Arrestate il pino. E’ apologia del fascismo.

Avete presente la nostra epoca imbevuta di ecologia, feticismo green dappertutto, perfino nella pubblicità, fanatismo ambientalista che paralizza ogni impresa? Beh, con il pino non vale. Il pino va sterminato, sradicato, cacciato dalle città; anche se sono belli, fanno parte ormai del paesaggio e svolgono utili funzioni contro l’inquinamento, il malefico CO2. La guerra contro il pino è la spia di una sensibilità, di un modo di (non) vedere e di una netta divaricazione tra l’ideologia green e la pratica nella realtà. Il pino è la metafora di un odio per l’esistente o per ciò che viene dal passato, nel nome di un Verde perfetto e utopico che verrà.
La battaglia contro il pino si combatte in molti luoghi d’Italia, a partire dalla Capitale, dove i pini erano veramente tanti e godevano di grande fama storica, pittorica e civile. Partiamo da un dato: nel 2016 erano censiti in Roma 120mila pini; ora, sette anni dopo, sono meno della metà, 55mila. Cos’è successo, è passata la Xilella Raggi, la sindaca Virginia? Ma no, la grillina avrà le sue colpe, però la guerra al pino è più vasta e diffusa. Curioso il caso del sindaco in carica, Roberto Gualtieri, che come Berlusconi, aveva promesso nella città un milione di nuovi posti per gli alberi, e invece ne ha piantati poche migliaia e i pini neopiantati, a fronte dell’ecatombe di questi anni, sono in gran parte moribondi. Questi dati mi sono stati forniti da una convinta pasionaria del pino, Jacopa Stinchelli, che si definisce “ministro della difesa dei pini” a cui si sta dedicando con abnegazione. Jacopa non è sostenuta dai movimenti green e dalla galassia ecologista che di solito insorge appena torci una foglia o un ramo di una pianta, ma della sua battaglia e della morìa dei pini in Roma se n’è occupato anche il New York Times il 13 agosto scorso.
Il problema è che il pino è in Italia un albero identitario, anzi è l’albero dell’italianità. Si diffuse con l’unità d’Italia, garibaldina e sabauda. La Regina Margherita fu madrina di pinete. Alla fine dell’ottocento fu lanciata nelle scuole la festa dell’albero, che era ancora viva quando andavo io alle scuole elementari e fu il primo assaggio di sensibilità verde per chi viveva in piena ebbrezza di industrializzazione, cemento e modernità. Si piantava un pino e si celebrava l’utilità, la bellezza e il ristoro che gli alberi davano agli uomini, alle città e alle località. La pigna fu eletta a simbolo dell’unità d’Italia, antico retaggio romano ed etrusco, che la consideravano sacra; il pino diventò il testimonial dei paesaggi nei pittori ottocenteschi che venivano in Italia (uno tra tanti, William Turner). Il pino fu reso famoso dai poeti, primo tra tutti Gabriele D’Annunzio con la sua pioggia nel pineto, che celebrava la Versilia ma anche la sua Pescara. Il pino fu amato dai musicisti, come Ottorino Respighi, che gli dedicò un poema sinfonico. Fa capolino nella musica leggera con i pini di Roma cantati da Antonello Venditti, mentre Brian May dei Queen dice che i pini di Roma lo affascinano in modo speciale. Anche nel cinema italiano fanno da sfondo a molti capolavori del passato e anche recenti. Le pinete diventarono sontuose cornici di litorali e accompagnarono amene località non solo marine.
Ma il pino l’ha combinata grossa, diventò pure il simbolo dell’Italia fascista, che potenziò la festa dell’albero, piantò pini dappertutto, da Ostia alla Maremma bonificata e in mille altri luoghi d’Italia. L’edilizia fascista, le città di fondazione e le colonie estive, erano contornate da pini. Piantavano pini nel risanamento dalle paludi e dalla malaria.
A Roma c’era un missionario dei pini, dall’Italia prefascista all’Italia fascista e poi alla repubblica: si chiamava Raffaele de Vico, era architetto, paesaggista e urbanista e propagò i pini in Roma, da Villa Glori al Parco della Rimembranza, dove i pini simboleggiavano le anime dei caduti. Insomma, il pino è un albero “patriottico”, la cui presenza suona come amor patrio e per taluni come apologia di fascismo. Dunque, va abbattuto o lasciato morire. Il Pino è fascista, e pure neofascista: vi dice nulla Pino Rauti, Pino Romualdi, Pino Tatarella (detto Pinuccio perché postfascista)?
Paradossi ideologici a parte, conosciamo i più ragionevoli motivi addotti per estirparli: sono pericolosi, soprattutto con il maltempo, le loro pigne sono contundenti, come i loro rami, le loro radici sono invasive, dissestano le strade. E poi sono cagionevoli, si ammalano, la loro manutenzione è faticosa, non sono autoctoni (anche in questo caso salta la retorica dell’accoglienza e si diventa improvvisamente identitari, in difesa delle specie vegetali autoctone, le pure “razze” nostrane rispetto agli alberi stranieri). Conosco la guerra del pino per esperienza personale, perché avendo quattro pini maestosi ai fianchi della casa, subisco una diffusa campagna pinofoba, con pressanti richieste di tagliarli, sfoltirli, abbatterli. Certo, i pini danno problemi, le radici, gli aghi, le pigne; ma danno senso e identità a un luogo, danno ombra e luce, aria e bellezza. E poi esistono rimedi efficaci contro i suoi malanni, assicura Jacopa, ci sono le cosiddette endoterapie, si possono contenere e incanalare le radici, lo dicono i pochi esperti e amanti del pinus pinea o dei pini domestici.
I pinicidi confidano in un famigerato parassita alieno, la cocciniglia toumeyella parvicornis, che fornisce un formidabile pretesto per la ” soluzione finale” dei pini. Il parassita s’insinuò prima nelle pinete di Napoli, dove i pini torreggiano nelle vedute più famose di Posillipo, del golfo e del Vesuvio. A differenza di altri allarmi ambientali, col pino si preferisce collaborare col parassita, tifare per lui, o precederlo negli abbattimenti, piuttosto che difendere la pianta. Prevale, come dice Jacopa, “l’invidia del pino”, variante arborea del famoso complesso freudiano. L’odio verso i pini, naturalmente con forti alibi sanitari, rivela l’ipocrisia dell’amore per la natura e il disprezzo per tutto quanto evochi una storia e un’identità. In pino veritas.

