Troppo forti per restare alla periferia di Bruxelles..

Può l’unico leader europeo che ha vinto le elezioni, Giorgia Meloni, mettersi all’opposizione in Europa?

I socialisti non ci stanno simpatici, anzi pensiamo che siano la causa della maggior parte delle disgrazie europee. Neppure la presidente uscente del governo europeo Ursula von der Leyen sprizza simpatia, potendo sarebbe meraviglioso, pensando alla nuova guida dell’Unione, fare a meno degli uni e dell’altra. Nonostante l’ottimo risultato delle varie destre europee, pare però che non ci siano i numeri per mettere su una maggioranza di centrodestra pilotata da quel Partito popolare che raggruppa tutti i partiti moderati (tranne quello di Macron). Questioni complicate, fatte di veti e controveti, che per spiegarle non basterebbe un giornale intero. Il tema che quindi si impone è il seguente: può l’unico leader europeo che ha vinto le elezioni,Giorgia  Meloni, mettersi all’opposizione in Europa? Può il partito italiano principale, Fratelli d’Italia, chiamarsi fuori dalla cabina di regia che deciderà le sorti dell’Europa per i prossimi decisivi e complicati cinque anni perché «noi mai più con i socialisti» o perché «Ursula non ci piace»? Non so che risposte darà a queste domande nei prossimi giorni Giorgia Meloni. Certo ha una grande responsabilità, quella di tenere l’Italia in partita a prescindere dalle appartenenze politiche dei singoli interlocutori. È nello stile della donna, che non si è chiesta se Joe Biden fosse di destra o di sinistra ma se l’America debba o no essere nostro interlocutore privilegiato e strategico; non se il presidente tunisino o quello albanese siano sinceri democratici, ma se utili alla causa italiana. Quella che sta affascinando gli italiani è una nuova destra che si è liberata dai fantasmi che ancora aleggiano nei suoi estremi, che ha superato gli slogan facili del populismo demagogico, che ha dimostrato di saper stare seduta alla pari a tavoli importanti. E allora perché non immaginare che un’operazione simile sia possibile anche in Europa, con o senza socialisti, con o senza Ursula perché i percorsi si costruiscono un passo alla volta. Chi vuole inchiodare Fratelli d’Italia al destino di tutte le destre europee indistintamente ha uno scopo preciso: togliersi dai piedi il più possibile Giorgia Meloni. Non sapendo che la donna ha uno scarso spirito decoubertiniano: l’importante non è solo partecipare, serve vincere.

 Alessandro Sallusti.

Che bello vedere ammainate le bandiere dei politici ambientalisti e abortisti!

 

Mi piacciono le non elezioni: come quella di Federico Pizzarotti, che a Parma mi impone la raccolta differenziata, e quella di Emma Bonino, che mi ha sottratto innumerevoli connazionali con mezzo secolo di impegno pro aborto.

Non sono un elettore, non mi piacciono le elezioni: mi piacciono le non elezioni. Mi piace la non elezione di Federico Pizzarotti, l’uomo che mi ha rubato il cassonetto: da sindaco di Parma mi tolse il prezioso contenitore per impormi la raccolta differenziata, un sistema da colonia di insetti, bene, oggi il mio cassonetto è vendicato. Mi piace la non elezione di Emma Bonino, la donna che mi ha sottratto innumerevoli connazionali, con mezzo secolo di impegno pro aborto: in confronto l’elezione di Ilaria Salis appartiene all’ambito del meno peggio perché fra le varie accuse che pendono su quest’ultima non c’è quella di aver soppresso creature inermi. So perfettamente che i politici sono conformisti per statuto e perciò quasi tutti ambientalisti e abortisti, e che fra destra e sinistra, su questi come su altri temi, le differenze sono semplici sfumature, ma un conto sono i gregari e un conto sono le bandiere, e mi piace vederle ammainate simili bandiere.

