Quel ragazzo nella soffitta…

 

Ogni tanto mi chiedo se nella vita non avrei dovuto pormi degli obiettivi più ambiziosi. Se uno scrive, forse dovrebbe immaginarsi avventuriero alla Hemingway, o dannato quanto Céline, o saggio solitario come Hermann Hesse. Io invece ho sempre voluto essere soltanto John-Boy. Ve lo ricordate John-Boy? Era il figlio maggiore della famiglia Walton, il protagonista della serie televisiva intitolata «Una famiglia americana». In Italia devono averla mandata in onda negli anni Ottanta, perché la guardavo da bambino. Si svolgeva in una comunità rurale della Virginia durante la grande depressione. C’erano genitori, fratelli, sorelle, nonni. I maschi erano vestiti con delle salopette di jeans, mentre le ragazze avevano bellissimi capelli lunghi. Facevano i contadini, naturalmente, ma John-Boy sognava di fare il romanziere. Alla sera, infatti, al termine delle avventurose giornate in cui la sua famiglia superava le fatiche di una vita modesta in quel contesto di crisi economica, si rifugiava in una soffitta con le travi di legno, accedeva una lampada a olio sopra un tavolino e cominciava a riempire le pagine di un diario. Gli spettatori lo vedevano al lavoro e sentivano la sua voce calda che riassumeva con parole meravigliose – così almeno mi apparivano allora – le vicende della puntata. John-Boy trovava sempre il modo di dare una chiave di lettura efficace dei fatti accaduti per trasmettere a noi, acquattati al di qua dello schermo, uno slancio in avanti, qualcosa che agisse non tanto sulla ragione, quanto sul cuore.

Penso che gran parte del mio immaginario sull’essere scrittore derivi dal ricordo di quel ragazzo nella soffitta, avvolto dalla luce della lampada e dal silenzio più profondo, che cerca di dare un ordine alla vita dove è stato immerso tumultuosamente per tutto il resto del tempo. Della costanza di quel suo lavoro notturno, condividevo il senso quasi sacrale di un’attività artistica e artigianale insieme che mi pareva davvero in grado di proiettarmi verso il cuore dell’esistenza, senza pretendere di capirlo e meno ancora di spiegarlo, ma piuttosto di sperimentarlo. John-Boy è un personaggio di fantasia, i Walton non sono mai esistiti, eppure la loro storia è accaduta davvero perché la loro vicenda ha trovato il modo di generare in me la forza di un incontro. Questa è la magia della scrittura, come racconta anche Elias Canetti nel primo volume della sua autobiografia, «La lingua salvata». Dice infatti che sin da ragazzo usava trascorrere le serate a conversare con la madre dei personaggi incontrati nei libri e ne discutevano come fossero persone reali. L’intensità di quelle storie era tale che aveva creato in lui un nucleo di emozioni ed esperienza tanto forte da condizionare tutta la sua esistenza. Quando la scrittura di un romanzo è abbastanza efficace, la storia che si racconta è sempre vera, anche se è del tutto inventata, perché è in grado di toccare le corde dell’animo umano con la stessa efficacia di un incontro significativo. Forse ci pensava anche John-Boy nella sua soffitta, in cerca delle parole adatte per riempire il suo diario. Guardava fuori dalla finestra. Non mi ricordo come fosse la stanza in cui lavorava, ma una finestra doveva pur esserci. Casa Walton era piena di finestre. Insisto su questo aspetto perché la finestra è una bella metafora per spiegare un altro elemento della scrittura: in narrativa, la scrittura è la storia, perché è lei a dare forma a ogni cosa e, soprattutto, a determinare lo spazio e il modo in cui lo scrittore osserverà il mondo. Per questo va reinventata ad ogni romanzo, perché se è diversa, ci permette di vedere altre cose, di pescare dentro di noi in profondità sconosciute e portarci a nuove rivelazioni. E dunque – ecco la metafora – è come guardare il giardino di casa Walton da finestre differenti. Lo spazio è sempre quello, ma la prospettiva cambia e la porzione di mondo che si rivela è molto diversa. John-Boy la pensava certamente così ed era talmente sicuro dell’importanza per lui di scrivere, da trovare comunque il modo di farlo dopo le sue lunghe giornate di lavoro. Quell’attività gli dava pace, placava i suoi pensieri, gli regalava la certezza di aver usato bene il suo tempo perché rispondeva a un bisogno profondo. Infatti alla fine si trasferisce in città dove riesce a diventare scrittore. Io non credo di avere mai avuto la sua costanza e soprattutto la fiducia di poter un giorno guadagnare dai libri abbastanza da poterne fare un mestiere. Ho sbagliato, perché questo atteggiamento rinunciatario mi ha sottratto energie e, forse, tante belle opportunità. Alla fine però la realtà è più forte delle nostre idee e la vita mi ha portato esattamente dove sapevo sin da bambino che avrei dovuto stare: nella soffitta di John-Boy, nel silenzio delle sue sere. L’unica cosa che mi ha concesso è di non indossare la salopette di jeans. Quella, davvero, non l’ho mai sopportata.