 Marcello Veneziani       

…e poi c’è la vita invivibile …e i nuovi zombi!

La droga dei nuovi zombie

La droga dei nuovi zombie

 

 

Cos’è lo stupefacente osservato a Seattle e perché è differente da cocaina ed eroina.

 Alcuni la chiamano droga-zombie. Ne avevo sentito parlare da diverso tempo, ma non avevo mai potuto osservare in presa diretta i suoi effetti. Nel nostro Paese, da quello che mi risulta, non circola ancora. Mi è capitato questa estate in una Seattle dall’aria triste e abbandonata di incontrare le sue vittime in piena downtown. Quello che colpisce è la postura bloccata dei corpi, come colpiti da una paralisi inquietante; corpi sospesi, vivi ma senza vita, marmorizzati, imprigionati in un denso e infernale torpore, immobilizzati, specie di sculture morte, ripiegate su se stesse, accartocciate in posizioni irreali. Come i corpi pietrificati di Pompei in fuga dalla incandescenza della lava: corpi irrigiditi in una sorta di ultimo spasmo di vita, corpi senza scampo, senza più vie di fuga.

La sostanza è un mix chimico micidiale di due molecole: la xilazina utilizzata per lo più nella medicina veterinaria come prodotto sedativo per animali di grossa mole e il fentanyl, un oppioide sintetico con effetti analgesici. Questi nuovi tossicomani li chiamano zombie. Nei film horror gli zombie appaiono per lo più nella forma dei morti che riprendono imprevedibilmente vita, che ritornano spettralmente dal mondo buio dell’oltretomba alla ricerca di vita umana da sbranare. Nel centro di Seattle, invece, questi giovani zombie apparivano solamente come vite già morte. Non dunque come vite morte che ritornano spettralmente vive, ma come vite vive che appaiono già intaccate dalla morte. Davvero impressionante anche per uno psicoanalista abituato ad avere a che fare anche con le forme più gravi della sofferenza umana. Lo sfondo il degrado sociale e la povertà, la vita esclusa, schiacciata nell’angolo, lasciata cadere.

Quanto è diversa questa droga da quelle che abbiamo già conosciuto? Negli anni Settanta del secolo scorso l’eroina si era configurata come il paradigma trasgressivo dell’intossicazione. L’estasi, il paradiso artificiale, la fuga dalla realtà, ma anche la contestazione nei confronti del sistema, il suo ripudio radicale, la sua condanna senza appello. Distruggersi per non fare parte di un mondo i cui valori erano anarchicamente rifiutati. Quel primo paradigma trasgressivo dell’intossicazione implicava la dissociazione dal conformismo della vita borghese e l’illusione che potesse esistere una vita differente, svincolata dall’ideologia dei consumi e dalla violenza del capitalismo. Abbiamo poi conosciuto un paradigma completamente diverso. È quello iperattivo che trova nella cocaina la sua sostanza ideale. Abbiamo tutti in mente la sulfurea figura di The Wolf of Wall Street di Scorsese, interpretata da uno straordinario Di Caprio. In questo caso la contestazione del sistema ha lasciato il posto alla sua più estrema assimilazione. In primo piano non è più il flash del godimento eroinomane come via di accesso (illusoria) ad un altro mondo, ma l’avidità senza scrupoli e senza tregua di un godimento pienamente omogeno alla pulsione neo-libertina del capitalismo finanziario.

Il consumo della cocaina non dissocia la vita dal sistema, ma la rende competitiva, rafforza il principio di prestazione, amplifica la volontà di potenza del proprio Io. Mentre l’illusione del paradigma trasgressivo dell’eroina consisteva nel raggiungere una forma di vita alternativa a quella del consumatore borghese, quella sostenuta dalla cocaina si definisce come una sorta di corsa maniacale verso un godimento senza limiti. Mentre l’eroina è una droga dell’inconscio, la cocaina è una droga dell’Io. Questo ultimo paradigma della droga-zombie sembra invece introdurci in un universo differente. La contestazione trasgressiva del sistema (eroina) e la sua assimilazione iperattiva (cocaina) ha lasciato il posto ad un altro paradigma. Quello che la droga zombie mette in luce è che la finalità ultima della droga è sempre una finalità mortifera. Freud aveva parlato a questo proposito del principio del Nirvana: azzerare le tensioni della vita, estinguere la spinta del desiderio, condurre la vita verso lo zero assoluto. La droga zombie dichiara in modo inequivocabile questa finalità ultima dell’intossicazione. Nessun paradiso artificiale, nessuna trasgressione, nessuna critica al sistema. Ma anche nessun potenziamento narcisistico del proprio Ego, nessuna volontà di potenza, nessun godimento neo-libertino. Quello che resta è solo la vita che rigetta la vita, la vita già morta, la vita bloccata, immobilizzata, la vita senza alcuna avvenire di vita. Si tratta dell’anima più propria dell’intossicazione, della sua vocazione più profondamente nirvanica. È la faccia in ombra della maniacalità neo-libertina.

Mentre questa si consuma nella sua spinta avidamente illimitata di consumo, il drogato-zombie ha gettato la spugna, si è ritirato dalla gara perpetua di tutti contro tutti, punta solo ad annientarsi, a ridursi alla dimensione minerale di una scultura senza anima.

Massimo  Recalcati    da La Repubblica

Il sud è un geo-pensiero fruttuoso..Dalla Gazzetta del mezzogiorno.