Camillo Langone__da IL FOGLIO                        

                         bandiere ammainate                                       

Cadere e rialzarsi…

 

Quanto è difficile abbandonare il nostro modo di pensare?
 Quanta paura abbiamo di perdere qualcosa?
 Quanto sarebbe facile mandare avanti tutte le sofferenze, come si fa con un film troppo noioso o disturbante, e arrivare direttamente al punto in cui si rialza.
E invece dobbiamo attraversare il dolore, tanti dolori, tanti dispiaceri anche se ce ne sono alcuni che non supereremo mai.
Ci sono cose che dobbiamo fare, momenti da dimenticare ,parti di noi , luoghi e persone da abbandonare.
Abbiamo percorso tante strade , convinti di essere finalmente su quella che ci avrebbe portato a quella meta, solo sempre intravista, come un miraggio ,per accorgerci poi che ancora era una strada sbagliata, oppure non la nostra strada.
Ma se riusciamo a comprendere che se le cose belle a un certo punto finiscono, anche quelle brutte prima o poi lo faranno, poichè questa è la legge della vita.

caduta

La magia de “L’Infinito” di Giacomo Leopardi, che ci spinge a guardare oltre i confini imposti dal reale per vivere il piacere e la felicità.

 

L’Infinito è una delle poesie di Giacomo Leopardi più belle, dove il Poeta riflette oltre le cose materiali varcando l’immaginazione per entrare negli spazi sterminati dell’interiorità ,unica via per la ricerca del piacere e della felicità, che ,non trovando conferme nel reale, genera quel Pessimismo tipico del grande genio ,che è consapevole fino in fondo di ciò che lo circonda e dei limiti che la vita gli ha offerto.

Ma, oggi si può benissimo guardare all’”Infinito” da un altro punto di vista, anche perché quella solitudine che dona al poeta quell’”ermo colle” nell’era della “connessione perenne” rischia di non essere possibile, poichè l’uomo si dedica poco o niente all’introspezione.
Questa poesia è oggi patrimonio dell’Umanità.

L’Infinito

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Giacomo Leopardi

La lirica è un viaggio verso l’infinito piacere e la felicità,oltre la realtà della vita, come la Divina Commedia fu il viaggio di Dante verso Dio. Per Leopardi come per noi l’Infinito non è altro che un viaggio tra il finito e l’infinito, nel mondo delle illusioni dove l’uomo vuole cercare la felicità in un futuro, che poi si rivelerà essere un meraviglioso irraggiungibile miraggio. Viene fuori il pessimismo , che è il light motiv di tutto il pensiero leopardiano, la dolce tristezza di un cuore restio alla resa dell’evidenza di una natura matrigna, che lo induce alla continua riflessione sulla vita dell’uomo. Infatti possiamo trovare la felicità soltanto in quel luogo oltre il colle, oltre la siepe, quando ci perdiamo in quello spazio infinito, che ci mostra la bellezza dell’eternità.

infiito

Mai la messa con le chitarre e coi bonghi…

 

Meglio quella in rito ambrosiano, con devozione vibrante e preghiere in latino, canti in latino e brevi omelie in italiano

tetto chiesa

Ma vacci tu, Diotallevi, alla messa coi bonghi. Il sociologo Luca Diotallevi, Dio lo illumini, è convinto che la crisi del cattolicesimo si risolverebbe se tutti i cattolici confluissero nelle parrocchie. Basta distinguo! Basta movimenti! Basta messe in latino! Tutti dal parroco amico di Zuppi! Bene, domenica scorsa sono stato alla messa in rito ambrosiano antico a Santa Maria della Consolazione, Milano. Arrivato in anticipo immaginavo di trovare una chiesa semideserta e invece, pur non piccola, era strapiena. Nessuna possibilità di sedersi se non per terra. Una messa incredibilmente giovane, tanti ragazzi, tantissime ragazze (sedute per l’appunto anche per terra), parecchie donne velate. Devozione vibrante. Preghiere in latino, canti in latino, in italiano solo la breve omelia. Frequenti inginocchiamenti, sforzo minimo per chi dispone di inginocchiatoio, medio per chi disponendo di sedia deve inginocchiarsi sul pavimento ma può appoggiarsi allo schienale davanti, notevole per chi come me pone le rotule sulla pietra senza attenuante alcuna. Organo a canne. Comunione alla balaustra (sulla lingua). Chi frequenta una messa così (la consiglio per domani) mai frequenterebbe quel pezzo di modernariato anni 60-70 che è la messa cattoprotestante, stile Cei, con le chitarre e i bonghi. Mai.

