Verità e libertà nascono e muoiono insieme…

 

Come se la passano la verità e la libertà nel nostro tempo? L’una è negata nel nome dell’altra ma entrambe sono tradite sul piano pratico. L’altro giorno mi è stato chiesto di affrontare il rapporto tra Libertà e Verità alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, dialogando col card. Angelo Bagnasco (incontro organizzato da Fare bene e concluso degnamente dal cardinale).
Viviamo nell’epoca della verità relativa e della libertà assoluta. Il sottinteso di ogni discorso pubblico, o l’enunciato di partenza, è in questo doppio preambolo: la verità non esiste, ma esistono tante verità, provvisorie e soggettive (relativismo); la libertà è il bene assoluto per eccellenza, sciolto da tutto, premessa di tutto; nulla precede, delimita, contiene la libertà che alla fine coincide con l’autorealizzazione: io sono ciò che voglio essere.
Non più l’evangelico “la verità vi renderà liberi” ma il suo rovescio, la libertà vi renderà veri, ossia come voi vi sentite e/o volete essere.
Ma la libertà in sé non ci conduce alla verità, perché la libertà ci apre al vero come al falso, al bene come al male, al giusto come all’ingiusto: ci dà la possibilità di conoscere e amare il vero ma anche di negarlo e calpestarlo.
Strada facendo, calandosi nella vita reale, la libertà assoluta come la verità relativa vengono tradite: da un verso l’assenza di verità e il proliferare di tante verità alla fine soccombono alla verità del più forte, ossia di chi dispone di mezzi più efficaci per imporre la sua verità. E dall’altro verso la libertà assoluta e illimitata si rovescia nel suo contrario, seguendo la china che già Platone aveva previsto, dall’anarchia al dispotismo: dove la libertà è assoluta, cioè senza limiti e senza freni, si rovescia nella tirannide o nei suoi parenti minori, l’intolleranza, la censura, l’egemonia del più forte o ancora di chi dispone di maggior forza. Al posto della verità e della libertà sorgono i surrogati che confluiscono nel conformismo, negazione della libertà come della verità: ossia l’adeguarsi alla tendenza generale e alle prescrizioni del potere. Il conformismo è la caricatura della verità: se la verità è, come diceva S. Tommaso, adaequatio rei et intellectus, ossia il combaciare della realtà con l’intelletto, il conformismo è l’adeguarsi dell’intelletto alla norma fittizia di un canone ideologico che corregge la realtà. Da cui deriva il nuovo bigottismo fondato sull’ipocrisia, cioè sulla falsificazione della realtà. Addio verità, addio libertà.

La verità, secondo i greci, è Aletheia, che non vuol dire solo rivelazione, svelamento, non-nascondere; ma vuol dire anche non dimenticare (il lete era il fiume dell’oblio che fa dimenticare la vita precedente); conoscere è ricordare, diceva Platone. E ricordare culmina nel tornare all’origine.
Scrive Pavel Florenskij: “Io non so se la Verità esista o meno, ma con tutto il mio essere sento che non posso farne a meno, so che, se esiste per me è tutto: ragione, bene, forza, vita, felicità. Forse non esiste ma io l’amo più di tutto ciò che esiste, mi unisco a lei come a tutto ciò che già esiste, e anche se non esistesse, l’amo con tutta l’anima e con tutta la mente, per lei rinuncio a tutto, perfino ai miei quesiti e ai miei dubbi” (La colonna e il fondamento della verità). Dostoevskij dice che se dovesse scegliere tra Cristo e la Verità sceglierebbe Cristo; Padre Pavel sceglie la Verità, sapendo che Cristo coinciderà con lei. Non può essere altrimenti per un vero cristiano.
Perché la verità è impossibile a conoscersi ma necessaria; la verità risplende (Veritatis splendor, secondo l’enciclica di Giovanni Paolo II) ma il suo fulgore acceca, rende il mondo visibile ma in sé è invisibile. La verità rischiara il mondo ma non possiamo fissarla e conoscerla se non attraverso i suoi raggi.
Sul piano della realtà, la libertà e la verità devono misurarsi con le imperfezioni, i limiti, le contraddizioni della vita reale. E questo significa due cose. Da una parte la verità esiste, è il fondamento della realtà e la matrice dell’essere ma è inconoscibile per intero, nessuno ne detiene il pieno possesso e tantomeno il monopolio; è un mistero. Nessuno possiede la verità ma la verità possiede noi, avrebbe detto Ratzinger. Per gli uomini la verità è una ricerca, un anelito e una parziale conquista: se, come sosteneva Vincenzo Gioberti, la verità è un poligono dagli innumerevoli lati, agli uomini è consentito solo conoscere alcuni aspetti del vero; solo Dio può conoscere per intero la verità. L’uomo deve dunque accontentarsi del certo, direbbe Vico, ovvero dell’evidenza della realtà e delle verità derivate dall’esperienza, dal sentire comune delle genti, dalla tradizione e dalla storia. L’uomo può solo testimoniare l’amor del vero e la sua ricerca incessante. La verità non è figlia del tempo (veritas filia temporis), perché se lo fosse sarebbe deperibile, provvisoria, momentanea. Semmai, la verità è figlia delle nozze tra il tempo e l’eternità.
Dall’altra parte, la nostra libertà non è mai assoluta, perché non siamo dèi e non disponiamo del mondo: la libertà è sempre in relazione agli altri, ha bisogno di limiti, confini e misura, non può mai prescindere dalla realtà, dalle condizioni di vita, dalla relazione con gli altri, dal contesto. La libertà non nega il vero, non cancella o abolisce la realtà nel nome dei propri desideri; è una tensione tra diritti e doveri, limiti e opportunità; e la libertà di ciascuno è limitata dalla libertà degli altri, rispetto a cui non può prevaricare.
Non esiste solo la libertà da qualcuno e da qualcosa, ossia la libertà come emancipazione, liberazione, non impedimento; e non esiste solo la libertà di dire, di fare e di avere, ossia la libertà come facoltà di agire e pensare; ma esiste anche la libertà per qualcosa che dà sostanza, senso e qualità alla libertà: come usi la tua libertà, cosa intendi farne? Esiste anche una libertà distruttiva e autodistruttiva che non può essere consentita.
Anzi, la libertà in sé non è un valore, e tantomeno un valore assoluto, ma è la condizione necessaria per scegliere i valori. È come l’aria, l’ossigeno, che non può essere lo scopo della vita, ma è la condizione necessaria per vivere.
Insomma, la libertà è un mezzo, la verità è un fine; un mezzo necessario per un fine trascendente. La libertà senza la verità si rovescia nel suo contrario, è imposizione e impostura. Ma anche la verità senza la libertà si rovescia nel suo contrario, è imposizione e impostura. Se sparisce l’una, finisce l’altra.
Anzi per dirla nello spirito natalizio, la nascita dell’una è premessa alla nascita dell’altra.