Alla festa della Taranta mi hanno chiesto di parlare del sud stasera a Sternatia. Il tema è riassunto in un’espressione che coltivo da anni: cogito ergo sud. Al meridione non tocca adeguarsi all’unione europea o inseguire i modelli del nord, diventando solo una caricatura a rimorchio e a comando; ma far riemergere l’anima pensante del meridione e renderla fruttuosa nel presente.
Parto da una celebre espressione usata con disprezzo da Gianni Agnelli verso un politico meridionale: intellettuale della Magna Grecia. Ad avercene di intellettuali della Magna Grecia, ma veri. Se le sognano in altre parti d’Europa le fervide menti meridionali, se le sognano le dinastie industriali come gli Agnelli (basterebbe dire che oggi il miglior erede degli Agnelli è Lapo Elkann; ho detto tutto, diceva Peppino a Totò).
Si tratta di compiere una piccola rivoluzione: quel che conta non è sempre e solo essere al passo coi tempi ma a volte è prezioso essere al passo coi luoghi, sentirsi non contemporanei ma conterranei. Ossia mettere a frutto il legame geografico comune col sud, la nostra matria. Questo significa geofilosofia, un pensiero all’altezza dei luoghi, figlio di un paesaggio, di una storia in una terra, di una cultura derivata da coltura, e fluente come il lungo mare nostrano. C’è un legame creativo e fecondo tra il genius loci e il pensiero, tra i caratteri, i miti, le musiche e le danze, come la taranta, e il pensiero mediterraneo, amato da Paul Valéry, Albert Camus e Jean Grenet, indagato a Bari alla luce del pensiero meridiano da Franco Cassano. C’è un legame fortissimo tra pensiero e natura, tra l’ideario e il cibario, che potrebbe affascinare anche oltre il sud e trasformare le onde anomale e provvisorie del turismo in una scoperta antropologica, uno stile di vita, una modalità di pensiero da frequentare con più fruttuosa assiduità. Dalla frenesia dell’ora all’ozio creativo della controra.
Da anni disperdo al vento del sud il seme di un progetto per la raccolta del pensiero mediterraneo, di una Fondazione che se ne prenda cura, di un Ateneo che lo tenga a battesimo, di un giornale o più giornali che se ne facciano veicoli… Un campo di ricerche in cui promuovere studi e arti, iniziative ed eventi, rinascita di luoghi, senso del bello e amor del luogo, mitologia del sud e letteratura identitaria. Qualcosa che riprenda in modo originale le intuizioni del meridionalissimo Giambattista Vico (a cui ho dedicato una biografia in uscita tra una settimana da Rizzoli), gli studi antropologici di Ernesto de Martino e tutto il filone sommerso del pensiero meridionale, non meridionalista; mediterraneo, meridiano, non lagnoso o solo retrospettivo.
Quanto ai ritardi del sud, li vedo anch’io, ma proviamo a fare un discorso diverso: siamo gli ultimi in fila alla vecchia cassa, ma se stiamo attenti, saremo i primi appena se ne apre una nuova. Non sto parlando di cassa per il mezzogiorno, dico fuor di metafora che i nostri ritardi in materia di industrializzazione e di modernizzazione potrebbero diventare un’opportunità ora che il modello verso cui ci muoviamo è postmoderno e postindustriale. Il terziario, i servizi, la tecnologia, il lavoro a casa, la creatività, l’accoglienza delle popolazioni anziane e benestanti del nord Europa, la ricerca di campi inesplorati, la cultura, la natura, il culto di bio.
Parliamo sempre di chi se ne val sud, ma se ci occupassimo pure di chi resta? Se oltre i migranti ci interessassimo ai restanti o restii? E poi l’originalità di un approccio non tecno-scientista, ma mito-umanista. Immaginate cosa può fare un Parmenide, un Pitagora, un Platone con uno smartphone in mano, un pc, un cervello artificiale al suo servizio… Provate a pensare inauditi incroci anziché ripetere vecchie formule tardomoderne e cascami di ideologie andate a male. Il sud non è solo un modo di dire ma anche di fare e di pensare. Il mondo visto dalla controra.

Marcello Veneziani

Esselunga…dai Racconti di vetro di Andrea Salvatici.