 

Camillo Langone

da IL FOGLIO                                                                                         

Papa Francesco II

 

 

Habemus papam Francesco II. È subentrato al suo omonimo predecessore e spiazza un po’ tutti, in particolare coloro che amavano e coloro che detestavano il papa di prima. E’ decisamente contro l’aborto, che definisce senza mezzi termini un omicidio, è fortemente impegnato nella difesa della famiglia e della natività, condanna l’eutanasia, gli uteri in affitto e non si trattiene dal denunciare che “c’è troppa frociaggine” nella Chiesa, usando un linguaggio che per taluni è “papale papale” per altri è scurrile, non adatto a un Papa. E’ vero che poi si è scusato, sollecitato a gran voce dai bigotti del politically correct che amano correggere le dissonanze con l’ipocrisia; ma le scuse possono riguardare quel che ha detto, ma non sopprimono, non revocano quel che ha pensato; sono una rettifica dell’espressione usata, ma non possono essere una ritrattazione delle sue convinzioni.  Da anni il Papa denuncia la presenza di una lobby gay all’interno della Chiesa, e vede insinuarsi il pericolo di un reclutamento omosex nei seminari. Ciò non toglie che il Papa ribadisca il rispetto, l’apertura e l’affetto verso tutti, gay inclusi, indipendentemente dalle inclinazioni sessuali. Il Papa non equipara le coppie omosessuali alle famiglie, anche perché sarebbe incoerente col magistero della Chiesa, ma non vuole giudicare né occuparsi delle loro scelte intime, private. Però da tempo mostra disagio per la presenza di conventicole gay, gruppi di pressione, lobbies appunto, all’interno della Chiesa; quello che altrove viene chiamato “amichettismo”. Certo, dicendo che in Chiesa “c’è troppa frociaggine”, il Papa ha dimenticato la storia recente della Chiesa. Due o tre predecessori recenti di Papa Bergoglio, erano “in odore di frocità”, per restare nel suo gergo da caserma più che da parrocchia. E di alti prelati gay si intuisce la presenza anche tra i cardinali odierni.  In tema di accoglienza dei gay in Chiesa, la condizione, ribadita anche di recente, è che non pratichino la loro attività sessuale. C’è chi si indigna che il Papa e la Chiesa non riconoscano “quell’elemento fondamentale della loro personalità che è la sfera erotica”, come scrive su la Repubblica Luigi Manconi, in un articolo peraltro non banale. Ma se è per questo, anche ai sacerdoti eterosessuali la chiesa interdice la sfera sessuale. Non si può giudicare la Chiesa come se fosse un’associazione qualunque, non si possono ignorare i principi morali e religiosi su cui è fondata, tra cui la castità e l’astinenza. Chi fa quella scelta sa già in anticipo a cosa va incontro, quali sono le rinunce a cui si impegna; nessuno lo costringe a farla, ma se la fai poi ti devi attenere alle regole. E’ come se qualcuno scegliesse la carriera militare e poi dicesse che