Marcello Veneziani

“La storia di come l’Italia si gettò con troppa fretta nell’avventura dell’euro”

“La storia di come l’Italia si gettò con troppa fretta nell’avventura dell’euro”

Nella metà degli anni Novanta si comincia ad affermare sempre più intensamente, ma informalmente attraverso la stampa e dichiarazioni pubbliche: l’Italia deve entrare in Europa. Nella crisi dei primi anni del decennio eravamo stati espulsi dal Sistema con una violenta svalutazione della lira. La debolezza della nostra moneta tendeva a riapparire, sia pure alternata a periodi di stabilità, nel corso del 1993 e del 1994. Nella crisi del 1992 la svalutazione della nostra moneta si era verificata nonostante un cospicuo aiuto – previsto dal regolamento dello Sme – ottenuto principalmente dalla Bundesbank per circa 20 miliardi di marchi, nonché un aiuto della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, per un miliardo di dollari. Il livello dei rendimenti dei nostri titoli di Stato a lungo termine si distaccava progressivamente e notevolmente da quello dei titoli degli altri Paesi fino a raggiungere in alcuni giorni un divario rispetto ai titoli tedeschi tra 800 e 900 punti percentuali. Pongo in atto preventivamente e in modo progressivo una restrizione con la dichiarata intenzione di ricondurre l’inflazione al di sotto del 4 per cento. L’azione di restrizione fu posta in atto attraverso i tassi di finanziamento concessi dalla Banca d’Italia alle banche e limitando drasticamente la creazione di base monetaria.
Nel giro di pochi mesi il cambio migliorò scendendo molto al di sotto delle mille lire per marco. Il divario rispetto ai titoli tedeschi dei nostri buoni del tesoro pluriennali si ridusse da circa 900 punti a 200 punti. Nel giro di circa due anni i prezzi dei beni di consumo discesero al di sotto del 2 per cento all’anno. Esistevano quindi le condizioni di prezzi, cambio, tassi di interesse per far parte della moneta comune, ma non le altre condizioni formalmente richieste dagli accordi per la partecipazione in materia di debito pubblico. Si decide a livello di Governo di rientrare nello Sme, ricostituito dopo la crisi dei primi anni Novanta. La partecipazione allo Sme per due anni almeno era necessaria per poi far parte del progetto della moneta comune. Continua a livello politico l’enfasi: «Dobbiamo andare in Europa». Il rientro nello Sme avviene naturalmente ai tassi di cambio stabilizzati dopo la crisi del 1992. All’insistenza di dichiarazioni pubbliche e politiche più o meno informali obietto: «Ma non siamo già in Europa? Siamo stati tra i fondatori». A quel punto non mi coinvolgono più nelle discussioni e quindi nelle decisioni. Il regime delle monete nazionali, nei confronti delle altre monete, è prerogativa istituzionale del Governo. Almeno indirettamente, quindi del Parlamento. Al governatore spetterà poi la pratica conduzione della politica monetaria e quindi del cambio. Il governatore può dire «non sono d’accordo» e dimettersi oppure affermare che per dovere del ruolo faccio ciò che mi si chiede. Ritenevo che sarebbe stato opportuno quantomeno attendere per entrare nella moneta comune, ma la decisione politica era esplicitamente orientata per una adesione immediata al sistema. La politica monetaria aveva svolto, come detto sopra, i suoi compiti di stabilizzazione del cambio e di riduzione del forte spread tra titoli pubblici italiani e titoli pubblici tedeschi che aveva raggiunto in alcuni giorni 900 punti. I controllo del credito aveva drasticamente frenato l’inflazione. Non aveva potuto certamente ridurre il rapporto tra debito pubblico e Prodotto interno lordo al di sotto del 60 per cento, rapporto richiesto per partecipare alla moneta comune. Bisognava mettere in atto politiche volte ad aumentare la produttività dell’industria e in generale a ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto.
Nella riunione informale, drammatica, della notte del 25 marzo 1997 del Consiglio dei Governatori a Francoforte, quando si discute di quali Paesi abbiano i requisiti per partecipare all’euro, il Belgio e l’Italia non hanno i requisiti. Sono fuori per l’eccesso di debito pubblico. La Grecia ha deciso di attendere almeno un anno prima di entrare. Eravamo in quindici allora, il Regno Unito decide di non partecipare, indefinitamente; la Danimarca e la Svezia rinviano la decisione di partecipare. Perché l’Italia non può partecipare alla moneta comune? Perché il rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo è molto al di sopra della soglia richiesta nel Patto di Stabilità e Crescita, né c’è una tendenza alla diminuzione. Obietto: «Cari amici governatori, io non ritengo di poter dare il mio assenso a questa posizione poiché se domani si scrive nel Rapporto (cosiddetto) di Convergenza che l’Italia non partecipa verrà attaccata la lira sul mercato dei cambi. Salterà probabilmente il Sistema Monetario Europeo e verrà meno l’avvio dell’euro. Non è una minaccia, è analisi economica». Segui una lunga animata discussione. Nel rapporto si finirà per scrivere che l’Italia è molto preoccupata del suo elevato debito pubblico. Era mezzanotte, non potevo consultare nessuno a Roma; redigo un piano pluriennale di rientro del debito pubblico, ricollegandomi ad alcune analisi elaborate nel Servizio Studi della Banca, principalmente dal dottor Morcaldo. Mi impegno a proporlo al Governo per farlo diventare operativo. In giugno dello stesso 1997, chiamato in Parlamento, accolto favorevolmente di fronte alle Commissioni competenti del Senato e della Camera, illustro i problemi, i dibattiti, le conclusioni. Mi si chiede del perché del mio atteggiamento negativo circa l’entrata, fin dall’inizio, nella moneta comune. Rispondo: «La politica monetaria che ho attuato nel corso degli anni Novanta era volta a stabilizzare il cambi della lira, a ridurre l’inflazione e lo spread. Non ho posto in atto né consigliato alcun macello in termini di politica economica». Il banchiere centrale aveva in ogni caso il dovere di condurre le politiche che ho descritto, indipendentemente dal partecipare o meno alla moneta comune. Spiegai ancora: «Entriamo, ma il problema è come restare nell’euro. Quando si perde la manovra del cambio, si deve riacquistare flessibilità nel costo del lavoro e nella finanza pubblica, flessibilità che permetta di rimanere competitivi». Affermo quindi in Parlamento: «Non avremo più i terremoti monetari, ma avremo una sorta di bradisismo economico. Sapete cos’è il bradisismo? È il terreno che si abbassa gradualmente sotto il livello del mare, come avviene a Pozzuoli. Ogni anno perderemo qualcosa in termini di crescita rispetto agli altri Paesi».