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ILLUSTRAZIONE DI ZAC

Esselunga

Vincenzo uscì dal suo studio pubblicitario alle ore venti e quindici un po’ prima rispetto al solito. La sua agenzia pubblicitaria era fra le più importanti e potenti di Milano. Aveva sbaragliato la concorrenza nazionale, ma soprattutto quella americana e adesso la sua creatura aveva un ruolo predominante nel mercato pubblicitario televisivo: campagne per la Fiat, per la Barilla, per la Superga, per l’Adidas, per la Nike.  Insomma, la sua agenzia era la numero uno. Premi, targhe, riconoscimenti internazionali, tutto contribuiva a rafforzare la sua qualità e creatività professionale. Alle ore venti e trenta era già con il suo carrello fra il corridoio dei detersivi e quello dei sottaceti, distratto e lontano da tutto, con una leggera fame e tanta voglia di andare a casa e mettersi sul divano a vedere qualche programma registrato di Lucarelli. Possedeva tutte le cassette della serie “Blu notte”. Persino al lavoro ripeteva ogni tanto al suo fidato collaboratore: ”Lui non sa … ma è già morto”. Lento e leggermente sfiorato da una stanchezza cronica oramai accettata senza nessuna conflittualità personale, Vincenzo provava a quell’ora una rilassatezza meravigliosa. Comprava quasi sempre broccoli, cimette di rapa, acciughe, aglio, peperoncini e pasta fresca, in particolare orecchiette pugliesi. Dopo il divorzio le sue serate si erano trasformate: all’inizio in un momento nuovo e assai eccitante, col tempo si era poi stancato di avventure occasionali e adesso difendeva fermamente il suo spazio personale. Non era una rinuncia alla nuova vita da single o un rifiuto del mondo femminile, era soltanto una voglia diversa di viversi. Voleva stare da solo dopo tre relazioni importanti e un matrimonio fallito. In lui non c’era né rabbia, né tristezza, né dolore. C’era solo il desiderio di godersi la sua vita per la prima volta da solo. Quella sera al supermercato comprò cimette di rapa già pulite e tagliate, parmigiano in busta, acciughe, peperoncino e orecchiette di pasta fresca. Domani non sarebbe andato al lavoro. Gara vinta, due giorni di riposo, quindi si comprò due bottiglie di Chianti, il solito, quello che beveva con Francesco ai tempi dell’università, ai tempi della prima occupazione degli anni novanta. Era affezionato a quel vino anche se non era fra i più pregiati ma quel rosso gli ricordava le serate con Francesco, che ora non c’era più, a Castellina in Chianti con le loro amiche di corso. Tutti davanti a un grande caminetto acceso. Quante discussioni filosofiche e quanti innesti meravigliosi fra una goccia di sudore e l’altra. Giunto alla cassa cinque si mise in fila dietro due ragazze che parlavano inglese speditamente. Vincenzo guardava le lamette e i giornali. Spostò lo sguardo e incontrò quello di una delle due ragazze: potente e immediato nel trattenere quello di Vincenzo nel verde dei suoi occhi. Lei gli sorrise e ritornò a sistemare i pochi prodotti acquistati con l’amica sul nastro della cassa: insalata già pulita, yogurt, cracker e una bottiglia di Rum cubano. Vincenzo rimase immobile e aspettò il suo turno. L’altra ragazza dai capelli biondi, gli passò il separatore con scritto “prossimo cliente”. La cassiera, una donna sui quarant’anni, passava i prodotti a grande velocità, la ragazza dai capelli biondi, sorridendo con un certo imbarazzo, si accorse di non avere i soldi per comparare la bottiglia di Rum cubano. Chiese all’amica un aiuto. Niente, nessuna delle due poteva  pagare la bottiglia e la cassiera continuava a dire in tono assai acido: ”Allora?”. Vincenzo capì un’esclamazione in inglese un po’ imbarazzata e intervenne con il suo perfetto inglese e con estrema delicatezza. “ Posso darvi una mano per la bottiglia? Senza offesa…”. Le due ragazze lo guardarono e annuirono sorridendo. Lui pagò la loro bottiglia, la cassiera si tranquillizzò e le giovani donne lo ringraziarono. Assomigliavano a due modelle. Alte, magre e vestite con  jeans e magliette bianche.

Vincenzo mise i suoi prodotti sul rullo e guardò le due sirene uscire senza voltarsi. Nel parcheggio aprì il lucchetto della bicicletta e vide le due ragazze non lontane da lui appoggiate a una macchina mentre fumavano una sigaretta. Gli fecero un sorriso invitante.

Inforcando la sua bicicletta gli passò accanto, rispose al sorriso e incominciò a pedalare con leggerezza.

da Il Corriere della Sera       

Termofilosofia e tirannia del Meteo .

 

Insomma, questo caldo bruciante a sud, queste tempeste devastanti a nord, sono gli eccessi di un’estate come altre in passato o sono il segno di un drastico cambiamento climatico? Sono frutti bizzosi del caso e del maltempo o derivano da errori, disattenzioni e colpe umane? In altri tempi, mistici e messianici, avrebbero discusso se siamo alle soglie della fine del mondo oppure è uno di quei feroci ruggiti del solleone che periodicamente si affacciano nella storia climatica del mondo. Anche in quel caso, le catastrofi sarebbero state attribuite da alcuni ai peccati degli uomini, alla loro tracotanza, che i greci chiamavano hybris. E da altri agli imprevedibili capricci della natura. Stavolta, ad aggravare la scena si è messo il primo governo “di destra” della nostra repubblica, subito accusato di grave complicità nelle catastrofi, anzi di concorso esterno in calamità ambientali.
Proviamo a ragionare, non su basi scientifiche e nemmeno statistiche, dopo aver letto esaurienti spiegazioni e dettagliati paragoni col passato che conducevano a opposte conclusioni con dati alla mano.
Siamo in presenza di una termofilosofia, ovvero una filosofia del caldo, che s’intreccia a una specie di tirannia del meteo, altrimenti definibile come meteocrazia. Il precedente filosofico e teologico fu il terremoto che distrusse Lisbona nel 1755: c’è chi vide in quel terremoto una punizione divina (es. de Caussade) e chi trovò in quel sisma la prova dell’inesistenza di Dio (es. Voltaire). I primi furono detti oscurantisti, i secondi illuministi.
Ma torniamo al presente. Lasciamo fuori dal ragionamento le due ipotesi estreme, che sconfinano in due reati, non solo d’opinione: da una parte il negazionismo di chi nega il cambiamento climatico, e dall’altra il meteoterrorismo, di chi specula sul terrore meteo per trarre profitto politico, mediatico, industriale, commerciale.
Quel che possiamo constatare in partenza è che viviamo ormai da alcuni anni sotto la Cappa dell’Emergenza: si passa senza soluzione di continuità da un’emergenza a un’altra, sanitaria e farmaceutica, bellica e militare, poi ecologica da inquinamento, ora la bolla meteocatastrofica, più altre sottoemergenze che accompagnano le macro-priorità.
Terrorismo mediatico quotidiano, psicosi di massa indotta dai media, anche per vendere l’informazione: impresa sempre più difficile, necessita di dosi emotive sempre più forti. Emergenza vuol dire sospendere alcune libertà e tanta spensieratezza, vuol dire accettare sacrifici e restrizioni sempre per il nostro bene, controllare e sorvegliare, produrre campagne massicce, prescrizioni e proscrizioni di massa, più investimenti adeguati. E si tratta di additare alla popolazione un capro espiatorio su cui scaricare la colpa della situazione col relativo carico di paure, invettive e rancori.
Concorre a questo mutato “clima”, in ogni senso, la nostra mutata percezione e la nostra mutata soglia di sopportazione, molto più ridotta nel tempo, non solo a causa dell’uso massiccio di aria condizionata. La stoica sopportazione del caldo o delle intemperie nelle società antiche si è assai assottigliata in una società fisicamente e psichicamente fragile, delicata, benestante, un po’ nevrotica, fin troppo accessoriata e foderata di mediazioni. Ogni evento fuori controllo diventa estremo, biblico. E in una società di vecchi soffriamo di più gli eccessi climatici.
Ciò detto, è innegabile che qualcosa di diverso stia accadendo nel clima: non si tratta più di citare Plinio che già duemila anni fa diceva che sono finite le mezze stagioni. C’è qualcosa che nella nostra esperienza di vita, non avevamo vissuto: o per dir meglio, ricordiamo tanti eventi atmosferici avversi, di ogni tipo; ma si è intensificata la frequenza, è aumentata e accelerata. Per fare un paragone filosofico e umanistico, il clima sta mutando con la stessa velocità con cui ci stiamo disumanizzando, in vari ambiti, perdendo la consuetudine di mondi, visioni, morali, religioni e culture con una velocità impressionante. Qui fa capolino una visione metafisica della decadenza, ma in questa sede atteniamoci alla realtà.
Detto questo, è doveroso e urgente cercare di far qualcosa per prevenire, arginare, salvare il salvabile. Dunque non si tratta di abbandonarsi al liberismo teologico e climatico, e lasciar fare il corso della Natura; qualcosa bisogna fare per frenare le emissioni di gas nocivi, inquinamento, la moria di vegetazione e animali, e così via. E bisogna essere il più possibile tempestivi e incisivi. Riconosciuta la necessità di interventi, aggiungerei però due considerazioni intrecciate. La prima è che le possibilità che ha l’uomo di modificare l’ecosistema, l’equilibrio geotermico e il clima sono assai relative, ridotte; la nostra incidenza non va esagerata, siamo dentro processi più grandi che dipendono da fattori più vasti. E anche i fattori umani, a cominciare dal sovraffollamento del pianeta come mai era accaduto, sono quasi insormontabile, non possono essere risolti in modo efficace e razionale. Dunque non attribuiamo troppi poteri all’uomo. E qui torniamo alla filosofia del nostro tempo, anche in senso meteo: da anni rifiutiamo l’idea di evento catastrofico, di incidente, di calamità naturale. Cerchiamo dietro ogni evento una responsabilità, dei colpevoli per dolo, incuria o malvagità; sembra quasi che ogni morte sia causata da un incidente, un disguido, una mancanza di precauzione e prevenzione, insomma sia sempre responsabile qualcuno. Convinciamoci di una cosa: la prima causa, assoluta, di decessi è che siamo mortali. La morte non è un errore ma un destino. Non è colpa tua, mia, loro, della Meloni. Il fatto è che siamo mortali.