aborre l’uso delle armi. Per semplificare la linea della Chiesa bergogliana in tema di omosessualità potremmo dire in sintesi: gli omosessuali hanno pari dignità di ogni altro essere umano e credente; le porte della Chiesa sono aperte per lui. Sul piano dei comportamenti, nessuna interferenza sulla condotta delle coppie omosessuali che possono essere riconosciute a tutti gli effetti unioni civili ma non equiparate ai matrimoni e alle famiglie. Così porte aperte della Chiesa agli omosessuali ma se prendono i voti devono avere un comportamento conseguente, non possono praticare la loro omosessualità. E’ la distinzione tra l’essere e il fare: la Chiesa rispetta la persona ma se entra in seminario o in parrocchia, non può comportarsi come se fosse fuori. E non parliamo poi della pedofilia.   Torniamo al Papa Francesco II. A dir la verità, non è un rovesciamento di posizione rispetto al passato, semmai un assestamento, un riequilibrio, forse un po’ gesuitico, comunque un’integrazione: la linea del Papa si è meglio chiarita e articolata negli ultimi tempi, con l’ultimo documento papale e alcune sue dichiarazioni recenti. Bergoglio è nella linea della tradizione cattolica sui temi che riguardano la vita, la nascita, la morte, i matrimoni, la famiglia, il sesso; mentre sul piano storico, sociale e civile è decisamente dalla parte dei poveri del mondo, contro il capitalismo, lo sfruttamento e il consumismo, per l’accoglienza dei migranti, per la giustizia sociale e per la pace. Potremmo definirlo un conservatore rivoluzionario, socialista e reazionario; per forzarlo nelle categorie politiche, ha una posizione di destra morale e di sinistra sociale, con qualche impronta giovanile di peronismo.  Il vero problema che resta per il pontificato di Papa Francesco non è la sbandata a destra o a sinistra, come gli viene rimproverato a turno, secondo i versanti. Il vero problema irrisolto è la crisi della Chiesa, la scristianizzazione del mondo, il declino della fede, soprattutto in Occidente; le chiese deserte, la subalternità psicologica all’invasione islamica, l’incapacità di risvegliare la spiritualità, l’assenza di modelli positivi, di esempi, di santi. Si tratta di un processo che travalica i secoli e i papi. Bergoglio qui è perdente come i suoi predecessori, ma senza la loro autorevolezza, appare più inadeguato, non ha il carisma di Giovanni Paolo II né la dottrina di Benedetto XVI. E per avvicinare i lontani, ha allontanato molti vicini, credenti nostrani.  Insomma, a parte qualche caduta di stile, Francesco II ha riequilibrato la barca di Pietro, troppo sbilanciata sul versante opposto dall’altro Francesco. È stato infine divertente vedere l’imbarazzo del Partito Progressista Bergogliano, che vedeva in lui il leader del campo largo – come ha detto il giullare di quel mondo, Roberto Benigni – e invece si è trovato spiazzato dalle sue parole frociate.