Il 7 luglio del 1997 viene approvata – non è chiaro a quale livello istituzionale – e quindi pubblicata la Regola 1466.

Antonio Fazio

*Ex governatore

della Banca d’Italia

 Chi ha letto questo articolo  avrà capito come tutto quello che ci viene propinato, studiando ,oppure semplicemente leggendo la Storia di un paese, sia da prendere con le molle, come le notizie dei giornali o peggio ancora, dei social- La verità si trova sempre soltanto nei documenti autentici, ma letti da noi, e non manipolati dagli scrittori che ci narrano la Storia. Se volete un esempio, leggete in parallelo Mussolini, visto da  Scurati e  visto da Vespa. Eppure entrambi hanno scritto basandosi su documenti. Non dimenticate come  Fazio pagò a caro prezzo queste sue idee a livello politico e personale. Coinvolto in malaffari , fini in giudizi, che si risolsero con piene assoluzioni, ma di questo poco si parla in  questo paese.Titoloni per diffamare, silenzio o poche righe a fondo pagina , per riabilitare.

 

euro

I partiti ci vogliono politicanti a tavola: ecco cosa raccontare per spegnere i bollenti spiriti.

Vino e vacanze, gli argomenti migliori per non parlare di politica al cenone. Contro il vademecum del Pd “per sopravvivere ai parenti di destra”