Da Panorama, di Marcello Veneziani

Coin… di Andrea Salvatici, da I Racconti di vetro.

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ILLUSTRAZIONE DI ZAC

Coin

Daniele guardava dormire suo figlio Filippo con soddisfazione e con gioia. Era riuscito a farlo addormentare. Adesso poteva ritornare in salotto. Filippo aveva due anni e assomigliava a sua nonna in modo impressionante: occhi blu molto grandi  con un leggerissimo strabismo di Venere. Labbra molto carnose assai sproporzionate rispetto agli altri tratti ma che donavano già al bambino una fisionomia animale e sensuale. Daniele lo guardava e sorrideva dicendo a se stesso: ”Mio figlio sarà un animale braccato e desiderato dalle donne per le sue labbra, ma lui riuscirà a trasformarle in gazzelle nelle sue fauci di predatore affamato”. Quest’idea gli ritornava spesso quando guardava suo figlio e senza dire una parola a nessuno capiva che si nutriva di un luogo comune verso il sesso femminile. Di fatto era troppo sentimentale, dolce, disponibile! Di fatto era debole verso le donne. Persino la paternità non era riuscita a suscitare in lui qualcosa di nuovo e di vero. Continuava a non comunicare in modo leale e sincero con la donna che gli aveva dato un figlio bellissimo. Continuava a non affidarsi e a fidarsi completamente delle donne. Ecco la verità! Le donne concedono e non si danno completamente. Le donne creano il latte. Gli uomini lo bevono. Per lui non era un pregiudizio, era il suo sentire dopo molte donne. Tutto qui. Un suo parere e non voleva farne assolutamente un manifesto per la collettività. Il divario rimaneva, ma ora cominciava ad accettarlo con una tranquillità più pratica ed efficiente: carriera, soldi, potere, vacanze al mare, in montagna e qualche scappatella con giovani donne. Insomma tutto si ripeteva allo stesso modo con le stesse fissità, con gli stessi piccoli soccorsi: matrimonio, figli, convivenza. Viveva su dei binari d’oro, ma erano pur sempre dei binari. Passò dal salotto, sua moglie e la sua amica si erano trasferite in terrazza: cento metri quadri di fiori e di piante. Una vetrata separava il divano bianco da un gigantesco ciliegio cinese. Lo aveva comprato Daniele il giorno della nascita di Filippo. Amava regalare o comprare alberi quando arrivava un bambino. Lo faceva con gli amici, con i parenti e quel giorno lo fece per la sua famiglia. Tre mesi dopo sua suocera, senza dirgli nulla, potò i due rami centrali e lo trasformò in un bonsai. Che rabbia per lui! Che voglia di mandarla a quel paese! Ma poi l’albero era riuscito in pochi mesi a crescere di nuovo e quella rabbia si era persa nella distanza fra lui e la suocera. Salutò sua moglie e la sua amica e uscì. Aveva voglia di fare due passi ma si accorse che era sabato pomeriggio e lui abitava in una traversa di Corso Vercelli. Erano le quattro. Un fiume in piena fatto di persone lo costrinse a entrare da Coin. Senza pensarci prese la scala mobile e arrivò all’ultimo piano: casalinghi. Trovò una sedia davanti a una lampada e si sedette. Cominciò a guardare quella lampada che sembrava un girasole con i petali chiusi in avanti.  Simpatica, allegra ma di pessima qualità. Lui amava le lampade, quelle costose, di alto design, ma quel giorno decise di fissare quella lampada. Si sentì toccare con delicatezza la spalla e si voltò. Era una giovane commessa. Lui la guardò senza dirle una parola. “Le chiedo scusa! Ma ho bisogno di questa sedia!” disse la giovane commessa. Lui si alzò immediatamente e le sorrise scusandosi. La ragazza prese la sedia e la portò via. Daniele rimase tutto il pomeriggio all’ultimo piano di Coin a guardare caffettiere, forchette, frullatori, fiori finti, oggetti colorati, bicchieri e piatti. In quel luogo di solito, in compagnia di sua moglie, riusciva a rimanere dieci minuti al massimo, poi si innervosiva e usciva. Ma quel giorno era da solo e non pensava a nulla. Ogni tanto incontrava lo sguardo della giovane commessa, sempre indaffarata a sistemare oggetti, pacchi, scontrini e buste. Lui, tra forchette, piatti, tazze e pentole, si sentiva a suo agio. Poi, prima della chiusura, ci fu un groviglio inaspettato di sguardi fra Daniele e la giovane commessa: un rampicante impazzito, un’edera di bosco magica e vivente tra le fronde di un albero. Daniele si trovava  vicino a un vaso di cristallo, assai insignificante e normale, di forma cilindrica allungata, pieno di sassi colorati. Quei vasi che dopo una settimana ti stancano di vederli ma non sai dove metterli. Quei vasi che si trasformano in oggetti ingombranti e brutti. Squillò il suo cellulare. Non rispose! Era sua moglie che lo stava cercando. Dopo un paio di minuti gli arrivò un suo messaggio: ”Ma dove sei finito? Non te lo ricordi? Siamo a cena da mio fratello!” Daniele rispose senza usare tante parole: ”Arrivo!” Lei non gli rispose e lui alla fine comprò  quella lampada a forma di girasole. La giovane commessa, quella che gli aveva tolto la sedia, adesso si trovava alla cassa. Lo guardò e gli dette lo scontrino insieme alla lampada. Daniele allungò il braccio per prendere la busta con la lampada.