Luca Saltini

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Luca Saltini è in libreria con “Sarà la montagna” (Neri Pozza)

Quant’è ipocrita quel dito puntato contro l’infanticida…

 

Chiara Petrolini è accusata di essere un mostro eccezionale, inaudito. Ma si legga Sergio Quinzio: “Se l’aborto è lecito non può essere contemporaneamente illecito l’infanticidio, e anche l’eutanasia dei malati nonché l’eliminazione dei vecchi”
Accusano Chiara Petrolini non solo di doppio infanticidio, e su questo non discuto, ma pure di essere un mostro eccezionale, inaudito. Già che ci sono accusano anche il fidanzato, i famigliari, perfino i compaesani di essere complici di questo mostro straordinario. Piace tanto accusare. Non solo ai webeti, anche all’intelligentissimo Paolo Crepet che incolpa la nequizia dei tempi. Mah, sarà. Sarà che come Terenzio non ritengo alieno nulla di ciò che è umano, nemmeno il peggior crimine, e considero Chiara mia sorella oltre che mia conterranea (quante volte sono andato a cena a Traversetolo, quante volte alla Fondazione Magnani-Rocca…). Sarà che leggo la Bibbia, dove gli infanticidi non mancano e non era colpa dello smartphone. Sarà che ho letto Sergio Quinzio: “Se l’aborto è lecito non può essere contemporaneamente illecito l’infanticidio, e anche l’eutanasia dei malati nonché l’eliminazione dei vecchi”. Sarà che nel molto democratico stato di New York si può già abortire fino al nono mese, a certe condizioni, una di queste riguarda la salvaguardia della salute mentale della madre e la salute mentale della ventenne parmigiana era ed è certamente a rischio. Sarà che due bioeticisti hanno già teorizzato l’aborto postnatale. Gli appassionati di accuse ne hanno di gente da accusare, non si limitino a Chiara.

Camillo  Langone_da_IL FOGLIO

 

Chiara

Autobiografia di un neonato…

 

 

 

Salve, vorrei raccontarvi la mia vita. È cominciata stamattina, anche se avevo fatto un tirocinio preliminare nel grembo materno, un corso di sopravvivenza di ben nove mesi. Ora è notte ed è tempo di bilanci. Non dite per favore che sono fresco di giornata, perché freschi sarete voi, mica io. Non sapete lo stress per la partenza dal covo, tutta quella sceneggiata intorno, sballottato nel viaggio, poi in corsia, mia madre che non mi sopportava più e voleva sbattermi fuori di casa, si lamentava e si contorceva; è stata una trattativa lunga e anche manesca, ricevevo minacce di continuo, c’era pure uno che suggeriva di sfondare il recinto di protezione e farmi uscire con un taglio che chiamavano “il cesareo”, manco fossi un terrorista. Poi, alla fine, è avvenuto l’atterraggio dopo una tempesta di pressioni e di spintoni; un invadente mi ha tirato fuori con la forza, io piangevo ma lui insisteva; spaventato, sono uscito con le mani alzate, in segno di resa. Quindi la dichiarazione unilaterale d’indipendenza, l’inaugurazione col taglio del nastro, anzi del cordone ombelicale, troncato di brutto, senza neanche accertarsi se fossi d’accordo. E poi quella doccia forzata, nemmeno il tempo di capire dove sono arrivato e con chi avevo il piacere di intrattenermi tra le sue braccia che mi hanno investito con un getto d’acqua, come si fa con i manifestanti non autorizzati. Ma che maniere…

Poi, i complimenti a mia madre per la mia espulsione; i suoi complici in camice affaticati per l’impresa e soddisfatti: ma che devo dire io, espatriato per decreto, riluttante a uscire dall’alcova, costretto a venire al mondo, io che stavo così bene incapsulato nella mia navicella spaziale, che chiamavano placenta.

E dire che alcuni mesi fa, a poche settimane dal concepimento, c’era qualcuno in famiglia che voleva farmi fuori; io li sentivo da dentro ma non potevo replicare, non si era formata nemmeno la bocca e non avevo voce. Interrompiamo la gravidanza, non possiamo permetterci ora un figlio, e io che non avevo diritto di parola, ero allibito e impaurito. Poi, grazie al cielo o alla fortuna, ha prevalso il buon senso, forse l’istinto materno e paterno; la minaccia è rientrata. Ho fatto il corso di addestramento reclute alla vita in una specie di sottomarino. Al buio, manco fossi un sequestrato; in silenzio, manco fossi un clandestino, e sott’acqua, manco fossi una triglia o una cozza. Ma alla lunga mi ero affezionato all’habitat, il vitto era completo e gratuito, mi arrivava tutto direttamente, come con Glovo. Mi piaceva sentire dal citofono interno la voce materna e della gente. Ogni tanto mia madre faceva qualche comunicazione di servizio per me.

Ogni volta che le persone le toccavano il pancione, sfiorando le pareti in cui ero alloggiato, io sentivo la carezza, capivo che ce l’avevano con me, cercavo di mandare segnali del tipo ricevuto, passo o messaggi di cortesia; ma nessuno li capiva, ragionavano tra loro, ed io era come se parlassi a vuoto.

C’è stato un periodo, all’inizio, in cui dal garage sottostante entravano visite di corpi estranei e mia madre era o almeno sembrava contenta; visite genitoriali, di mio padre o di chi ne fa le veci… No, non volevo malignare, è che da dentro non si capiva bene chi fosse; e poi si nasce sospettosi, anzi si nasce col dubbio: dubito quindi esisto.