Alain Delon..

alain Delon

 Penso che pochi uomini siano entrati nell’immaginario femminile come è stato ‘per Alain Delon, la sua bellezza era folgorante, maschile nonostante il tutto bello che c’era  nel suo volto. I suoi occhi chiari sprigionavano un fascino irresistibile, e si comprendono tutti i suoi amori durevoli  od effimeri. Vederlo insieme a Romi Schnaider, uno dei suoi grandi amori, riempiva un quadretto di perfetta sintonia, stupiva chiunque lo incontrasse, nonostante non avesse un carattere facile, e non avesse quella statura particolarmente alta… forse avrebbe avuto troppo.  Ma la vita  è inesorabile, non guarda in faccia nessuno, gli anni che passano non ti chiedono chi sei , come fa il mondo reale, per riservarti un trattamento di favore.Nella sua vecchiaia non è un uomo felice e mi rattrista pensare che ,in fondo in fondo, nonostante i successi, le favole vissute,  tendiamo tutti alla medesima fine.

Il segreto antico del miracolo italiano

Il vero miracolo italiano non è il boom economico tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta del secolo scorso, l’epoca dei boomers e dello sviluppo straordinario di un Paese passato da agricolo e premoderno a industriale e avanzato; invaso dalle fiat e dai frigoriferi, dell’immigrazione a Torino, Milano e Roma, pervaso dalla fiducia e della dolce vita. Il miracolo italiano, quello che rende ancora oggi questo paese unico al mondo e meta universale di turisti, visitatori e pellegrini, è nato alcuni secoli prima. È quando l’arte incontrò il pensiero e la religione e nacque quell’irripetibile miracolo che la rese patria mondiale della bellezza, dell’arte, del genio e della fantasia.
In principio fu Platone che ebbe secoli dopo il suo transito terreno, due figli: Plotino, nato sulle sponde del Nilo forse da famiglia romana e Agostino, nato a Tagaste, in Algeria. Due emigrati d’eccezione. Plotino fondò la scuola platonica a Roma, portando la sapienza greca e orientale nel cuore dell’impero e poi della cristianità. Agostino, il berbero, il fenicio, venuto a Milano, tradusse Platone nel cristianesimo e congiunse la filosofia antica alla teologia cristiana.
Non capiremmo Dante, il padre della civiltà italiana e universale, senza quei presupposti. Platone sbarcò a Firenze nel quattrocento. Ad annunciarlo fu un singolare filosofo bizantino, Giorgio Gemisto detto Pletone, per assonanza col Maestro; ma poi a rendere Platone di casa a Firenze fu un singolare pensatore, teologo, astrologo e traduttore: Marsilio Ficino, nativo di Figline Valdarno (dove l’ho ricordato ieri sera in un incontro) che ebbe in dono da Cosimo de’Medici un palazzo a Careggi, dove rifondò l’Accademia platonica, divenuta Accademia fiorentina. La frequentavano Poliziano, Pico della Mirandola, gli stessi Cosimo e Lorenzo de’Medici e molte eccellenze del suo tempo.
Ficino tradusse, tra l’altro, il corpus platonico, le Enneadi di Plotino, le opere dei neoplatonici e il de Monarchia di Dante in lingua “italiana”. Definì Dante in modo perfetto: “per patria celeste, per abitatione florentino, di stirpe angelico, in professione philosopho poeticho”. Ficino dette una base di pensiero, una teoria, a quella fioritura eccezionale di artisti che tradussero i miti dell’antichità e la storia sacra del cristianesimo in figure, memorabili affreschi e pale d’altare. Botticelli, Tiziano, Raffaello, Tintoretto, Piero della Francesca, e poi Michelangelo e Leonardo, solo per citare i nomi universalmente noti. La religione si fece narrazione figurativa, attraverso capolavori che furono la traduzione della fede in bellezza: la Pietà, il giudizio universale, l’Ultima cena, solo per citarne alcuni. Ma anche la magia, la tradizione ermetica, il mondo degli dei, la scuola di Atene. Il pensiero mescolato alla teologia si fece pittura. E da quell’incrocio creativo di mito, pensiero e religione, o  – se preferite – di grecità, romanità e cristianesimo, nacque il miracolo italiano. In quel tempo fu soprattutto miracolo fiorentino, i mecenati, oggi diremmo gli sponsor, i committenti furono i papi e i signori del tempo. Di quel miracolo, Marsilio Ficino fu il crocevia nel Quattrocento: nato nel 33, vissuto 66 anni, morto nel 99: chi crede alla simbologia numerica forse darà un senso a quelle date ternarie.