Per essere sicuri di sopravvivere al cenone non bisogna partecipare al cenone, è questo il metodo perfetto che ho messo in pratica tante volte, cena normale e a letto presto e il primo giorno dell’anno ci si sveglia riposati, senza mal di testa, bocca impastata, bruciore di stomaco. Ma la gente non rinuncia a imbrancarsi, ad affollarsi intorno a un tavolo per mangiare male e bere peggio, rischiando di litigare. Ecco dunque il maligno vademecum Pd su come aizzare la tavolata fra il salmone e lo zampone: “Qualche spunto per sopravvivere a parenti un po’ di destra”. I Fratelli d’Italia hanno prontamente reagito con un controvademecum per rintuzzare i convitati antimeloniani. Su clima, sanità, immigrati, gender, temi che renderebbero indigeribile un riso in bianco. Per uscire dall’ottuso dualismo sinistra/destra ci voleva Gianfranco Rotondi: “Chi crede nel Natale non fa politica a tavola”. Oh gran saggezza dei democristiani antiqui! Nemmeno a Capodanno e all’Epifania, aggiungo io che attingo alla buona cara vecchia educazione secondo la quale a tavola non si parla di politica, non si parla di sesso, non si parla di soldi, non si parla di salute, non si parla di nulla che possa risultare problematico e gastritico.Ma come gli è venuto in mente a quelli del Pd di ridicolizzare un rito sociale? E’ più forte di loro, sono dei dissacratori, anche a costo di perdere altri voti. Quanti italiani sentono il bisogno di trasformare in rissa, sebbene solo dialettica, una cena con amici o famigliari? Giusto quattro fanatici democratici, malati di saccenza, afflitti da un immotivato complesso di superiorità che qui si mostra dando ai parenti “un po’ di destra” le fattezze di certi personaggi di Harry Potter chiamati babbani, e fra babbani e babbioni il passo è breve e insomma chi non è di sinistra sarebbe un sorpassato.

 Non è proprio il caso di analizzare contestazioni e confutazioni, in Italia (solo in Italia?) la politica è partitica e la politica partitica è tifo. Non esistono argomenti capaci di convincere un romanista a diventare laziale o viceversa. La logica non può nulla contro l’irrazionale, chi è convinto che un presidente del Consiglio possa modificare il clima ossia temperatura, umidità, pressione atmosferica, intensità della radiazione solare, precipitazioni, nuvolosità, vento, è precipitato nel pozzo del pensiero magico e per estrarlo da lì non so se basterebbe un esorcista. Lasciate quindi perdere gli stratagemmi “per ottenere ragione” di Schopenhauer, filosofo iracondo che qualcuno ha stoltamente tirato in ballo. L’obiettivo non dev’essere l’ottenere ragione ma l’ottenere sbadigli: bisogna parlare di vino. “Wine is boring”, dicono in America, ed è il suo bello. Il vino è noioso ovvero tranquillizzante. Se fra primo e secondo un parente nemico della patria osa evocare i cosiddetti centri migranti d’Albania bisogna riempirgli velocemente il bicchiere e seppellirlo con un discorso su vitigni, fermentazioni, filtrazioni. Nessuno ne sa niente, nemmeno coloro che hanno fatto il corso da sommelier, da roteatore di bicchiere. Io parlo spesso di lieviti indigeni, di rifermentazioni in bottiglia, e ogni volta annoio come la prima volta.  Può darsi che nemmeno l’amico lettore sappia molto di vino e non sia in grado di attuare tale tattica. E allora non esiti a introdurre l’argomento vacanze: dove sei stato in vacanza? Dove andrai in vacanza? Tutti saranno felici di parlare di voli, alberghi, agenzie, spiagge, musei, montagne… Non ho mai fatto un giorno di vacanza in vita mia e prego di proseguire così fino alla fine, e però sentir parlare di soggiorni blandamente, serialmente esotici mi induce un piacevole torpore. Credo sia un effetto comune, le vacanze altrui rilassano più delle proprie. E se invece queste semplici istruzioni non vi bastano, se ancora non vi sentite tranquilli, evitate la polemica ab origine. Se il metodo più sicuro per sopravvivere al cenone è non partecipare ad alcun cenone, quasi altrettanto valido è il metodo di circondarsi di democristiani: difficile litigare con Rotondi, impossibile litigare con Casini, il commensale ideale.

Camillo Langone__da__IL FOGLIO

cenone

Perchè siamo alla fine della Storia…

Image_0© REUTER
Chissà se un giorno qualche storico del futuro ricorderà il 2024 come un anno cruciale per le sorti del pianeta. Di certo, per chi lo ha vissuto, è parso incarnare appieno i profondi cambiamenti in atto, almeno in Occidente. Basti pensare al numero di elezioni politiche che ha ospitato: tra i principali appuntamenti, si sono svolte consultazioni in Francia, Austria, Belgio, Stati Uniti, Giappone, oltre al rinnovo del Parlamento europeo. In gran parte delle tornate elettorali, si è registrato il successo, o comunque una significativa affermazione, dei partiti più radicali, situati agli estremi dello spettro politico, sia a destra che a sinistra. La crescita di AfD e del partito di Sahra Wagenknecht nei Länder tedeschi, i successi di Le Pen e Mélenchon in Francia, il trionfo di Donald Trump negli Stati Uniti sono solo alcuni degli esempi più eclatanti.
 Risultati che, anziché indicare l’esistenza di una «internazionale sovranista», come qualcuno l’ha definita, sembrano piuttosto suggerire l’emergere di una «internazionale degli antagonisti», tenacemente contrapposti all’ordine politico-culturale finora esistente. A legare i suoi membri non è tanto un’ideologia economica o sociale — conservatrice o populista che sia — quanto il rifiuto di un modello che, nei fatti, appare oggi in crisi.

