Ottocento anni fa, in vista del Natale dell’anno di grazia 1223, Francesco d’Assisi a Greccio mise al mondo il primo presepe. Era vivente, una rappresentazione teatrale sacra; poi sarebbero venuti i personaggi, le icone, i paesaggi ricostruiti, le belle statuine dei presepi nati dall’artigianato devoto. Il presepe è la rappresentazione più viva e compiuta della comunità cattolica, della famiglia cristiana, della coralità italiana. I più acuti e i più ottusi diranno in coro che il presepe è la sintesi domestica di Dio, patria e famiglia. Perché celebra in modo tenero, casereccio, concreto l’amor di Dio, il senso religioso della vita e l’evento più importante per la storia della cristianità; perché è un frutto della nostra naturale, italica socievolezza, della nostra fantasia domestica e dell’arte di arrangiarsi nonché del nostro senso estetico, scenico e teatrale; infine il presepe è famiglia, narra della sacra famiglia, e fa famiglia in casa. Per lunghi anni ha serpeggiato un bipolarismo natalizio tra i fautori del laico, nordico, protestante e ora green albero natalizio e del cattolico, personalista e comunitario, mediterraneo e sudista presepe; fino a che non si è insinuata la tendenza filantropica, inclusiva, verde e umanitaria, di bocciare ambedue perché offenderebbero sensibilità atee o religiose differenti, escludendo i non cristiani; in più è il segno di uno scempio ecologico se l’albero issato in casa non è sintetico ma è rubato alla natura. Anni fa spiazzò la confessione di Umberto Eco: da ragazzo, confessò, faceva la Madonna nel presepe vivente del suo paese. Ho l’impressione che avesse continuato a fare la Madonna nel presepe intellettuale del nostro Paese. Spero che non avesse già la barba all’epoca in cui interpretava il ruolo della Santa Vergine. Ma non lo faceva per devozione o spirito natalizio, ammise; solo per vanità e privilegio, per stare al centro dell’attenzione e al riparo della grotta. Amo il presepe ma non quello vivente; capisco quelli che si tramandano da tempo, ma quei festini in maschera sponsorizzati dalla pro loco e dalle associazioni umanitarie, danno un po’ fastidio. In primo luogo stridono col presepe morente del Medio Oriente, dove le grotte e i cunicoli sono abitati dai terroristi e Betlemme è zona di guerra. I presepi viventi animano poi una gara campanilista ma soprattutto sono concepiti come piccole orge di retorica umanitaria: il presepe è un piccolo congresso delle nazioni unite, i Re Magi sembrano rappresentanti di Ong o Amnesty International, i pastori sfilano come in un corteo pacifista, san Giuseppe è una specie di Casarini dell’antichità, la Madonna una hostess multilingue e magari pure fluida, della società multirazziale e multisessuale; e il Bambino se è di colore vale il doppio. Ma se è nato in provetta, con l’utero in affitto, è ancora meglio. Gli angeli svolazzanti sulla grotta sono una via di mezzo tra i caschi blu e il gay pride, con quell’alone transessuale, variopinto, con polvere bianca, da paradisi artificiali. Il presepe diventa un pretesto per piazzarci la solita stucchevole menata sulla pace, l’antirazzismo, Buone Parole e Tutti Fratelli, dimenticando il miracolo della Santa Natività. Come i bambini, nei presepi viventi anch’io sono attratto dal bue, dall’asino, dalle galline e dal cammello, piuttosto che dalla sacra famiglia, di cui si avverte la finzione, ridotta a una specie di stand filantropico-turistico in costume. Gli animali invece non fingono.
Il presepe che portiamo nel cuore è quello dell’infanzia, con l’ovatta per la neve, la carta d’imballaggio per le montagne, i laghetti ricavati dagli specchietti della vanità femminile e il muschio rubato dai cortili. Era un piccolo miracolo di edilizia sacra, di urbanistica domestica a sfondo infantile e religioso, dai risultati goffi e commoventi. Ricordo i personaggi raccogliticci: i re Magi, per esempio, erano tre ma due appartenevano a una collezione e il terzo a un’altra più bonsai, sembrava un nano imbucato. Poi due arrivavano col cammello, il terzo a piedi; sarà arrivato con l’autostop, in taxi o in autobus? Impressionava Gesù Bambino che era un bambinone più grosso di sua Madre e, quel che più impressionava, perfino del bue e dell’asino. A san Giuseppe si spezzava ogni Natale il bastone ed era sempre in riparazione; si rimediava col fil di ferro. Di Madonne ne avevamo tre, come le Marie del panettone; le altre due erano mescolate tra i pastori ma stavano lì in lista d’attesa; in caso di necessità si rendevano disponibili, come dicono le hostess per le maschere d’ossigeno. Tra i personaggi c’era un venditore di cocomeri clamorosamente fuori stagione; ma se è per questo i personaggi erano per metà vestiti d’estate e per metà d’inverno. I primi erano giustificati dal luogo (è pur sempre continente africano), i secondi dal tempo (è pur sempre dicembre). Nel presepe c’era quasi sempre un infiltrato, un personaggio fuori tempo, magari vestito con abiti borghesi dei nostri giorni, forse un agente del Mossad. Ricordo la difficoltà di sospendere in alto la stella cometa, attraverso fili invisibili che tanto invisibili non erano. Più drammatico era piazzare sulla grotta i due angioletti che sistemati precariamente cadevano in continuazione provocando stragi di papere e pastori, giustamente protestanti verso i due involontari terroristi caduti dal cielo. Era un po’ grottesco il presepe domestico, così raffazzonato. Ma emanava calore umano e davvero sembrava che in quei giorni ad abitare la casa non fossimo solo noi della famiglia.
Marcello Veneziani