Poi, a un certo punto quelle pratiche movimentate si sono interrotte per via della pancia che cresceva e di una certa premura nei miei riguardi. Ho avuto però come l’impressione che ce l’avessero con me, che fossero un po’ risentiti dalla sospensione della loro attività sessuale, così la chiamavano, a causa della mia intrusione nei locali materni. Così nacque in me un vago senso di colpa e insieme il complesso che non fossi proprio simpatico e gradito alla titolare dello stabile in cui vivevo e soprattutto ai suoi accoliti.

Nella prima giornata di vita all’aperto è venuta tanta gente a trovarci, pure troppa. Vedevo ombre e sagome indistinte, sentivo voci continue, odori di fiori misti a disinfettanti; un via vai di gente che non se ne andava mai. Molti erano un po’ falsi, li sgamavo pure io che non ho una gran casistica o esperienza alle spalle. I più commossi erano dei vecchi che dicevano di essere i miei nonni; erano voci familiari che avevo sentito già quando ero nel bunker. Molesti, e anche un po’ pericolosi erano invece i bambini, soprattutto i più piccoli, che volevano toccarmi, imboccarmi e se non ci fossero stati i vigilanti a frenarli, mi avrebbero pure malmenato.

Vi chiedete come mai un neonato sente il bisogno di scrivere la sua autobiografia, in età così precoce: cos’è questo egocentrismo appena nati? Il fatto è che tutti ormai parlano solo di se stessi, badano solo a se stessi, fotografano se stessi, pensano che il mondo ruoti intorno a loro. Ci sono giovani che già si cimentano a scrivere, filmare e narrare la propria biografia. La vita si allunga, ma l’impazienza di raccontare la propria vita accorcia i tempi. Leaders, personaggi pubblici, star, gente di spettacolo scrive la propria autobiografia nel mezzo del cammin della sua vita, e anche prima. Visto che si anticipano sempre più i tempi per raccontarsi, ho pensato di bruciare tutti sul tempo e scrivere la mia autobiografia già da neonato, raccontando la sola giornata della mia vita, come se fossi una farfalla. Ma poi, scusate, avete apprezzato la Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci, che si rivolgeva a una creatura nemmeno nata, e vi stupite se un bambino neonato scrive la sua autobiografia di giornata, in tempo reale? Ohi vita, oh vita mia…

  Marcello  Veneziani    

Nato con la camicia. A lui l’augurio che per lui si avveri tutto quanto dice il famoso detto popolare…

 

(ANSA) – VICENZA, 25 SET – Un caso raro, che secondo le statistiche accade in un parto ogni 80mila, al punto che in antichità veniva considerato un evento magico, di buon auspicio per il futuro del bambino o della bambina venuti al mondo in questo modo. E’ quanto avvenuto nelle ultime ore all’ospedale di Bassano del Grappa (Vicenza) dove Alexander, primogenito di mamma Nutchana e papà Gianni, è nato “con la camicia”, il gergo medico che si usa per i neonati che vengono alla luce ancora completamente avvolti dal sacco amniotico, intatto con tutto il suo liquido all’interno.
“Generalmente quando il bambino comincia a scendere – spiega Roberto Rulli, direttore dell’ostetricia e ginecologia del nosocomio San Bassiano – le membrane tengono a rompersi spontaneamente, la cosiddetta ‘rottura delle acque’, ma a volte questo non accade per una loro particolare elasticità. Non è qualcosa di cui abbiamo avvisaglie dunque quando accade è una grande sorpresa per noi in sala parto. Dal punto di vista medico comunque non rappresenta un rischio o una complicazione, perché il bambino è ancora attaccato al cordone ombelicale, da cui trae anche l’ossigeno. Per il bambino – aggiunge – è un passaggio meno traumatico, perché inizia a vedere la luce quando è ancora immerso nel liquido amniotico, che è alla temperatura del corpo. “Dal punto di vista medico – precisa Davide Meneghesso, direttore della pediatria di Bassano – rappresenta un fatto curioso, bello e un po’ magico. Questo fenomeno fin dall’antichità ha suscitato alcune credenze, secondo le quali questi piccoli verrebbero al mondo più protetti o potendo disporre di svariate ‘grazie’, come quella di essere fortunati e predisposti a fare del bene. Ciò che maggiormente affascina è la calma del bambino all’interno del sacco amniotico”.

nascere con la camicia

. Parlare ai più piccoli di sesso e amore è un importante compito, ma eludere l’argomento è la maniera peggiore di (non) affrontarlo: c’è di mezzo lo sviluppo psichico e sentimentale del bambino.La «Filastrocca della nascita» di Mimmo Mòllica risponde giocosamente alla fatidica domanda «come nascono i bambini?»

Filastrocca della nascita
Da un minuscolo semino
viene al mondo ogni bambino,
come piante ed uccellini,
come il panda ed i gattini.

Nella pancia di mammina
c’è un ovetto e una casina,
col favore di Cupido
nel pancione fa il suo nido.