Uno spirito di rottura che cresce in maniera sempre più pervasiva, mostrando, come mai prima d’ora, una chiara volontà di cambiamento: per qualcuno positiva, per molti spaventosa. La paura non deriva solo dall’incertezza su come si comporteranno le nuove forze, ma da una crescente percezione che, da questi stravolgimenti, con tutta probabilità, non emergerà un assetto stabile e definito. O almeno non nel prossimo futuro. Una prospettiva più angosciosa della «semplice» fine di un’epoca: a traumatizzarci è ancor più la comprensione che stia venendo meno ciò che ci sembrava eterno e indistruttibile

Un’idea che affonda le radici nel passato: nel suo saggio del 1992, La fine della Storia e l’ultimo uomoFrancis Fukuyama individuava nella caduta dell’Urss la conclusione di un lungo percorso storico, che per millenni aveva visto le diverse fazioni umane scontrarsi per il predominio del mondo, fino a ridursi a un solo vincitore: l’Occidente liberale. La tesi di Fukuyama suscitò subito obiezioni, ma rispecchiava l’ottimismo culturale appartenente a quell’epoca: eliminato il pericolo dell’autodistruzione nucleare, sembrava che stesse per aprirsi un’era di prosperità globale, garantita dai valori liberal-democratici. Certo, il processo non era completo: esistevano realtà in cui i benefici di questo nuovo corso non erano ancora arrivati, ma si credeva fermamente che, presto o tardi, tutti avrebbero raggiunto quella maturazione. L’errore non è stato sognare che ciò fosse possibile, ma addormentarsi nell’illusione che il modello si sarebbe auto-perpetuato come un eterno punto di riferimento per l’umanità. Nel nostro sonno, ci siamo dimenticati che i nostri ideali avevano prosperato grazie a un costante rinnovamento, spesso frutto della fatica e del confronto, talvolta cruento.

Dovrebbe essere proprio questa la prima e più importante funzione della politica: interpretare il momento storico e accompagnarci attraverso di esso. In un’epoca così ambigua, si tratta, tuttavia, di un compito estremamente difficile, e va riconosciuto. Aspettarsi dalle istituzioni risposte immediate e definitive sarebbe irragionevole e ingeneroso. Ciò che è giusto pretendere, invece, è la massima sincerità.  In una condizione così complessa, non è accettabile continuare a sostenere che tutto va bene, né tantomeno predicare ricette drastiche e risolutive, dimenticandosi del trauma e della fatica delle persone. Una leadership matura deve, prima di tutto, riconoscere questi sentimenti, nella consapevolezza che, anche se non è ancora il tempo della chiarezza, sarà già una conquista se si riuscirà a dare ascolto alla nostra angoscia.

             Da__La Stampa                                                                                                                                                       

Resilienza più altro..

Non mi è mai piaciuta la parola resilienza! Prelevare dalla fisica un termine (resilienza) impiegato per indicare la capacità di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi, significa trattare l’uomo alla stregua di un oggetto. Significa trascurare il fatto che l’uomo non è una cosa. Perché in lui si agitano passioni, emozioni, sentimenti, angosce, dolori, fantasie in quel gioco vertiginoso e incerto che è la vita!

Ecco, io vorrei sapere se i resilienti sono anche capaci di comprendere chi non ce la fa, e quindi di assisterli, confortarli, aiutarli. Se conoscono, oltre alla resilienza, anche l’accudimento, il soccorso, la cura. Perché solo chi conosce la propria debolezza è in grado di comprendere la debolezza altrui. Solo chi è caduto può sostenere chi sta cadendo. E sa soccorrere con parole che non siano di generico incoraggiamento, ma di autentica partecipazione, quella che i greci chiamavano compassione, nell’accezione non di compatire ma di partecipare a quel « patire» comune di cui nessuno può dirsi immune.

Di partecipazione abbiamo bisogno. Di socialità e non di orgoglio individuale ostentato da chi ce l’ha sempre fatta. Mettere in comune le sconfitte mi pare molto più interessante che resistere o vincere a tutti i costi. Confucio una volta disse: Un uomo è grande non perché non ha fallito. O perché si è rialzato. Ma perché da quel fallimento ha imparato che quella che ora vedi come una debolezza, un giorno diventerà la forza di qualcun altro. Perché la vera forza non è sorpassare chi ti sta davanti, ma tendere la mano verso chi ti cammina dietro.

Umberto Galimberti

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Qual’è l’età in cui ci sentiamo più felici?

 