La ragazza gli disse: “Prossima settimana arriveranno nuove lampade a forma di fiore!”.

Un piacevole articolo di M. Veneziani su un evento di cinquant’anni fa…

 Le cozze, il vibrione e Baudelarie

 

Un meteo diverso, evitando certe banalizzazioni-

 

“Signora, fa caldo”. È paradossale che la conversazione di livello più basso, sia diventata la conversazione pubblica più importante che esista, quella da cui dipendono le scelte energetiche, le politiche abitative, le prospettive alimentari, i trasporti. “Dobbiamo parlare di clima, non di meteo” è stato uno dei primi e più longevi slogan dei movimenti ambientalisti contemporanei, da Fridays for Future in poi. Il problema è che la conversazione sul clima non può che passare da quella sul meteo, così come una sul cibo non può che partire da quello che mangiamo noi, e la conversazione sul meteo fa schifo. È progettata per fare schifo, per essere irrilevante e non avere effetti, la lamentela al vento per eccellenza, piove governo ladro. Il meteo è l’oggi, il clima sono le scale trentennali, il meteo è qui e ora, il clima è globale, il meteo è la pressione bassa, cambiare tre magliette al giorno, il cattivo umore conseguente, il clima è avere un’ondata di calore contemporanea su tre continenti. Il meteo sono i passeggeri esasperati sull’autobus, il clima sono gli scienziati terrorizzati per un’oscillazione di temperature sull’Atlantico. Il meteo sono io, il clima è l’umanità. Il clima sono i grafici, i modelli, i rapporti Onu da migliaia di pagine, il meteo è la mia pelle, dove lavoro, se in strada sotto 35°C o in un ufficio con l’aria condizionata. Solo che il meteo di oggi passerà, mentre saranno quei grafici ad avere effetto sulla vita materiale di tutti noi. Ma servirebbe una capacità di concentrazione che la nostra mente non possiede.
In Italia la sua prima intensa ondata di calore dell’anno è diventata un Paese di allegri psicopatici che è: sono arrivati i “terroristi del clima” i colori sulle mappe ci stanno mentendo, la gente non capisce che non è il caldo, è l’umidità, signora mia. E poi Cerbero, Caronte, Scipione, vengono citati come rigorosi parametri scientifici intorno ai quali orientare le nostre politiche. E ancora, a un certo punto, con un anticipo sospetto e non esattamente scientifico, è apparsa la prospettiva, il mostro finale: 47°C, e quindi la ricerca ossessiva del record , una visione agonistica delle temperature nell’estate senza mondiali, senza europei, senza Olimpiade. Ci interessa la temperatura solo se vince la medaglia d’oro come Marcell Jacobs nel 2021, altrimenti è solo il fiacco Marcell Jacobs del 2023. “L’unico effetto di questa comunicazione è terrorizzare le persone, creare ansia, e poi per un cortocircuito, magari generare anche sollievo se non si arriva al record e seguono tre giorni di fresco. La nostra nave è squarciata, dobbiamo attrezzarci a ripararla e sopravvivere, non giocare a esagerare l’ampiezza dello squarcio per farci un titolo”, dice – un po’ esasperato – Giulio Betti ,meteorologo e climatologo del Cnr, che risponde al telefono da un prato in Alto Adige, credo di essere la ventesima chiamata del giorno. Betti è il meteorologo italiano più seguito su Twitter, è un divulgatore efficace e rigoroso, e quindi è esausto, perché il rigore scientifico, l’aderenza ai fatti, la sobrietà non sono propri di questo Paese, né della conversazione sul meteo, né di quella sul clima.