La bimba:
In quel pancione era la casa
da dove un giorno io sono evasa,
di star là dentro mi ero stancata:
«Voglio conoscere chi mi ha creata».
Avevo fatto già nove mesi,
come fan tutti i bambini attesi,
e avevo voglia di gattonare,
di far la pappa e di giocare.

Il bimbo:
Mi han consegnato un certificato
su cui c’è scritto quando son nato,
il giorno, l’anno, nome bebè,
scopo, motivo, come e perché.
Dalla mia culla vedevo il sole,
le prime stelle, le prime viole,
le prime rondini, cieli turchini,
oh, quante cose sanno i bambini!

Quando un bambino sarà cresciuto

capirà meglio cos’è accaduto
tra la sua mamma e il suo papà
e a fare i figli come si fa.
Mimmo Mòllica
“Come nascono i bambini?”. Parlare ai più piccoli di sesso e amore è un importante compito che richiede cautela e attenzione. L’educazione sessuale può creare disagio nei genitori e spiegare ai più piccoli come nascono i bambini non è semplice, ma eludere l’argomento è la maniera peggiore di (non) affrontarlo. Il concepimento o il sesso sono argomenti naturali. È perciò importante per i bambini parlarne con chiarezza e competenza: c’è di mezzo lo sviluppo psichico e sentimentale del bambino, una sessualità sana e corretta sono alla base della fatidica domanda. Legittime scoperte
La curiosità è l’elemento ineludibile, i piccoli per crescere devono fare le loro legittime scoperte e capire a fondo la realtà che li circonda, il corpo, la sessualità, la differenza tra i sessi. Niente tabù, sebbene l’argomento possa apparire scomodo, niente pudore superfluo, né vergogna. Il bambino è in grado di accogliere con normalità ogni informazione veritiera.
Né cavoli, né cicogne, perciò, ma un linguaggio sincero e naturale, magari mediato da un racconto: “C’era una volta un uovo nella pancia della mamma. Un giorno incontrò il semino del papà e pian piano si formò un bambino…”
Quando il bambino sarà più grande, sarà più facile tornare sull’argomento con altre spiegazioni sulla gravidanza, sul concepimento e la nascita.

L’Occidente non ci salverà…

 

 

 

