Gli algidi pupazzi erotici dell’Occidente post-tramonto,risultato di bisturi e polimeri sintetici.

L’estasi è procurata da ragazzotti e belle damine, in cui il bisturi e il polimero sintetico ha cancellato gran parte dei tratti distintivi delle loro terre d’origine

Già dalla Belle Époque le “giapponeserie” erano parte della nostra nostalgia per mondi immaginari. Sintetizzavano in un genere l’idea di un Oriente vezzoso e raffinato, raffigurato con ninnoli e porcellane, con silente accenno a una licenziosità misteriosa fatta di raffinatezze sensuali e perversi giochi di ruolo, ammissibili unicamente per l’universo esotico e remoto in cui si esprimevano. Poi ci furono le guerre moderne comprensive di giapponesi, infine la bomba atomica. Il Giappone sconfitto e umiliato tacque.

Il paradosso fu che della successiva resurrezione del Giappone ce ne siamo resi conto in una fascia d’età del tutto improbabile; fu quando le nascenti tv commerciali cominciarono a mandare in onda, come materiale a basso costo, le Anime, che nelle famiglie dabbene degli anni 70/80 venivano bollate come “i brutti cartoni animati giapponesi fatti con il computer”, spesso contrapposti alla poesia degli amanuensi nelle produzioni Disney. Molte di queste Anime furono mutilate di quei chiaroscuri erotici della cultura giapponese per noi indecifrabili; riuscimmo a nascondere l’amore lesbico di due protagoniste di Sailor Moon, o le passioni della Regina di Lady Oscar. Siamo così cresciuti in una dimensione di radicale e bigotta falsificazione di quello che intuivamo come un “Impero dei sensi”, sfuggendoci però la chiave culturale per decifrarlo. I coraggiosi che si riuscirono a sciroppare in sala l’interminabile agonia erotica dei due amanti di Nagisa Ōshima, difficilmente riuscirono ad andare oltre un po’ di cine porcellerie estreme, con apoteosi di soffocazioni ed evirazioni. A metà degli anni 70 non esistevano i tutorial di Shibari a portata di chiunque, i ragazzi non si sfidavano su Tik Tok a ”Black out” , lasciandoci a volte la pelle. Siamo quindi oggi a chiederci perché gli imberbi attori di K-Drama, detti dalle loro vestali “pasticcini mandorlati”, riempiano le giornate della casalinga media italiana. E’ la vera vendetta di un immaginario erotico estremo che, solo quando diluito in percentuale omeopatica, raggiunge il cuore della nostra compattezza familiare, seducendo dalle nonne alle nipotine. Femmine, e non solo, di ogni età e cultura stazionano in titillamento onirico perenne davanti alle piattaforme digitali più note, o in quelle specifiche in lampi d’Oriente come “Rakuten Viki”. L’estasi è procurata da ragazzotti e belle damine, in cui il bisturi e il polimero sintetico ha cancellato gran parte dei tratti distintivi delle loro terre d’origine. E’ l’esplosione di un genere di telefilm che, per paradosso, deriva dai radiodrammi prodotti in Corea negli anni 20’, come risposta alla crudele occupazione giapponese. Un prodotto dell’orgoglio nazionale antinipponico finalmente sdogana, in chiave popolar-anestetica, il nostro antico pruriginio, allucinato per Butterfly e Samurai, contenuto e represso da almeno quattro generazioni. Non è più necessaria una definizione d’origine controllata, per questo il “pasticcino mandorlato” è il Frankenstein dove confluiscono tutti i pezzi di un nuovo pupazzo erotico, buono per tutti i gusti. E’ un po’ come il Sushi che mangiamo in finti ristoranti giapponesi. E’ il gran minestrone del parossismo con verecondia, è il mesto fornicare di sola testa dell’Occidente nel suo post-tramonto.

Gianluca Nicoletti da  La Stampa.

 

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