La scienza del meteo sarebbe stata in difficoltà con questo tipo di dibattito anche senza i cambiamenti climatici. “Una volta c’erano figure come Andrea Baroni o Edmondo Bernacca, le previsioni erano un momento di approfondimento scientifico, una cosa a cui i media si approcciavano in modo serio e rigoroso. Poi da un lato le conoscenze e i dati sono migliorati, dall’altro sono entrati soggetti e piattaforme che le hanno aperte e hanno fatto entrare qualsiasi cosa, oggi si parla di meteo come si parla di cartomanzia o magia nera. Ma le allerte devono essere date solo dagli organismi preposti e hanno un’importanza pubblica enorme, con responsabilità sociali, da cui dipende tutto, la gestione dei trasporti, dell’agricoltura, dell’energia elettrica”. Invece questo livello è stato divorato dai titoli ansiogeni .
Per generazioni di italiani, il meteo era stato quello di Baroni e Bernacca, il primo approccio al funzionamento della scienza, oggi è tutto un pantheon di figure mitologiche e guerre tra bande, dove conta solo il soggettivo. Questo liberi tutti a cavallo di Caronte ha prodotto un vasto arco costituzionale dove l’anziano editorialista presentabile borbotta dicendo che hey, su, mica il caldo è stato inventato oggi, e quello che ha fatto dell’impresentabilità il suo branding invece si spinge a dire che il caldo è un’arma di manipolazione di massa, il nuovo grande ordine mondiale che va da Papa Francesco a Frans Timmermans e che attenta all’italica virilità della nafta e della caldaia a gas.

“Il catastrofismo sulla singola ondata di calore ha un effetto perverso, ci impedisce di vedere l’anomalia generale, non arrivano 47°C e allora 41°C a Roma ci sembra quasi fresco, o settimane consecutive sopra i 35°C e la quantità di notti tropicali in città diventano accettabili. Se ne va il demone dagli occhi di bragia inventato questa settimana e siamo a posto, e non è così”, dice Betti. La soggettività e la spettacolarizzazione della conversazione sul meteo ci convincono di una cosa falsa e pericolosa, che basti tenere duro e sopravvivere alla settimana in questione, e ci impediscono di vedere che sono cambiate, e cambieranno sempre di più, le condizioni base che hanno permesso lo sviluppo della civiltà umana.

È un periodo isterico, ha sbottato anche il pacato meteorologo di La7 Paolo Sottocorona, che si è preso del negazionista (non lo è), la follia dell’ondata di calore ci ha ricordato quanto siamo a disagio con il valore pubblico della conoscenza scientifica, quanto la maneggiamo male. Il rapporto col meteo definisce le nostre identità personali, chi regge meglio il caldo, chi regge meglio il freddo, se preferiamo mare o montagna, ma il clima definirà politiche pubbliche, destino ascesa e declino di ogni economia mondiale, migrazioni di massa, collassi alimentari. Le proiezioni climatiche sono la mappa di questo futuro e solo a quelle dovremmo guardare, però a noi interessa soprattutto parlare di noi, e quindi finiamo a parlare del meteo, signora fa caldo, no è l’umidità, quando ero giovane io eravamo più temprati, le vacanze dell’ottantatré e così via.

Ferdinando Cotugno

caldo

Non amerai altri che te stesso…

 

Io amo Io, ossia sposarsi con se stessi

In origine era la famiglia numerosa. Poi venne la famiglia simmetrica e quadrangolare, padre madre figlio e figlia. Quindi la famiglia con figlio unico. Si passò poi alla coppia senza figli, anche dello stesso sesso. Poi fu varata la famiglia mononucleare, composta da un solo membro, il single. Adesso siamo arrivati alla sologamia. Di che si tratta? Il single si ama a tal punto che decide di convolare a nozze con se stesso e sposarsi con un rito ad hoc. Matrimonio narcisistico, potremmo dire, celebrato allo specchio, in un selfie. Garanzia di indissolubilità. Un’installazione di Elena Ketra al Gazometro di Roma ha figurato una donna che sposa se stessa, con tanto di marcia nuziale. A Kyoto esiste il self-wedding per singoli che amano se stessi al punto da prendersi in sposo/a; conta “lo stare bene con se stessi”, imperativo assoluto della nostra epoca. L’artista la motiva a contrario come una forma di “inclusione sociale” giacchè “amarsi è necessario per poter amare in modo libero ogni altro essere umano”.
Quel matrimonio onanistico, autoreferenziale, in cui si è sposo, sposa e figlio della propria unione, è una esibizione simbolica; portata all’estremo, rappresenta la tendenza e lo spirito della nostra epoca.
A conferma di questa tendenza ad amare se stessi sopra ogni cosa, e considerare lo “star bene con se stessi” come l’unico vero fine e requisito per l’esistenza, si possono citare altri due fatti concomitanti. Uno è il congelamento degli ovuli, o dei semi, che nasce da una motivazione originaria comprensibile: se sono single e temo che con gli anni perderò la fecondità, cerco di mettere in salvo la mia possibilità di riprodurre, per consentire – in caso di unione fuori tempo massimo per il mio corpo – di avere ugualmente figli. Ma l’ideologia sottostante al congelamento non è l’impulso alla maternità e tantomeno il desiderio di fare famiglia e coronare l’unione con un consorte; ma la possibilità di autoriprodursi, di lasciare in banca, congelato, la propria virtuale riproduttività, come si congelano anche corpi malati e senili che sperano di poter “risorgere” alla vita quando si troveranno le cure giuste per superare quella malattia ora mortale. Sentitele le single che depositano ovuli nella banca del futuro: è un modo per perpetuarsi, per lasciare lo stampino di se stessi, garantirsi se non l’immortalità, una possibilità di replicarsi ed eludere la mortalità.
Ancora una volta la religione, la filosofia di vita che traspare in queste scelte è lo sconfinato amore per se stessi, e l’inclinazione a pensare il partner non come colui col quale si desidera dividere la vita, giurarsi e praticare amore reciproco, e coronare la propria unione con uno o più figli; ma come l’inseminatore occasionale, il fuco rispetto all’ape regina, ossia il semplice donatore di seme che serve per ingravidare e consentire alla donna autarchica di riprodursi. Non un figlio, dunque, quanto una replica di se stesse, un modo per rigenerare il proprio io e i propri geni.
Per coronare questa visione autarchica e autoreferenziale della vita, consideriamo infine un altro aspetto, recentemente ribadito da una sentenza della magistratura. E’ possibile mutare la propria sessualità e tutto quello che ci identifica, comprese le generalità, semplicemente con un’autocertificazione o un’autopercezione. Lo ha stabilito una sentenza recente del tribunale di Trapani: si può cambiare sesso senza operazione chirurgica o mutazione ormonale, ma per un “puro” desiderio di farlo. Per cambiar sesso non c’è bisogno nemmeno di sottoporsi a un’operazione in modo da mettere anche la legge con le spalle al muro davanti a un’evidente mutazione genetica; basta sentirsi di un altro sesso per modificare i propri dati anagrafici e la propria identità sessuale.
Se la legge non parte dalla realtà oggettiva e da quel che noi siamo secondo evidenza e natura, ma deve sottomettersi a ciò che noi vogliamo essere, allora non solo la percezione del sesso dovrebbe costituire motivo sufficiente per la mutazione dei dati. Ma anche la percezione anagrafica: se io mi sento trent’anni di meno, vivo, vesto, penso e sono come un ragazzo, o se mi sento più africano o asiatico che italiano, perché non riconoscere la variazione d’età o di etnia rispetto a quel che dice la mia anagrafe? Un tema che avevamo già posto provocatoriamente in un controcanto paradossale di un anno fa. E che potrebbe estendersi oltremisura: se mi sento cinghiale, potrà bastare la mia percezione e la mia volontà di ungulato per decretare il mio cambiamento anagrafico e statutario? O l’umanità non può essere revocata, per la semplice ragione che non sarebbe mai possibile l’inverso, ovvero la domanda di un cinghiale di essere riconosciuto umano? Per avanzare una tale richiesta e manifestare la tua volontà devi essere almeno umano, non appartenere al regno animale, vegetale o minerale.
Naturalmente sono paradossi, resta però il principio di fondo: non conta più la realtà e la sua evidenza, la natura e la fisiologia, anzi non conta più l’oggettività; conta il soggetto, il suo sentire e volere soggettivo. Qui torniamo al punto di partenza: Io sono quel che voglio essere, se decido posso perfino sposarmi con me stesso, e riprodurmi in modo autarchico, usando il seme altrui come concime anonimo, impersonale. Io amo io, e basta.
Resta solo una domandina per voi: siete contenti di questa conquista, alzate le spalle dicendo che i tempi mutano, o vi rifiutate di accettare la fine ingloriosa dell’umanità, della natura, del buon senso e della civiltà?

