevano l’incanto dell’amore più spesso che non si volgessero alla lettura del testo. Per non suscitare il minimo sospetto talvolta la percuotevo, ma era per amore non per furore, era per piacere non per ira, un piacere più soave di qualunque balsamo. A poco a poco gustammo bramosamente tutti i gradi dell’amore, senza trascurarne alcuno e se l’amore ebbe mai il potere di escogitare piaceri insoliti noi ce li concedemmo.

Pietro Abelardo__ Lettere (inizi XII secolo).

 

abelardo ed Eloisa

 Ricordate chi era Abelardo, il consacrato del   Medio Evo, il cui amore per una fanciulla diventò un mito come quelli celebri di Dante e Beatrice,  Petrarca e Laura,  Paolo e Francesca ? Chi era Lei?

Non siate schiavi delle mode…

 

Non sia la moda a rendervi infelici, né le mode vi inducano in schiavitù. Per quanto banali e scontate queste regolette di bon ton verso se stessi non vengono mai raccomandate abbastanza. Perché si, di rispetto per se stessi e non altro è fatta la sana reattività di chi non va supinamente a rimorchio di moda e mode. Guardatevi da imperativi destinati acriticamente alla pazza folla, rifiutate le gonnelline elasticizzate se avete un sedere autorevole, sfuggite alla minigonna se le gambe non sono perfette, esercitate su di voi lo spirito critico di cui siete capaci guardando gli altri. Non usate vistosi parrucchini se tendete alla calvizie, non vestitevi da capo a piedi come i giovanotti grintosi che occhieggiano dalle pagine pubblicitarie della moda maschile se non avete le physique du rôle, e per carità evitate di farlo anche se l’avete. […] Indossate ciò che piace a voi, che vi convince, vi abbellisce, fosse anche un vecchio merletto ottocentesco, o la cappa mantello di Sherlock Holmes, assolutamente fuori gioco dall’imperativo del momento. Quanto a mode, conquistate una volta per tutte l’orgoglio di stare fuori dal coro. Anche quando vi troverete casualmente dentro ci sarà sempre qualcuno convinto che se lo avete fatto “voi” l’idea era proprio buona.

 Maria Venturini__Dizionario delle felicità

 

modista

Giardino d’infanzia …

 

 

Ma com’erano i bambini quando nascevano in branchi e non in campioni unici e irripetibili, e in casa anziché in ospedale? Provo a rinfrescarvi la memoria con graffiti di preistoria ripescati dall’infanzia. Piccoli quadretti di scarso valore rubati all’oblio, per raccontare, tramite storie minime, la dolce fatuità del passato.

*Passa l’angelo e dice amen. Da bambino appena facevi una smorfia, una boccaccia o peggio imitavi uno storpio, genitori e adulti ti ammonivano: non farlo, sennò passa l’angelo e dice amen; ti fa rimanere per sempre così. C’è pure una canzone di De Gregori sul tema. Ho sempre pensato con apprensione a quest’angelo feroce, veloce e privo di senso dell’ironia che ti faceva restare per sempre con la boccaccia, il viso mostruoso e la gamba zoppicante. La faccia d’angelo, i modi celestiali, e poi, con quella purezza divina, con una parolina ti rovina per sempre…Amen, così sia. Ma perché questa tempestiva ed esagerata punizione per uno scherzo da bambini? Rovesciai la teologia che considerava i diavoli come angeli decaduti, convincendomi al contrario che gli angeli fossero diavoli progrediti, dalle buone maniere e dalla carnagione bianca, ma terribili quanto i loro più abbronzati colleghi del piano inferiore. E mi convinsi che gli handicappati fossero in origine bambini dispettosi che erano stati puniti per la loro disobbedienza. Cave signatos, si diceva crudelmente allora, altro che inclusione per i diversamente abili. (Risvolto da non rimpiangere).

*Perché le figurine dei calciatori, associate nella memoria infantile agli album Panini, ebbero grande successo da noi? Si, perché il calcio era lo sport più popolare, perché ogni bambino sognava di essere campione in erba e si giocava dappertutto. Ma c’è una ragione in più, e più profonda, che sfugge: perché il nostro era il paese dei santi e dei santini, la figura del santo era il passepartout del paradiso, lo scudo di protezione, la carta d’indentità patronale di un paese, l’eredità degli dei pagani lasciata alla civiltà cristiana. Non divinità discese dal cielo, non angeli venuti a soccorrerci e a custodirci, ma umanità salita al cielo, gente come noi che aveva compiuto il cammino di fede, opere e dedizione ed era diventata intermediaria col divino. La nostra era la civiltà dei santi e le figurine erano la continuazione dell’agiografia in ambito sportivo; così come i santini dei candidati erano la promessa elettorale, lo scambio tra voto e protezione, preferenza e raccomandazione, tra credenti e potenti. Ogni bambino aveva il suo patrono nel calcio, il suo santino preferito, il suo modello. Santi, santini e figurine erano le icone degli influencer di quel tempo.

*La mia play station dell’infanzia fu un agnello vero, adottato per capriccio in casa. Fui accontentato fino a quando pretesi di mangiare con lui sul pavimento, a quattro zampe, dalla stessa scodella. Non volevo umanizzare l’agnello ma ovinizzarmi io, in una fraternità evangelico-zoologica. Mi tolsero l’agnello per non farmi aderire al gregge. Dissero che se n’era voluto andare lui, per tornare da sua madre. Anche tu avresti fatto la stessa cosa.