Ma davvero il mondo deve dire grazie all’Occidente per tutto il bene che abbiamo fatto a noi e agli altri? È quanto sostiene Federico Rampini in un libro che esprime gratitudine all’Occidente sin dal titolo (Grazie Occidente, ed. Mondadori) e rivolge in positivo quel che aveva scritto in un suo precedente saggio dedicato al suicidio dell’Occidente. Rampini è un osservatore attento e sagace, progressista ma scevro da molti pregiudizi radical. E la sua riabilitazione dell’Occidente e della sua egemonia mondiale, della colonizzazione e della globalizzazione di marca occidentale, sono una chiara, aperta polemica contro gli occidentali che si vergognano di esserlo e della storia dell’Occidente e della sua opera di civilizzazione nel mondo; un occidente che si autodenigra, si cancella e si vorrebbe correggere, intollerante con se stesso e sottomesso verso il resto del mondo. Quali sono i meriti dell’Occidente? Li tutti sappiamo tutti anche se molti dimenticano o non vogliono ricordare. Così li riassume Rampini: “il mondo è popolato da miliardi di persone che devono la loro stessa esistenza a noi. La scienza occidentale, pensiamo alla nostra medicina e alla nostra agronomia, è stata copiata e applicata dal resto dell’umanità con benefici immensi. Se la longevità è aumentata, la mortalità infantile è crollata, il livello d’istruzione è cresciuto nel mondo intero, è perché l’Occidente ha esportato progresso. Dove si combatte per migliorare i diritti umani – per esempio la condizione della donna – il paradigma da emulare siamo noi. Il nostro modello industriale ha sollevato dalla miseria grandi nazioni(…). Viviamo in un’epoca in cui pronunciare queste verità è scandaloso, è proibito. Il conformismo dominante impone una versione bugiarda della storia, in cui la «razza bianca», europea o nordamericana, ha seminato solo distruzione”.
Vero, innegabilmente vero, anche se la parola Occidente qui diventa intercambiabile con modernità.
Questa era, del resto, la tesi di Oriana Fallaci, o quantomeno dell’ultima Fallaci anti-islamica; prima ancora era il credo occidentale di una certa destra atlantica, colonialista, magari un po’ wasp, che da noi leggeva Il Giornale di Indro Montanelli e prima ancora Il Borghese di Mario Tedeschi, che si riconosceva nei repubblicani americani, in James Burnham di Suicidio dell’Occidente e in Barry Goldwater.
Personalmente non condivido l’immagine dell’Occidente benefattore del mondo e causa di ogni bene del vivere moderno, che mi pare speculare a quella, altrettanto unilaterale, dell’Occidente come maledizione del mondo e causa di ogni male del vivere presente. Nella sua crescita smisurata, l’Occidente ha arrecato vantaggi e svantaggi a se stesso e al mondo intero; meglio tener fuori ogni ideologia moralista sia di tipo salvifico che malefico. La storia dell’Occidente è soprattutto la storia della volontà di potenza, l’espansione illimitata della tecnica e dell’economia, il capitalismo, la ricerca del profitto e del dominio planetario. È la vittoria del regno della quantità sul regno della qualità. Sicuramente l’occidente ha portato longevità e benessere; ciononostante dobbiamo riconoscere insoddisfazione e malessere nell’occidente e nel mondo, senso di alienazione e di sradicamento, paura del futuro e angoscia del presente, solitudine e depressione, nichilismo. Evidentemente, la crescita materiale dell’Occidente, la maggiore durata della vita e il miglioramento delle condizioni di vita non bastano all’umanità o sono stati ottenuti a un prezzo troppo alto; c’è qualcosa di immateriale ma tangibile, di spirituale e vitale, che attiene all’intelligenza e al destino, la sua mente e la sua anima, il senso della vita e i legami comunitari che è stato mortificato, e che configura la nostra epoca dello scontento. L’Occidente ha trasformato il mondo, ma nel senso della civilizzazione, della Zivilisation, direbbe Oswald Spengler, non della Kultur. Viviamo infatti la deculturazione globale.
Cosa è accaduto? Non siamo scivolati nel peggiore dei mondi possibili, ma al piano delle conquiste corrisponde purtroppo anche il piano delle perdite; dietro ogni progresso, in un campo, c’è sempre un regresso in un altro. E allora quando facciamo i bilanci dobbiamo saper ponderare i successi e i naufragi, le vittorie e le sconfitte, i lati radiosi e i lati infami della sua globalizzazione.
E dobbiamo completare la diagnosi di Rampini: è vero, l’Occidente si vergogna di se stesso, si rinnega. Ma rinnega in primo luogo la sua civiltà, la sua cultura, le sue radici storiche e religiose, le sue tradizioni, il suo mondo reale, il sentire comune dei popoli, i legami più forti che nascono dall’identità, dall’appartenenza, dagli affetti più intimi e veri. I mezzi sostituiscono i fini, sicché abbiamo potenziato i mezzi per vivere e abbiamo perduto gli scopi che rendono la vita degna di essere vissuta; abbiamo infiniti accessori ma abbiamo perduto l’essenziale, che dava senso alla vita. È un bene barattare l’essere con l’avere, il pensare col fare, il vivere col durare?
Il rimedio non è tornare indietro e rinnegare lo sviluppo, sarebbe insensato; si tratta di affrontare con intelligenza critica i due piani, farli interagire, capire che l’uomo ha bisogno di entrambi, più il senso della realtà e del limite. Cercare nuove sintesi, audaci pensieri ancora intentati.
Perciò io dico che l’Occidente non va benedetto né maledetto, va capito, studiato e scomposto nelle sue parti. Perché non è il mondo e non è più il sistema-mondo ma una porzione del mondo, neanche preponderante; non può ergersi a giudice supremo del pianeta. Quel che descrive puntualmente Rampini è accaduto fino al secolo scorso; ma ora lo scenario è più vasto e articolato, le potenze mondiali in campo economico e tecnologico sono più altrove, come altrove è il grosso della popolazione mondiale. C’è più vita fuori dall’Occidente. E va rimesso in discussione come categoria unitaria perché di occidenti ce ne sono almeno tre e non concordano, neanche sul piano geopolitico e strategico, nei loro interessi primari. Stiamo alimentando la guerra alla Russia con le nostre armi e le nostre dichiarazioni e stiamo facendo precipitare la situazione in Medio Oriente col nostro disarmo e il nostro silenzio sugli eccidi, le incursioni in territori stranieri e le stragi di civili. Stiamo rischiando di intraprendere una via senza ritorno.
Insomma, è giusto che l’Occidente non si vergogni di se stesso, e riscopra la sua civiltà nata dalla grecità, dalla romanità e dalla cristianità; ma svegli la coscienza critica di se stesso, sappia ripensarsi e riconoscere il mondo mutato che lo circonda. Questo significa andare verso la realtà del mondo i oggi, oltre l’occidentalismo globale.

Marcello  Veneziani            

Giornata mondiale dei sogni ,celebrare la forza di sognare in grande ,ossia riscoprire l’importanza dei sogni, come strumenti di crescita personale e di cambiamento per un futuro migliore…

 

Il 25 settembre si celebra la giornata mondiale dei sogni, un evento dedicato a una delle forze più potenti e affascinanti della vita umana: la capacità di sognare. Questo giorno speciale ci invita a riflettere sul valore dei sogni, non solo come fughe dalla realtà, ma come strumenti fondamentali per il cambiamento, l’autorealizzazione e la crescita personale. Quindi non solo desideri notturni.
Quando pensiamo ai sogni, spesso li associamo ai viaggi che la nostra mente compie durante il sonno. Tuttavia, i sogni più potenti sono quelli che ci spingono ad agire nella vita quotidiana. Sono quei desideri profondi che nutrono la nostra immaginazione e ci motivano a migliorare noi stessi e il mondo intorno a noi. Sognare significa credere in un futuro migliore, anche quando le circostanze attuali sembrano scoraggianti.