Marsilio Ficino era figlio del medico dei Medici, non è un bisticcio; fin da ragazzo fu apprezzato dai signori di Firenze come una mente illuminata. Era un po’ gobbo, bleso, aveva un’indole malinconica, comune a molti spiriti magni; suonava inni orfici col liuto, componeva canti astrologici, studiava la magia, simpatizzò per Savonarola. Per lui l’amore era amaro; l’amore non corrisposto, diceva, era una morte in vita; e probabilmente c’era qualcosa della sua vita in quel pensiero.
A lui si deve la rinascita di Platone in Italia e della tradizione che parte da lui. Le sue due maggiori opere, il de Amore e la Theologia Platonica, esordiscono con la parola chiave: Plato, il suo ispiratore. Non è un pensatore originale, Marsilio Ficino, ma non vuole esserlo, come non volle esserlo Plotino, che si schernì dicendo che aveva solo ripreso le fonti della sapienza, aveva rianimato il pensiero di Platone e del suo magnifico allievo, Aristotele: “Le nostre teorie non sono nuove né di oggi”, vengono da molto lontano. Per loro era più importante la Tradizione che essi rappresentavano, piuttosto che l’originalità di un ingegno solitario. E corale fu il miracolo italiano, il frutto irripetibile e prodigioso di un clima, di un pensiero che s’incarnava in pittura, poesia, bellezza.
Ma lo scopo non era estetico, rivolto solo al piacere del bello; perché la bellezza, come l’amore, era un modo per elevarsi a Dio, per avvicinarsi alla Bellezza divina, di cui era un riflesso e un presagio. L’amore era per Ficino un’ascesa al cielo, in un percorso di purificazione, sublimazione e spiritualizzazione dell’eros. Dio crea la mente angelica, poi l’anima e infine il corpo dell’universo.
La forza segreta di quel miracolo era nella fusione di espressioni e ambiti che noi oggi immaginiamo separati: la pittura, l’architettura, in generale l’arte; la meditazione filosofica, i saperi magici, la scienza; la fede e la visione di Dio. Anche i corpi erano presagio e annuncio di una vita spirituale.
Marsilio Ficino è considerato il padre della psicologia. Ma quel padre era figlio al tempo stesso delle forme e degli archetipi platonici, di Plotino e di Sant’Agostino, del paganesimo e del cristianesimo, e della fede unita alla magia attraverso i misteri. Prese tante direzioni il pensiero rinascimentale, e anche l’arte; col tempo si fece scienza, in alcuni casi divinizzazione (si pensi a Pico) dell’uomo al centro dell’universo.
Ma con Marsilio Ficino quel mondo, quella gerarchia di esseri e di beni, per citare San Tommaso, era ancora coesa, unita, non si pensava separata.
Cos’è l’anima per Ficino? E’ copula mundi, come lui la definisce, unifica l’universo, si fa anima mundi e lega tutte le cose, visibili e invisibili. Non capiremmo la psicanalisi di Jung senza il platonico Marsilio; un famoso allievo di Jung, James Hillman, riconobbe il debito verso il fiorentino e verso quella linea platonica, che passa da Plotino e giunge fino a Vico. E come in Vico è fondamentale in Marsilio l’immaginazione, la fantasia creatrice. Anche Marsilio vede i dodici Dei come archetipi della psicologia; gli dei perduti, per Jung sono diventate malattie dell’anima.  Perché ricorrere alla psicanalisi moderna e nordeuropea, dice Hillman a noi italiani e mediterranei, quando avete la tradizione originaria in casa, le fonti di una “psicologia straordinaria”. Occorrerebbe, dice, rifarsi alla “controeducazione” di Marsilio Ficino.
Insomma, quello fu il vero miracolo italiano che ha sparso nella penisola città d’arte, cattedrali, luoghi mirabili e capolavori. Ogni tanto ricordiamoci su quali tesori siamo seduti, e ripensiamo alle fonti artistiche e fantastiche, filosofiche e teologiche, di quel miracolo.