*In quel tempo ero buono e volevo alleviare le fatiche domestiche di mia madre. E siccome era uscita, come quasi mai faceva, mi intrufolai in cucina e vidi un cartoccio traboccante di merluzzi che mia madre avrebbe pulito al suo rientro. Pensai di fare cosa utile lavando i merluzzi con il detersivo. Salii sulla sedia e li lavai nel lavandino con Olà, confezione blu con strisce bianche e rosse. Diventarono brillanti le squame dei merluzzi nella schiuma, sembravano pezzi d’argenteria. Sapevano di bucato. Mostrai orgoglioso la mia opera a mia madre. Notai però, con sorpresa, un segno d’ingratitudine in lei. Quel giorno, stranamente, mangiammo per secondo uova al tegamino. Che fine avranno fatto i pesci?

*A casa mia non avevamo ancora la tv e il frigorifero, per l’acqua fresca bastava farla scorrere dal rubinetto; primo segno di novità, era appeso al muro un topone nero a due teste, dotato di coda e guscio, che squittiva, chiamato telefono. 921585, il primo numero non si scorda mai. Era nel corridoio perché la telefonata aveva una valenza corale, famigliare e doveva essere breve, comunicare l’essenziale, come un ricetrasmittente militare. Passo e chiudo. In teleselezione, poi, ancora più brevi e si alza la voce, perché parla da remoto.

Una sera scoprì la modernità. Andai a trovare un mio amico, Maurizio, che aveva i genitori più giovani dei miei, era nato a Roma, aveva il televisore in casa, e pure il frigorifero e il termosifone. Coetaneo, abitante di fronte a casa mia, ma mille anni più avanti. A casa sua scoprì che c’era l’acqua minerale frizzante in bottiglie di plastica, c’erano le bustine di idrolitina e si poteva tracannare a cannella, prelevandola direttamente dal frigo, previo schiacciata di pedale del bestione bianco; senza miscelarla, come invece raccomandavano i miei genitori, con acqua a temperatura ambiente per evitare sicure morti per congestione. E alla fine della bevuta, visto il gas, era giustificato anche un rutto di adulta mondanità. C’era un riassunto epocale in quella bevuta, quante libertà in un solo gesto: acqua ghiacciata del frigo, gassata, bottiglia in plastica, bevuta a cannella, rutto incontenibile… Ammazza che modernità.

*A quattro anni sniffavo e cadevo in ecstasy olfattiva con turbe pseudoerotiche puerili. Lo spacciatore era il barbiere. Dopo lo spruzzo di un orrendo, bruciante profumo sulla nuca arrossata, donava sottobanco calendari profumati con donne dalle tette esagerate su vitini di vespa. Il calendario emanava un odore inebriante: il primo erotismo fu per via inalatoria, in sinestesia con la vista. Ma a 4 anni, le confondevo con le figurine Mira Lanza, quella eccessiva gibbosità anteriore e posteriore era ai miei occhi di bambino solo una monelleria del disegnatore e una caricatura femminile.

*Una di quelle sere di fine autunno in cui ti aspetti che dalla cucina ti chiami tua madre o tuo padre a mangiare castagne arrostite. Tu stai facendo i compiti e senti il profumo delle caldarroste impregnare la stanza e salire dalle narici. Felicità è quella pausa odorosa e quelle mani che liberano il frutto giallo e nero dalla buccia arrostita, quel goloso mangiare insieme, tra mani di carbone e punte fredde delle dita che frugano tra caldi frutti…Nostalgia delle castagne di casa. Dal tegame bucato entrano fiamme ed escono ricordi brucianti. La fiamma dei ricordi.

 Marcello Veneziani            

Il Gps iraniano disturbato da Israele e le carte che tornano utili…

Le carte che si chiamano carte appunto perché sono di carta. Quelle che nessuno può disturbare e che non si spengono mai. Mentre Israele impedisce ai missili iraniani di volare (e ci salva), il cervello impigrito dal digitale ricomincia a orientarsi.

Dagli Ebrei la salvezza. Non sono particolarmente filosemita, sono particolarmente interessato alla salvezza e dunque considero perennemente attuale Giovanni 4,22: “Salus ex Iudaeis est”. Osservo Israele e vedo che laggiù disturbano il sistema Gps per confondere gli incombenti missili iraniani. Quindi anche i navigatori satellitari sono una tecnologia fragile, buona quando le cose vanno bene. In Israele sanno meglio che altrove che le cose vanno tendenzialmente male e così dimostrano la perenne attualità delle carte stradali. Le carte che si chiamano carte appunto perché sono di carta. Quelle che nessuno può disturbare e che non si spengono mai. Ne avevo tantissime, quasi tutte del Touring Club, tante le ho buttate imprevidentemente (ipotizzando come un qualsiasi sciocco europeo un futuro di pace), qualcuna grazie a Dio l’ho tenuta e quando voglio capire davvero dove mi trovo o dove devo andare (non solo il percorso ma il contesto) le riguardo. Ogni volta sento la mente che mi si riapre, il cervello impigrito dal digitale che ricomincia a orientarsi. Si seguano le carte e gli Ebrei, per non perdersi.

 Camillo Langone__da __IL FOGLIO                                                                             

gps