Nel mondo frenetico di oggi, sognare può sembrare un lusso ,sopraffatti da impegni, preoccupazioni e responsabilità che ci lasciano poco spazio per coltivare i nostri desideri più intimi. Eppure, la giornata mondiale dei sogni ci ricorda che prendersi del tempo per sognare è fondamentale. I sogni ci offrono una direzione, ci danno speranza e ci ispirano a raggiungere obiettivi che sembravano impossibili.
Sognare è umano: una forza universale che tutti, senza distinzione di età, genere o cultura. Dai bambini che immaginano mondi fantastici, agli adulti che sperano in una vita migliore per sé e per i propri cari, il sogno è una forza universale che ci accomuna. Ci permette di esplorare possibilità senza limiti, di pensare oltre i confini del quotidiano, di sfidare la realtà con la creatività.
Le grandi innovazioni del passato sono nate da sogni apparentemente irrealizzabili. Figure storiche come Martin Luther King, che nel suo celebre discorso parlò di un sogno di uguaglianza e giustizia, ci ricordano come un sogno condiviso possa cambiare il corso della storia. Anche le più piccole conquiste quotidiane, dalle relazioni personali alla carriera, nascono spesso da un sogno che qualcuno ha avuto il coraggio di seguire.

I sogni sono anche la strada che ci porta verso noi stessi e non solo ad ambire a grandi traguardi esterni. Sono un viaggio verso la scoperta di chi siamo davvero e di ciò che desideriamo profondamente. Nei sogni, possiamo esplorare i nostri bisogni emotivi, affrontare le nostre paure e sviluppare una visione più chiara del nostro futuro.

Per i bambini, sognare è parte integrante del loro sviluppo. Attraverso la fantasia, apprendono a conoscere il mondo, a risolvere problemi e a immaginare possibilità. Per gli adulti, invece, sognare può diventare un esercizio di riflessione e introspezione, un modo per mantenere viva la curiosità e la voglia di esplorare nuove strade.

La giornata mondiale dei sogni è un invito all’azione,un’occasione per fermarsi e chiedersi: quali sono i miei sogni? Li sto coltivando o li ho abbandonati lungo la strada? A volte, nella vita, perdiamo di vista i nostri desideri più autentici, schiacciati dal peso delle responsabilità quotidiane. Ma questa giornata ci incoraggia a riprendere in mano i nostri sogni, a credere nella possibilità di realizzarli e a fare passi concreti verso la loro realizzazione, che siano sogni personali, professionali o collettivi. Oggi è il giorno giusto per riscoprire l’entusiasmo e la determinazione necessari per trasformarli in realtà. Non importa quanto grande o piccolo sia il sogno.

Uno degli aspetti più belli della giornata mondiale dei sogni è la possibilità di condividerli
per il raggiungimento dei nostri obiettivi, e sognare insieme ci aiuta a costruire comunità più forti, basate su obiettivi comuni.

Che si tratti di un sogno di giustizia sociale, di una carriera soddisfacente o di una famiglia felice, i sogni sono tanto più potenti quanto più li condividiamo con chi ci sta vicino. E chissà, forse proprio grazie al confronto con gli altri, quei sogni che ci sembravano irrealizzabili troveranno una strada per diventare parte della nostra realtà.

sintesi da un’articolo di Altea Giuriato

 

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Sentirsi come l’ultimo dei Mohicani in libreria…

Cosa c’entrano i Meridiani con le librerie di oggi, con i lettori di oggi? Il lungo scaffale dei libri prenotati, dietro la cassa, mi fa temere di essere l’unico cliente interessato alle collane di classici.

Sono l’ultimo dei Mohicani? L’ultimo acquirente dei Meridiani? Vado in libreria a ritirare il Meridiano Chiaromonte e mi guardo intorno: cosa c’entrano i Meridiani con le librerie di oggi, con i lettori di oggi? Il lungo scaffale dei libri prenotati, dietro la cassa, mi fa temere di essere l’unico cliente interessato ai Meridiani Mondadori. In questa libreria, in questa città, in questa nazione, in questo pianeta. E dico Meridiani Mondadori ma potrei dire anche Millenni Einaudi, Nave Argo Adelphi, tutte le residue collane di classici. Poi certamente me la sono andata a cercare: una cosa è il Meridiano Ungaretti, altra cosa è il Meridiano di Nicola Chiaromonte, saggista troppo saggio, troppo pacato… Quante copie ne avranno vendute? In Mondadori non sono scemi, conoscevano perfettamente il potenziale di un titolo simile, zero, dunque le case editrici fanno ancora, a volte, scelte non commerciali bensì squisitamente culturali. Ci sarà un ultimo dei Mohicani anche in Mondadori. Intanto prendo il libro, 1.820 pagine, prezzo di copertina 80 euri (68 con lo sconto), e mi domando: ha senso ostinarsi a parlare una lingua morta? Non dovrei leggere anch’io “Il canto dei cuori ribelli”?