Marcello Veneziani                                                                                                             

Gli scrittori odierni che da bambini si permettevano di rifiutare le verdure..

Il misconoscimento letterario di Susanna Agnelli è una forma di classismo al contrario. Oltre che il modo per perdersi un grande esempio di stoicismo moderno. Altro che quelli di oggi.

susanna

“Appartengono alla letteratura tutti i libri che si possono leggere due volte” ha decretato Gómez Dávila, e dunque “Vestivamo alla marinara” di Susanna Agnelli è letteratura. L’ho letto nell’altro secolo, l’ho riletto ora con nuovo piacere e nuovo profitto. Il misconoscimento letterario di Susanna Agnelli è una forma di classismo al contrario. Oltre che il modo per perdersi un grande esempio di stoicismo moderno (stoicismo di lusso ma pur sempre stoicismo). Infermiera ovviamente volontaria abbracciava le tubercolotiche morenti che le colleghe schifavano, guidava ambulanze sotto i bombardamenti, attraversava il Mediterraneo su navi ospedale spesso silurate dagli angloamericani (in barba alla Convenzione di Ginevra), sfidava le pallottole dei cecchini fascisti, a Firenze, per recuperare il corpo di una donna colpita malgrado l’evidente gravidanza… Senza mai una lamentela, puro dovere e puro stile fin nella scrittura asciutta, perfetta, senza un grammo di grasso e di compiacimento. Anche un grande esempio di educazione (a Torino, da piccola): “Se uno non finiva tutto quello che aveva nel piatto se lo ritrovava davanti al pasto seguente”. Dopo Susanna Agnelli come faccio a leggere gli scrittori odierni, senza vita e senza stile, che da bambini, è chiaro, si permettevano di rifiutare le verdure?

Camillo Langone  __da il FOGLIO             

M.G.Benoist, “Ritratto di una donna nera”: la storia di due donne.

Se fosse stato dipinto oggi e messo in mostra in questi nostri tempi, in cui il contesto storico ha ridimensionato il pensiero e il sentire comune, integrando nelle nostre vite la gente di colore, e tutte le persone considerate anormali, nessuno ricorderebbe la sua esistenza e lo scalpore che fece a quei tempi. Oggi si può ammirare al Louvre e capita ancora di imbattersi in qualche rivista, magari non attualissima, che ne racconta la storia.

M.G.Benoist, “Ritratto di una donna nera”: la storia di due donne

Parigi,primavera del 1800, grande eccitazione per l’edizione annuale del Salon, l’esposizione ufficiale di belle arti. E’ la prima, da quando Napoleone Bonaparte ha iniziato, con la nomina a Console, la sua irresistibile ascesa politica. Mai come questa volta, le sale sono affollate: raffinati gentiluomini e signore alla moda, si fermano perplessi davanti a un dipinto. Nell’aria c’è odore di scandalo. Dopo la Rivoluzione, anche le donne sono state ammesse a esporre. Ed è proprio una pittrice, Marie-Guillemine Benoist (1768-1826), a presentare il quadro che ha fatto scalpore. Perchè il dipinto, di cui si parla tanto, è questo:

negresse Benoist

Una giovane donna, vista di tre quarti, è seduta su una sedia “a medaglione”, vestita da un tessuto blu, riccamente drappeggiato, in una posa riservata ai ritratti delle dame dell’alta società, come la tunica alla moda stretta in vita da una sottile cintura rossa. Lo sfondo è spoglio, il tono austero, la presenza di accessori ridotta al minimo, come nei ritratti alla moda di Jacques-Louis David, il pittore più celebre del tempo. Ciò che sconvolge è il fatto che la donna è nera e per la prima volta rappresentata come una dama e  non in uno stato servile, l’unico concesso per inserire i neri nei dipinti. È vero che, nel Salon di due anni prima, il ritratto di un nero aveva riscosso gran successo, ma lì si trattava di un noto deputato della Convenzione, il primo proveniente da Santo Domingo. Qui è diverso: una donna nera qualsiasi e, in più, raffigurata come fosse una signora. Inaccettabile. I più colti e tradizionalisti rimproverano alla pittrice di aver scelto un soggetto che contravviene alle più elementari regole accademiche.
“Le sujet noir et la couleur noire est un exercice rebelle a l’art de la peinture, Il soggetto nero e il colore nero è un esercizio contrario all’arte della pittura”: citano a memoria. E lei, invece, evidenza proprio il colore della pelle, giocando sul contrasto tra il nero e il bianco immacolato della veste.
E, poi, ha scelto come titolo “Portait d’une negresse, ritratto di una negra”
Anche se allora, lontano dai tempi del “politicamente corretto”, il termine “negresse, negra ” non aveva alcun senso peggiorativo, comunque ribadiva l’anonimato della modella e il connotato razziale.