(Panorama, n.31) Marcello Veneziani

 

Dai Racconti di Vetro di Andrea Salvatici il nuovo racconto…

Da Il Corriere della Sera 

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ILLUSTRAZIONE DI ZAC

Ristrutturazione

Finalmente dopo quindici anni il suo ruolo di amante finì con una telefonata secca e breve alle due di notte di un normale giovedì: ”Scegli me o tua moglie! Altrimenti è finita…ma questa volta è finita davvero!”.

Lui lasciò la moglie e i tre figli e si trasferì in casa di lei. Finalmente poterono uscire insieme senza baciarsi fra le nebbie di Fata Turchina e Pinocchio. Insieme senza più giocare a nascondino fra congressi in America e conferenze organizzate apposta per vedersi. Ora erano una coppia che poteva camminare tranquillamente in Corso Vercelli, in viale Papiniano o trovarsi all’Esselunga davanti ai carciofi e alle cipolle di Tropea.  Lui primario chirurgo, ordinario all’università di Milano e fondatore di…accettò di vivere con lei portandosi dietro settantamila libri di medicina. Prima che arrivassero nella casa, lei fece ristrutturare tutto il suo appartamento. Pavimenti, pareti, finestre e soprattutto stanze piene di librerie fatte a mano per i suoi libri. In quel momento lei era felice ma così felice che organizzò una festa nel loro nuovo nido. Colleghi di ospedale, professori universitari, ricercatori, specializzandi, due assessori e qualche giornalista amico di liceo.

– Lei è la moglie del professore giusto??? – chiese una ragazza di ventiquattro anni con occhi azzurri così potenti che rischiavi di sfuocare il resto intorno a te.

– Sì! – rispose lei sapendo di aver detto una palese bugia perché in fondo sentiva di meritarselo.

– Suo marito è un grande professore…io ho iniziato da tre settimane la specializzazione…e mi creda è davvero bravo e comprensivo…

– Grazie! – fu la risposta repentina e decisa di lei nel troncare quell’inizio di conversazione fra una donna di sessant’anni e una donna di ventiquattro. Si separarono in un attimo come il più e il meno nelle particelle.

Più tardi, distesa nel letto accanto a lui supino e stanco gli chiese a bruciapelo: ”Perché hai invitato  i tuoi specializzandi? Non lo hai mai fatto… nemmeno quando eri sposato… e poi scusa… cosa c’entravano stasera? Capisco i colleghi, i professori e i vecchi amici di liceo…ma gli specializzandi…non capisco proprio!!!

Lui provò a rispondere ma iniziò subito a russare. Lei invece si addormentò più tardi.

Arrivarono tutti i suoi libri. La stanza davanti a Santa Maria delle Grazie era pronta per le visite private. Il salotto era pieno di stampe anatomiche e di quadri futuristici: tutto era perfetto in quella casa ristrutturata.

Una mattina, la donna decise di fare due passi intorno all’Arena con il suo Golden retriever di dieci anni, liberò l’animale nell’area cani e si sedette su una panchina a fumarsi una sigaretta.

In lontananza, dopo un paio di minuti, vide vicino al muro dell’Arena il suo compagno con la sua enorme pancia, camminare mano nella mano con la specializzanda dagli occhi azzurri potenti. Sempre ridanciano. Sempre goffo nei passi.

Lei si voltò verso la scuola tedesca e liberò un filo azzurro di fumo fra il muso di Bilbo e un ramo rotto di quercia.