Camillo Langone

meridiani

Bambino, non puoi usare lo smartphone…

 

 

Sarebbe una grande vittoria a tutela dell’infanzia se si riuscisse davvero a vietare ai minori di 14 anni l’uso dello smartphone. E proibire fino a sedici anni di aprire un profilo sui social. La proposta, con la relativa raccolta di firme, è partita da due pedagogisti, Daniele Novara e Alberto Pellai, ed è stata subito sposata da attori, intellettuali e personaggi pubblici. Sarebbe un modo per restituire personalità in via di formazione al loro decorso reale, naturale e culturale: prima passi da bambino ad adolescente vivendo la piena e plurale esperienza della vita e poi, quando sei pronto e già navigato nella realtà, puoi usare la tecnologia e infine ti imbarchi in età più matura nel mare tempestoso dei social. Sarebbe un modo per spingerli a conoscere la vita direttamente, gradualmente e con più supporti, senza la mediazione di un solo totem in forma di telefonino; e con la vita incontrare la varietà dei saperi, le esperienze reali sul campo, i rapporti sociali con la i finale; la prossimità, i libri, le visite ai luoghi d’arte, storia e cultura; insomma per conoscere il mondo reale che ti sta intorno. E avere termini di paragone tra il reale e il virtuale, tra il prossimo e il remoto, tra la vita e i mezzi tecnologici; e per affrontare con più ricchezza di esperienze e meno dipendenze, il passaggio all’età adulta.
Certo, il divieto non passerebbe così facilmente, senza reazioni e contrasti, anzi ci sarebbe sicuramente un’insubordinazione diffusa, dagli esiti imprevedibili. C’è il pericolo di reazioni estreme dei ragazzi, come il caso della tredicenne di Perugia suicida dopo che i genitori le avevano tolto il telefonino. C’è la scusa delle madri che il telefono dà sicurezza, rende i minori rintracciabili e controllabili. Certo, senza telefonino compenserebbero con la tv o il pc usato come tablet; la dipendenza slitterebbe su altri mezzi. Certo, si può diventare phone-dipendenti anche in età adulta, e perfino in età senile, come capita a molti che non sono nativi digitali ma ci sono arrivati in tarda età e non ne possono più fare a meno. Dunque, è possibile che si tardi solo di qualche anno la patologia della dipendenza dal telefonino.
Ma quando si è piccoli, quando si ha poca vita alle spalle, la personalità è più influenzabile, più fragile e suggestionabile. E agli adulti, al di là della retorica della libertà, vietato vietare e autonomia assoluta e universale, minori inclusi, tocca invece il compito di educare, e dunque di porre limiti e anche divieti, guidare, dare indicazioni ai minori.
Perché prima dei 14-15anni, spiega il pedagogista Novara «il cervello emotivo dei minori è molto vulnerabile all’ingaggio dopaminergico dei social media e dei videogiochi». E prosegue: «Non è un appello simbolico, né una provocazione. Ci siamo confrontati con politici e istituzioni e c’è un consenso trasversale, da sinistra a destra. I tempi sono maturi, contiamo che l’Italia sia il primo Paese a dare una svolta. Non possiamo stare a guardare un’intera generazione annegare negli smartphone. La situazione è fuori controllo». Gli esperti nel loro appello fanno notare: “La nostra non è una presa di posizione anti-tecnologica ma l’accoglimento di ciò che le neuroscienze hanno ormai dimostrato: ci sono aree del cervello, fondamentali per l’apprendimento cognitivo, che non si sviluppano pienamente se il minore porta nel digitale attività ed esperienze che dovrebbe invece vivere nel mondo reale”.
Massimo Gramellini sul Corriere della sera, pur sottoscrivendo idealmente l’appello, lo reputa impraticabile e auspica, anziché il divieto, l’invito a un uso più responsabile dello smartphone: ma quando si scende al livello di esortazioni (o al più all’attivazione del “parental control”) tutto si perde nel vago delle raccomandazioni, del tipo vai piano, non bere troppo, stai lontano dalla droga. Non serve a niente se non a sollevare la coscienza delle anime belle e poi lasciare le cose come stanno. Salvo dire: Io gliel’avevo detto… E’ vero, è difficile imporre oggi un divieto, e di quel tipo, per giunta; più difficile ancora è farlo davvero osservare. Quel divieto dovrebbe rientrare in una riforma-rivoluzione nell’educazione dei bambini e degli adolescenti e nei rapporti sociali di portata ben più ampia e radicale. Ammirevole il proposito di evitare l’uso degli smartphone a scuola ma non basta per rendere veramente efficace un ripensamento radicale dalla loro dipendenza.
Un divieto di questo genere dovrebbe essere esteso al resto d’Europa e nel mondo, per essere più efficace. Non mancano però iniziative analoghe in altri paesi: per esempio è sorto un movimento fondato da due mamme inglesi, il gruppo conta oltre 100mila adesioni e si espande anche negli Stati Uniti. Oltre a nuove leggi, sostengono, è necessario l’impegno delle Big Tech; difficile però chiedere alla grande industria della telefonia mobile di autolimitare le possibilità di vendita e di profitto nel nome di una campagna etica e pedagogica. Più realistico pensare che siano gli stati, le istituzioni, i governi, ad affrontare il problema con leggi, campagne e strategie mirate.
Infine colpisce una cosa: quando si tratta di affrontare temi reali di vasta portata sociale, la politica è un passo indietro, anziché farsi promotrice viene trascinata e s’impegna solo se trova una convenienza immediata di tipo elettorale o politico; per raccogliere voti, intercettare movimenti, mettere in difficoltà il governo in carica e trattare con grandi aziende del settore.
Previsione finale: temo che non se ne farà nulla.

