Le ostriche… a qualcuno piacciono, altri non le mangerebbero mai… a meno che..

Anton Cechov – Le ostriche

Che strana parola! Sono al mondo da otto anni e tre mesi esatti, eppure non ho mai sentito questa parola. Che cosa significherà? Non sarà il nome del padrone della trattoria? Ma i cartelli coi nomi si mettono sulle porte, non sui muri!

«Papà, che vuol dire ostriche?» chiedo con voce rauca, sforzandomi di voltarmi verso mio padre.
Ma lui non sente. Fissa la folla e segue con lo sguardo ogni passante… Dai suoi occhi vedo che vorrebbe dire qualcosa a quei passanti, ma le parole fatali pendono come un grave peso dalle sue labbra tremanti, incapaci di staccarsene. Una volta è riuscito a seguire un passante per qualche passo e gli ha sfiorato la manica, ma quando quello si è voltato ha detto soltanto: «scusate», si è confuso tutto e s’è tirato indietro.

«Papà, che vuol dire ostriche!» ripeto.

«È un animale… Vive nel mare…»

In un baleno mi raffiguro questo sconosciuto animale marino. Dev’essere qualcosa di mezzo tra un pesce e un gambero. E siccome è di mare, sicuramente servirà per preparare una gustosissima zuppa calda, con pepe fragrante e foglie di alloro, oppure un brodetto acidognolo, o una salsa per gamberi, o un piatto freddo da condire col rafano.  Mi raffiguro vivamente come portano quest’animale dal mercato, lo puliscono in fretta, in fretta lo mettono nella padella, in fretta, in fretta, perché tutti hanno fame… hanno una fame terribile! Dalla cucina viene un odore di pesce fritto e di zuppa di gamberi. Sento che questo profumo mi solletica il palato, le narici, e poco a poco mi invade tutto il corpo… La trattoria, mio padre, il cartello bianco, le mie maniche tutto ha quel profumo, un profumo così forte che comincio a masticare. Mastico e inghiotto come se nella bocca avessi veramente un pezzetto di quell’animale marino. Le gambe mi si piegano dal piacere; per non cadere afferro mio padre per una manica e mi stringo al suo umido soprabito estivo. Mio padre trema e si raggriccia dal freddo…

«Papà le ostriche sono un cibo magro o grasso?» gli chiedo.

«Si mangiano vive…» risponde mio padre. «Stanno nel guscio, come le tartarughe, ma è un guscio diviso in due.»

Immediatamente il gustoso profumo smette di solleticarmi il corpo. L’illusione è svanita: adesso capisco!

«Che schifo!» sussurro, «che schifo!»

Ecco che vuol dire «ostriche»! Mi immagino un animale simile a una rana. Una rana che sta dentro un guscio, e di là guarda coi suoi occhi lucenti e grandi, muovendo le sue ripugnanti mascelle. Mi figuro come portano dal mercato quest’animale, nel guscio, con le chele, gli occhi brillanti e la pelle viscida…

I bambini di casa si nascondono, la cuoca, facendo smorfie di disgusto, prende l’animale per una chela, lo mette su un piatto e lo porta in sala da pranzo. I grandi lo prendono e lo mangiano… lo mangiano vivo, con gli occhi, coi denti, con le zampe! E lui si lamenta, cerca di mordergli le labbra…

Faccio una smorfia, ma… ma perché i miei denti cominciano a masticare? È un animale schifoso, ripugnante, orrendo, eppure lo mangio, lo mangio con avidità, col terrore di scoprirne l’odore e il gusto. Uno l’ho già mangiato e già scorgo gli occhi luccicanti di un secondo, di un terzo… Mangio anche quelli…

Alla fine mangio il tovagliolo, il piatto, le soprascarpe di mio padre, il cartello bianco… Mangio tutto quello che mi capita sotto gli occhi, perché sento che solo mangiando la mia malattia passerà. Le ostriche hanno uno sguardo terribile, sono ripugnanti, tremo al solo pensarle, ma ho fame! Fame!

«Datemi le ostriche! Datemi le ostriche!» un urlo mi si strappa da dentro il petto; tendo le mani.