Scopri qual è l’età in cui siamo più felici secondo questo studio

La felicità è un concetto in evoluzione che varia con l’età e l’esperienza. Ma un recente studio condotto da ricercatori tedeschi e svizzeri, pubblicato sulla rivista Psychological Bulletin , ha esaminato questa complessa questione per determinare il momento della vita in cui ci sentiamo più realizzati.
 Felicità :evoluzione costante
Secondo i ricercatori, il benessere emotivo fluttua nel corso della vita, influenzato dalle relazioni, dalla carriera e dai grandi eventi. Lo studio ha analizzato tre componenti principali del benessere soggettivo:
Soddisfazione di vita : la nostra valutazione complessiva della qualità della nostra esistenza.
Stati emotivi positivi : gioia, gratitudine, entusiasmo.
Stati emotivi negativi : tristezza, ansia , rabbia.
Con un campione impressionante di 460.000 partecipanti provenienti da culture diverse, i risultati forniscono una visione chiara di queste tendenze.
Il numero magico: 70 anni
Secondo lo studio, l’età in cui le persone sono più felici è 70 anni . La soddisfazione di vita raggiunge il picco a questa età, essendo leggermente aumentata a partire dai 16 anni. Tuttavia, dopo i 70 anni, inizia a diminuire lentamente fino ai 96 anni.
Stati emotivi positivi : diminuiscono gradualmente nel corso della vita.
Stati emotivi negativi : dopo un aumento tra i 9 e i 22 anni, diminuiscono notevolmente in età adulta, per poi aumentare leggermente dopo i 60 anni.
Perché 70 anni sono l’età della felicità?
Questa età sembra segnare un periodo di contentezza, legato a fattori come stabilità finanziaria, relazioni forti e un approccio più filosofico alla vita. All’età di 70 anni, le priorità cambiano e le sfide della giovinezza o della vita sono spesso sostituite da un sentimento di realizzazione.
Lezioni per il benessere a tutte le età
I ricercatori sottolineano l’importanza di preservare il benessere per tutta la vita. Che sia attraverso relazioni sociali arricchenti, pratiche di gratitudine o attività che diano senso all’esistenza, è fondamentale lavorare su queste tre componenti del benessere soggettivo fin dalla tenera età. In particolare, questi risultati potrebbero ispirare programmi volti a mantenere o migliorare il benessere degli anziani, aiutandoli a rimanere socialmente attivi e promuovendo stili di vita sani. La felicità non è limitata a un’età o a una fase della vita, ma segue una curva complessa influenzata da vari fattori. Se gli anni Settanta sembrano essere l’età dell’oro della soddisfazione di vita, è importante coltivare il benessere emotivo e relazionale durante tutta la vita per godere appieno di ogni momento.

età felice

Come reagire alla scomparsa di Dio

 

 

 

Dal presepe di una chiesa sparisce la statuina di Gesù Bambino. Chi l’ha rubata, chi l’ha rapita? La scelta del verbo è decisiva. Se si tratta di un oggetto trafugato, è solo un furto. Se si tratta invece di una figura vivente, che rappresenta una persona sacra e reale, allora è un rapimento. Alla scomparsa di Gesù Bambino in una chiesa, fatto realmente accaduto due anni fa in una parrocchia fiorentina, è dedicato un romanzo dal titolo evocativo: Ribellarsi alla notte, di Mimmo Muolo (ed. Paoline). Un giallo, con una trama in cui s’intrecciano fatti, persone, anime, storie, dolori e felicità. Per noi è la metafora di una situazione reale: viviamo il tempo della scomparsa di Dio, e di suo figlio, Gesù, nella sua espressione più inerme, il Bambino. La statuetta di un presepe non è un idolo ma un’icona, nel senso in cui ne scriveva Padre Florenskij: un simbolo sacro, ponte tra cielo e terra, tra divinità e umanità.
La scomparsa di Dio non riguarda un fatto di cronaca circoscritto a un presepe; ma coinvolge ciascuno di noi. Nel tempo della scomparsa di Dio, Gesù viene sostituito dal suo rutilante supplente laico, Babbo Natale, che porta regali, anziché salvezza eterna. Quando il Natale si eclissa e al suo posto c’è il Pupazzo rosso, la gente non si scambia più gli auguri di Santo Natale ma quelli, più neutri e vacanzieri, di Buona Feste. Il tema investe la Chiesa cattolica e la sua presenza nel mondo. Se accetta di rendere la festa una ricorrenza universale e asettica di ferie, pranzi e regali, il cristianesimo si neutralizza e accetta quel che pure Papa Francesco stigmatizza: la fede ridotta a un fatto privato, quasi nascosto, per non urtare la suscettibilità di chi non è credente o crede in altri dei, anche secolari e profani. Ma cosa può fare la Chiesa per restituire Gesù Bambino al presepe, il Santo Natale alla gente, e la fede al mondo? Certo, non deve arroccarsi nel suo Credo e nella sua religione; deve aprirsi, piuttosto, venire al mondo – come Gesù Bambino – ma senza nascondere la sua vera missione che non è di puro soccorso umanitario e sociale.
È la strada più difficile, tutta in salita, si scontra con l’incomprensione generale e i poteri ostili del nostro tempo; con essi non deve guerreggiare, simulare crociate, ma testimoniare la verità. Non perché ne possegga il monopolio, ma per puro amor del vero; la sua missione è ricercare la verità.
Invece davanti alla scomparsa di Dio e di Gesù Bambino, gli atteggiamenti prevalenti sono due. Fingere che non sia vero, illudersi e illudere che tutto è come sempre; scelta da farisei degna di una religione ridotta a formalismo. Oppure accettare la sua scomparsa, adeguarsi all’assenza di Dio nel mondo, e ridurre la Chiesa al ruolo di assistente morale e sociale dell’umanità, dedicandosi solo ai temi della pace, dell’inclusione, dell’accoglienza. Temi per i quali bastano partiti, movimenti, politiche governative e organizzazioni non governative, patronati sociali, sindacati e associazioni di beneficienza. Non c’è bisogno di scomodare Dio per tutto questo.
La verità della Chiesa è invece rendersi conto del vuoto lasciato dalla scomparsa di Dio: la culla vuota, e le culle vuote d’Occidente, il Dio scomparso dalla vita quotidiana. E ripartire da lì, da quel Buco Nero al centro del mondo e dentro di noi.
Non si può fingere che il mondo non sia cambiato. La fede non va ritrovata arretrando al passato ma attraversando la scristianizzazione. La fede va cercata dopo la sua scomparsa.
Allo stesso mondo, la Chiesa deve pensare il mondo, e il mondo che cambia. Ma non limitandosi a rimarcare la sua universalità, rivolta all’umanità senza muri e confini, ma capace di cogliere pure le differenze. Innanzitutto la cristianità non può fingere di coincidere con l’intera umanità, in lei si riconosce solo una porzione del mondo; altre religioni, altre fedi, altre tradizioni esistono al mondo, non se ne può prescindere. Avere senso della realtà e dei limiti significa anche accettare queste differenze, accettare l’esistenza di altri raggi che portano o dicono di portare al centro dell’Essere. Si tratta dunque di tradurre il riconoscimento di un mondo multipolare anche nel riconoscere la molteplicità delle vie.
Pensare il mondo nella sua differenza vuol dire pure non pensare che il centro del mondo, la novità planetaria, siano i flussi migratori. I migranti sono milioni, un fenomeno importante che non si può ignorare; ma i restanti sono miliardi, e la Chiesa non può preoccuparsi dei primi e trascurare i secondi che sono la stragrande parte dell’umanità. Se è davvero universale, ecumenica, deve considerare loro, occuparsi di chi resta e non soprattutto di chi parte.
Pensare il mondo nelle sue differenze e nei suoi mutamenti, significa poi differenziare i messaggi: l’evangelico “crescete e moltiplicatevi” va oggi rivolto alle popolazioni italiane, europee, del nord occidentale, dove la denatalità galoppa e regredisce il desiderio di nascita. Ma va modulato diversamente laddove la crescita demografica ci sta portando a una situazione senza precedenti; già ora, nel giro di pochi anni, siamo più di otto miliardi sulla faccia della terra. Ci sono aree del mondo in cui il problema è ancora la denutrizione, la fame, la mancanza di assolvere bisogni primari; e ce ne sono altre in cui il problema è invece la sovralimentazione, lo spreco, il calo demografico, le malattie derivate dalla nutrizione eccessiva e sbagliata.
Sono esempi per dire che pensare il mondo vuol dire pensare le differenze nel mondo e i suoi cambiamenti. Ci sono principi e visioni che non mutano col mutare dei tempi, ma ci sono avvenimenti, fenomeni, trasformazioni che sono invece mutate. In questo la chiesa dovrebbe avere la capacità di vivere dentro il proprio tempo e di aggiornare alcuni suoi messaggi. Questo vuol dire essere rigorosi nei principi e innovativi nelle forme e nelle attenzioni, saper essere quelli di oggi e quelli di sempre, non scambiando mai i due piani. Se Dio scompare non possiamo far finta di niente. Dobbiamo ribellarci alla notte, restare fedeli alla vita e predisporci all’attesa della luce.