 Marcello   Veneziani                                                                                                                                                              

La lingua e il mio posto nel mondo…

In Alto Adige, senza il patentino di bilinguismo italiano-tedesco, sei praticamente un fantasma nel mondo del lavoro. Pubblico impiego? Scordalo. Para-pubblico? Niente da fare. Privato? Non pervenuto. Insomma, se il tedesco non è il tuo miglior amico, scordati di fare il medico, l’infermiere, l’insegnante (anche se insegni la tua lingua madre), il postino, il commesso… qualsiasi cosa. Per me, cresciuta con l’italiano, l’apprendimento del tedesco è stato inevitabile. È fattibile, certo, ma quale tedesco, esattamente? L’ho scoperto una delle prime volte che, ormai maggiorenne, mi sono avventurata in Val d’Ultimo, dove il mio ragazzo di allora prestava servizio come Carabiniere. Lui, il Maresciallo e il Brigadiere della stazione erano gli unici italiani del posto. Da innamorati sognanti, avevamo programmato una romantica escursione in malga: mano nella mano, zainetto in spalla. Boschi, prati, fiori e torrenti: uno spettacolo! Ma qualcosa andò storto. Niente cellulari, satelliti, o Google Maps: solo una cartina e il nostro – scarso – senso dell’orientamento. Dopo un lungo tratto di bosco a dir poco incantevole, ci rendemmo presto conto di esserci persi. «Torniamo indietro, forse abbiamo sbagliato al bivio di prima,» disse lui, che di nome faceva Michele. Facemmo avanti e indietro, più e più volte, finendo sempre allo stesso punto. L’ansia cominciò a prendere piede, complice l’orologio che segnava le quattro del pomeriggio e l’ombra della sera che si allungava. E il freddo. Ricordo che iniziai a sentire prima la sete, poi la fame, e infine persino il sonno. Ma soprattutto, sete. La gola arsa era una sensazione orribile. A un certo punto ci ritrovammo su un pendio dove un uomo anziano ci osservava come fossimo due alieni appena atterrati da Marte. Lo avvicinai, chiedendogli aiuto in un impeccabile Hochdeutsch scolastico. Mi rispose in una lingua mai sentita prima. «È dialetto locale,» disse Michele. «Ah sì? E tu lo capisci?» Michele scosse la testa. Senza acqua e disperati, riuscimmo a fargli capire che avevamo bisogno di un passaggio. In qualche modo si convinse che eravamo a posto e forse impietosito ci fece salire sul suo trattore e ci scaricò in paese. Alla prima fontana, mi immersi come un’assetata nel deserto. Quella sera, raccontai l’avventura ai miei genitori. «Che lingua ho imparato a scuola se non mi serviva a parlare con la gente della mia stessa terra?» chiedevo. Chi ero? Dove vivevo? Possibile che ci fosse gente che non sapeva l’italiano? E gente come me che non parlasse la lingua del posto?

Mio padre mi raccontò di Mussolini. Sapevo già che la mia provincia era speciale, ma non fino a quel punto. Decisi che era giunto il momento di capirci qualcosa di più. Per diciotto anni avevo vissuto a Bolzano, in una specie di bolla; una città dove tutti parlavano italiano. Iniziai a studiare quello che a scuola nessuno mi aveva mai spiegato bene: la guerra, il fascismo, l’italianizzazione forzata, il terrorismo degli anni Sessanta. E degli italiani immigrati da varie regioni, proprio come i miei nonni, che sono rimasti una minoranza. La lingua ufficiale è l’Hochdeutsch, ma solo una minima parte della popolazione lo parla. La maggior parte delle persone parla dialetti: diversi da una valle all’altra. Ero scioccata. Il tedesco che avevo imparato a scuola così faticosamente serviva solo per ottenere il famoso patentino, ma sul lavoro non lo avrei mai usato perché nessuno lo parlava. Il senso di smarrimento, di sentirsi apolide nella propria terra, è germogliato allora e non ha mai smesso di crescere. L’unico modo per affrontarlo, forse, è stato leggere tutto ciò che potevo sulla storia della mia terra: ma era davvero «mia»? Volevo scoprire come si erano sentiti i miei nonni prima di me: sapevano di vivere in un’enclave? Sapevano che tre quarti della popolazione altoatesina era tedesca e che solo una minima parte parlava italiano? Come si erano sentiti? E io, come mi sentivo? Leggere, capire, studiare, non bastava: dovevo raccontare.

Ancora oggi non so rispondere a queste domande con precisione. A chi dice «state bene voi lassù, in Alto Adige, con la vostra autonomia e tutta la ricchezza delle Dolomiti,» vorrei rispondere «se solo sapessi… le nostre scuole sono ancora separate per lingua.» Ma poi sorrido, ci penso e mi rendo conto che, in fondo, non è poi così male. Grazie a quella tragica giornata in montagna, mio marito ed io abbiamo fatto scelte diverse da quelle dei miei genitori e i nostri figli oggi sanno parlare Hochdeutsch, i dialetti locali a altre due lingue straniere. Ma il bisogno di raccontare dell’Alto Adige con tutta la sua storia e le sue contraddizioni non mi è ancora passato.

Katia Tenti      

apolide

Katia Tenti è in libreria con “E ti chiameranno strega” (Neri Pozza)