«Aiutatemi, signori!» mi giunge in quel momento la voce sorda, soffocata di mio padre. «Mi vergogno a chiedere, ma, Dio mio, non ce la faccio più!»

«Datemi le ostriche!» grido, tirando mio padre per le falde del soprabito.

«E tu mangi le ostriche, così piccolo?» sento ridere intorno.

Davanti a noi ci sono due signori in cilindro che mi guardano ridendo.

«Ehi, ragazzino, mangi le ostriche? Davvero? È interessante! E com’è che le mangi?»

Una mano, ricordo, mi trascina con forza verso la trattoria illuminata. Dopo qualche minuto intorno a me si raccoglie una piccola folla che mi osserva con ilare curiosità. Sto seduto a un tavolo e mangio qualcosa di viscido e salato, che sa di umido e di muffa.Mangio avidamente, senza masticare, senza guardare e senza chiedere cos’è che sto mangiando. Ho la sensazione che se aprissi gli occhi, vedrei sicuramente degli occhi lucenti, delle chele, dei denti aguzzi. E a un tratto comincio a masticare qualcosa di duro. Che scricchiola sotto i denti.
«Ah, Ah! Si mangia anche i gusci!» ride la gente raccolta intorno a me. «Stupido, quelli non si mangiano!»

Dopo, ricordo una sete terribile. Steso sul letto, non riesco a prender sonno per l’arsura e lo strano sapore che sento nella bocca in fiamme. Mio padre va su e giù per la stanza gesticolando.

«Mi devo essere raffreddato,» borbotta. «Sento qualcosa di strano nella testa. Come se dentro ci fosse qualcuno… Ma forse è perché… perché oggi non ho mangiato nulla…Certo che sono proprio uno sciocco! Vedo quei signori che pagano dieci rubli per le ostriche e non vado a chiedergli qualcosa… in prestito… Me l’avrebbero dato sicuramente…»

Verso l’alba mi addormento e sogno una rana con le chele: sta dentro il guscio e sgrana gli occhi. A mezzogiorno mi sveglio per la sete e cerco con lo sguardo mio padre: è ancora lì che cammina per la stanza, gesticolando…

 

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Van’ka ,un racconto di Natale di Anton Čechov(1886)-

 