Marcello Veneziani  

Fiaba d’inverno…

 

 

Inverno s’è vestito di pioggia e di vento e ha bussato alla porta di Annina. Lei ha fatto un po’ di resistenza, si è appoggiata con il suo corpicino legnoso contro la porta ma il vento è più forte e l’ha spalancata e la pioggia s’è insinuata dentro le crepe dei muri, allargandole.
Annina si è coperta le spalle e ha sospirato rassegnata, ogni anno Inverno arriva a casa sua e ogni anno lei è più vecchia e indifesa.
Vive in una casa grandissima, con un corridoio lungo come una strada, le stanze da una parte e dall’altra e una terrazza sospesa per aria da cui certamente tutti quelli che prima abitavano con lei, a cominciare dalla vecchia nonna materna, hanno preso il volo per altre case da cui il vento e la pioggia rimangono fuori.
Inverno è tutto arruffato, coperto di pelli e con un cappellaccio nero che gli nasconde il volto fino al naso che gli gocciola di continuo. Se ne sta seduto in una poltrona della prima stanza a destra e ogni tanto tossisce o manda lampi, facendo rizzare il pelo alla gatta Silenziosa.
In quella stanza, dove prima sono passati Autunno, Estate e Primavera, c’è una macchina che viaggia nel mondo e che contiene tutta la conoscenza umana.
Annina l’accende perchè ama le parole e i colori e, viaggiando con quella macchina, lei abbandona la sua vecchiaia e Inverno e la casa vuota e silenziosa si riempie di persone parole musica arte e di tutte le notizie del mondo.

Silenziosa è gelosa di Annina che per un po’ si lascia portar via dalla macchina e per rabbia le morde una caviglia.
Annina ama Silenziosa e sopporta la presenza di Inverno perchè non puo’ mandarlo via; lui aspetta lì. con i suoi lampi e la sua tosse, che fioriscano i mandorli. Allora, com’è arrivato, se ne va via, lasciandosi dietro impronte fangose e odore di foglie marce.