Invece, per la pittrice, la giovane non era una sconosciuta , pare fosse una domestica al servizio della famiglia, portata in Francia dalla Guadalupe.
Una domestica, però, non una schiava. La schiavitù era stata abolita, appena sei anni prima, con una legge a lungo contestata dai proprietari delle piantagioni dei territori oltremare, convinti di non sopravvivere senza manodopera a costo zero. La tratta di schiavi dall’Africa era stata tacitamente mantenuta: i neri erano considerati, comunque, degli esseri inferiori. Nel dipinto, no. L’ex schiava è raffigurata con dignità, sensibilità e attenzione ai sentimenti: nel volto una malinconica rassegnazione e la vulnerabilità di chi è costretto a vivere in un mondo estraneo.
Non si pensava nemmeno che una pittrice potesse fare critica sociale. Eppure ha inserito un’ allusione alla legge contro la schiavitù nel copricapo, che ricorda, sia l’acconciatura tipica delle donne antillane che il berretto frigio dei rivoluzionari. E poi i colori, bianco, rosso e blu, sono quelli della bandiera della Francia, il paese che, almeno nominalmente, ha portato la libertà. Non basta: i visitatori appassionati di pittura non possono non cogliere un altro elemento.  Il seno nudo non ha niente di malizioso, anzi. Insieme alla posizione delle mani e allo sguardo diretto verso lo spettatore, è un riferimento preciso a un dipinto celeberrimo: la “Fornarina” di Raffaello. Una domestica, una ex schiava nera, nobilitata dal richiamo a una tradizione pittorica illustre. Ce ne sono di motivi di scandalo. E la pittrice non può ignorarli.

fornarina

Figlia di una famiglia di piccola nobiltà, ha iniziato a dipingere nello studio di una ritrattista famosa, Elisabeth Vigé-Lebrun.
Durante la Rivoluzione ha cessato ogni attività ed è sopravvissuta a stento, nascosta per sfuggire alla ghigliottina, insieme al marito aristocratico e convinto realista. Ma ora la paura è finita. È ambiziosa e, dopo che ha avuto la possibilità di frequentare l’atelier di David e di esporre al Salon, vuole ottenere la sua affermazione pubblica. Nella primavera del 1800 le vicende delle due donne si intrecciano: la modella non è più schiava e la pittrice può esercitare il suo mestiere.
C’è empatia e comprensione: entrambe si sentono, finalmente, libere. Il dipinto, malgrado qualche aspro giudizio negativo, è un trionfo poichè
il pubblico più illuminato vede un manifesto dell’ emancipazione dei neri e delle donne. Molti lo condividono. È un clima di entusiasmo, che non durerà a lungo. Due anni dopo, nel 1802, Napoleone cederà alle pressioni dei grandi proprietari di piantagioni e la schiavitù verrà ristabilita. La repressione sarà feroce. Tra le due donne, a questo punto, si aprirà un abisso.
Non sappiamo quale sarà la sorte della giovane del ritratto; probabilmente continuerà a rimanere al servizio della famiglia, come schiava e per tutta la vita. Marie-Guillemine Benoist sarà riassorbita nel conformismo dell’alta società e diventerà la ritrattista ufficiale della famiglia Bonaparte. Finirà per rinunciare alla pittura, un’attività giudicata poco consona alle cariche pubbliche sempre più importanti, assunte dal marito.
Entrambe rientreranno nei loro ruoli: il breve momento, che le ha viste unite e uguali, è finito.