Van’ka Žukov, un ragazzetto di nove anni che da tre mesi stava a bottega dal calzolaio Aljachin per imparare il mestiere, la notte di Natale non andò a dormire. Dopo aver atteso che i padroni e i lavoranti uscissero per andare in chiesa, tirò fuori dall’armadio del padrone la boccetta dell’inchiostro, una penna col pennino arrugginito e, sistematosi davanti un foglio tutto spiegazzato, incominciò a scrivere. Prima di tracciare la prima lettera, si voltò alcune volte timoroso verso la porta e la finestra, guardò di traverso l’icona scura, ai due lati della quale si allungavano i palchetti con le forme per le scarpe, e tirò un sospiro. La carta stava su un panchetto e lui s’era messo in ginocchio davanti al panchetto.
«Caro nonnino, Konstantin Makaryč!» scrisse. «Ti scrivo questa lettera. Ti faccio tanti auguri per Natale e ti auguro ogni bene dal Signore Iddio. Non ho più né il padre né la mammina, mi sei rimasto tu solo.»Van’ka volse gli occhi alla finestra buia, sulla quale baluginava il riflesso della sua candeletta, e si raffigurò vivamente il nonno Konstantin Makaryč, che faceva il guardiano notturno presso i signori Živarev. È un vecchietto sui sessantacinque anni, piccolo, magrolino, ma straordinariamente vivace e svelto, con un viso sempre sorridente e gli occhi da ubriaco. Di giorno dorme nella cucina della servitù, o passa il tempo a scherzare con le cuoche, di notte, poi, ravvolto in un ampia pelliccia di montone, fa il giro della proprietà picchiando sulla sua placca. Dietro di lui, a testa bassa, camminano la vecchia Kaštanka e un cagnolino, V’jun, così chiamato per il suo color nero e per il suo corpo lungo come quello di una donnola. Questo V’jun è straordinariamente rispettoso e cordiale, si comporta con la stessa dolcezza con quelli di casa e con gli estranei, ma non gode di grande fiducia. Sotto tanta ossequiosità e umiltà si nasconde la più gesuitica malizia. Nessuno sa scegliere meglio di lui il momento giusto per avvicinarsi furtivamente e azzannarti una gamba, o per infilarsi nella dispensa o per rubare una gallina a un contadino. Più di una volta gli hanno rotto le zampe posteriori a forza di botte, un paio di volte lo hanno appeso per la collottola, non passa settimana che non lo frustino a morte, ma lui risorge sempre.
Ora certamente il nonno sta vicino al portone, strizza gli occhi alle finestre rosso vivo della chiesa del villaggio e, scalpicciando per terra con gli stivali di feltro, scherza con le donne di servizio. Alla cintola tiene appesa la placca; batte le mani per scaldarsi, si rattrappisce tutto dal freddo e, con la sua stridula risata da vecchietto va pizzicando ora la cameriera, ora la cuoca.
«Non volete annusare un po’ di tabacco?» dice, porgendo alle donne la sua tabacchiera.
Le donne annusano il tabacco e starnutiscono. Il nonno è preso da un entusiasmo indescrivibile, scroscia in una allegra risata e grida:
«Staccalo, col gelo s’è attaccato!»
Danno da fiutare il tabacco anche ai cani; Kaštanka starnutisce, scuote il muso e, offesa, si trae in disparte. V’jun, invece, per rispetto, non starnutisce e dimena la coda. E il tempo, intanto, è meraviglioso. L’aria è quieta, diafana e fresca. La notte è buia, ma si vede tutto il villaggio con i suoi tetti bianchi, le spirali di fumo che escono dai camini, gli alberi inargentati di brina, i monticelli di neve. Tutto il cielo è cosparso di stelle che ammiccano allegre e la via lattea si disegna con tanta nettezza che pare l’abbiano lavata e strofinata con la neve, per la festa… Van’ka sospirò, intinse la penna e continuò a scrivere:
«Ieri ho avuto una tirata di capelli. Il padrone mi ha trascinato per i capelli fino a fuori e mi ha strigliato col tiraforme, perché mentre cullavo il loro bambino inavvertitamente avevo preso sonno. Domenica, poi, la padrona mi ordinò di pulire un’aringa, ma io cominciai dalla coda, e lei prese l’aringa e cominciò a sbattermela in faccia. I lavoranti si burlano di me, mi mandano alla bettola a comperare la vodka, mi comandano di rubare i cetrioli dei padroni, e il padrone mi picchia con tutto quello che gli capita sotto mano. E anche da mangiare non c’è proprio niente. La mattina mi danno del pane; a pranzo polenta, e la sera di nuovo pane, e, quanto al tè e alla zuppa di cavoli, quella roba lì se la pappano i padroni. E mi fanno dormire nell’ingresso, e quando il bambino loro piange io non dormo più per niente, e dondolo la culla. Caro nonnino, fammi questa carità, toglimi di qui e portami a casa, nel villaggio, io non ne posso proprio più.. Te lo chiedo in ginocchio e pregherò eternamente Iddio per te, ma portami via di qui, altrimenti ne morirò…»
Van’ka storse la bocca, si passò il suo pugno tutto nero sugli occhi e ruppe in un singhiozzo.
«Ti triterò sempre il tabacco,» continuò, «pregherò Iddio per te, e se non mi comportassi bene, tu dammele di santa ragione. E se credi che non potrei fare nessun lavoro, chiederò all’intendente che per amor di Cristo mi lasci pulire gli stivali, oppure andrò al posto di Fed’ja come aiuto-pastore. Nonnino caro, non ne posso più, non mi resta che morire. Volevo scappare al villaggio a piedi, ma non ho scarpe e ho paura del gelo. Ma quando sarò grande, io per ricompensarti ti manterrò e non permetterò che nessuno ti maltratti, e quando morirai, pregherò per la pace dell’anima tua, come prego per mamma Pelageja.
«Mosca, sai, è una città grande. Sono tutte case di signori, e ci sono molti cavalli, ma pecore nessuna, e i cani non sono cattivi. Qui i ragazzi non vanno in giro con la stella, e nel coro non ci prendono nessuno a cantare; una volta ho visto nella vetrina di una bottega che gli ami li vendono direttamente con la lenza, e per ogni sorta di pesci, e sono molto cari, c’era perfino un amo che poteva sostenere un pesce siluro di un quindici chili. Ho visto anche delle botteghe dove c’erano fucili di ogni tipo, come quelli dei padroni, tanto che costavano almeno cento rubli l’uno… Nelle macellerie si trovano galli cedroni, le starne e le lepri, ma i venditori non dicono dov’è che li prendono.
«Caro nonnino, quando dai padroni faranno l’albero di Natale coi regalini, prendimi una noce dorata e riponila nel bauletto verde. Chiedila alla signorina Ol’ga Ignat’evna, dille che è per Van’ka.»
Van’ka tirò un sospiro convulso e tornò a fissare la finestra. Ricordò che nel bosco, a cercare l’albero di Natale per i padroni, ci andava sempre il nonno e portava con sé il nipotino. Che ore felici erano quelle! Il nonno gemeva, il ghiaccio gemeva, e, a guardare loro, gemeva anche Van’ka. Prima di tagliare l’albero, di solito il nonno fumava la pipa, fiutava a lungo tabacco, e si burlava di Vanjuska, tutto infreddolito… I giovani abeti, coperti di brina, stavano immobili, aspettando di vedere a chi di loro toccava morire. D’un tratto, sbucata da chissà dove, una lepre vola come una freccia sui cumuli di neve… Il nonno non può fare a meno di gridare:
«Prendila… prendila! Ah, diavolo senza coda!»
Tagliato l’albero, il nonno lo trascinava fino alla casa dei padroni, e là si mettevano a decorarlo… Più di tutti si affaccendava la signorina Ol’ga Ignat’evna, la beniamina di Van’ka. Quando era ancora viva Pelageja, la madre di Van’ka, e stava dai padroni come cameriera, Ol’ga Ignat’evna rimpinzava Van’ka di dolci e, per passatempo, gli aveva insegnato a leggere, a scrivere, a contare fino a cento e perfino a ballare la quadriglia. Quando poi Pelageja morì, mandarono l’orfanello Van’ka nella cucina della servitù, col nonno, e di lì a Mosca, dal calzolaio Aljachin…
«Vieni, caro nonnino,» continuò Van’ka. «Te ne prego in nome di Cristo Nostro Signore, portami via di qui. Abbi pietà di me, orfano infelice, qui mi massacrano di botte e ho una gran fame, la noia poi è indescrivibile e piango sempre. L’altro giorno il padrone mi ha picchiato sulla testa con una forma da scarpa così forte che sono cascato in terra e a stento mi sono riavuto. La mia vita è rovinata, è peggio di quella di un cane… Salutami ancora Alëna, Egor il guercio, e il cocchiere, e non dare a nessuno il mio organetto. Sono il tuo nipote Ivan Žukov, caro nonnino, prendi il treno e vieni.»
Van’ka piegò in quattro il foglio scritto e lo mise in una busta comprata il giorno prima per una copeca… Dopo averci pensato un attimo, intinse la penna e scrisse l’indirizzo:
«Al nonno, al villaggio».
Poi si grattò la testa, ci pensò su e aggiunse: «A Konstantin Makaryč». Contento che nessuno gli avesse impedito di scrivere, infilò il berretto e, senza neanche gettarsi sulle spalle la giacchetta di pelo, in maniche di camicia com’era, corse in strada…
Certi commessi della macelleria che aveva interpellato il giorno prima gli avevano detto che le lettere si infilano nelle cassette postali, e dalle cassette vengono poi portate per tutto il mondo sulle trojke della posta, guidate da postiglioni ubriachi e tutte squillanti di campanelli. Van’ka corse fino alla prima cassetta postale e infilò la preziosa lettera nella fessura…
Cullato da dolci speranze, un’ora dopo egli dormiva profondamente… Sognava una stufa. Su di essa stava seduto il nonno, con i piedi scalzi a penzoloni, e leggeva la lettera alle cuoche… Accanto alla stufa girava V’jun, dimenando la coda..
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