Quando Annina esce dalla sua stanza per raggiungere la cucina, il suo orologio da polso segna le 10 e quando arriva sono le 10 e venti minuti. In cucina la segue Silenziosa con il pelo ritto perchè ha visto Inverno e l’ha sentito starnutire.
Il lungo corridoio diventa più lungo e oramai è una strada, un viale freddo e fangoso dove Annina cerca un riparo dal freddo, una pensilina, un portico, una panchina per riposare.
Mentre percorre la sua strada, Annina sente sempre di più la fatica, si accorge d’esser diventata vecchia quasi quanto Inverno e si ferma, sfinita, a riposare.
Facendo scivolare le mani sulle pareti si lascia cadere lentamente e si abbandona sul pavimento. Silenziosa, con la coda alta, le si avvicina ronfando e le lecca una mano. Annina sorride e si addormenta.
Sogna Primavera e i suoi anni giovani, i capelli biondi, le corse nei prati e sua madre che la chiama per andare a scuola. La casa è piena di persone, non c’è Inverno e il lungo corridoio si percorre in un sorriso.
Entra dalle finestre il sole e inonda la casa, lei ha piedi e scarpe da bambina, mani di bambina che devono ancora acchiappare la vita.
Annina, Annina, svegliati. Annina, Annina.

Per il gran silenzio anche Inverno s’è addormentato e Silenziosa è andata nella terrazza sospesa per aria e non si trova più.

Gabriel Pacheko

Per Natale, regalati un Mocambo.

 

È morto il bar! – esclama il bimbo sotto al portico, a pochi metri dove è nato ed abita mio figlio.
Lo hanno chiuso dopo l’estate – gli risponde il nonno che, probabilmente, abita lì sopra. Il bambino, che chiameremo Mario (non so perché ma ho sempre sognato di dar nomi fittizi) e i suoi genitori erano passati a fare un saluto al nonno e hanno notato che lì, dove c’era il bar, ora c’è altro. Se per Mario il bar è uno che può morire è perché ha capito che anche lui ha avuto una vita, è stato vivo. Ha visto mattine, pomeriggi, sere, amicizie, amori, delusioni, malattie e imprevisti, cessi alla turca, gelati improbabili, Boeri da vincere e toast immangiabili. Poi, come tutti, l’ha pighè i tvaiù («ha piegato i tovaglioli»: espressione dialettale bolognese per indicare qualcuno che se ne è andato).

Proprio come i bambini o gli anziani, i bar sono lasciati da soli: nelle grandi città ormai non c’è posto per loro.
Come fanno le città a lasciare da solo qualcuno? Mettendolo al centro di dibattiti e fregandosene della sua vita. E così, come si attende che i ragazzi ci mandino a quel paese e se ne vadano (andranno pur giustificati i paginoni mensili sulla fuga di cervelli) e gli anziani tolgano il disturbo, i bar vengono lasciati morire, come muoiono quelli che li hanno gestiti: soli e da soli. Prima o poi si stancheranno di fare un mestiere che non c’è più. Tutto va avanti, è la spensierata violenza del progresso, bisogna esser contenti quando le cose cambiano; le città smart s’incazzano se non siete felici, soprattutto se non lo siete in inglese.

Il bar è stata una formidabile palestra di convivenza, con le qualità certo, ma anche le miserie, i limiti e i tic degli esseri umani. E con le loro storie. Al bar ho imparato che ogni essere umano ha una storia. Semplicemente ce ne sono di due tipi: quelle che gli avventori raccontavano e quelle dalle quali erano raccontati.  Da chi entrava il lunedì mattina millantando un improbabile week end d’amore e avventura con una sconosciuta, a chi, impigliato in un dolore tutto suo, decideva di non voler giocare a carte, va bene anche guardare diceva. E poi si allontanava fino a trovarsi sotto al portico, col bicchiere in mano, lo sguardo verso il traffico e il suo segreto seduto sul cuore.
Al bar c’era la politica, lo sport, perfino la religione «diversamente evocata» diciamo così. Nell’arco dello stesso pomeriggio potevi trovarti d’accordo con qualcuno sulla sua idea di calcio, disprezzarne le teorie politiche e alla fine, prima di sera, vederlo di fronte a te mescolare le carte e sorriderti. Dovevi imparare ad ascoltare e tacere, che non ogni storia necessita di una tua riposta. Capivi che il mondo non è altro che un bar senza ora di chiusura. Solo che là fuori gli avventori sono mischiati, eppure tutti quanti, proprio come al bar, sono un po’ tristi, un po’ felici e qualche volta, senza farci troppo caso, innamorati. Non sei peggio degli altri, non sei meglio di loro e vai bene così: quale altro luogo t’insegna tutto questo?

Al bar arrivavano anche quelli che nessuno sapeva chi fossero, quelli che nessuno conosceva e stavano lì per un po’, fra la loro vita e la tua. E poi se ne andavano. Quel bar non era nemmeno il mio preferito: quello è stato il primo a saltare, c’era rimasta dentro una signora, da sola. Ora c’è un parrucchiere che sembra un corista di Barry White, solo che è di Avellino.

Nel bar appena «morto», nei tavolini sotto al portico, ci ho visto seduto mio figlio con le gambette a penzolare dalla seggiola prima di partire per le estati, mangiare brioche vecchie che si pagava coi suoi primi soldini, ci stavo con mio padre ad aspettare che la Fortitudo smettesse di perdere e arrivasse l’estate, con mia madre a spulciare le offerte di elettromestici e ripassare i nomi delle stagioni. Con qualche amico a progettare meticolosi fallimenti e progetti che, nostro malgrado, si son fatti davvero.

Al posto del bar oggi c’è un gigantesco raduno di macchinette, autodistributori di merendine, bibite e patatine. I ragazzi ci entrano con le monete in mano e ne escono senza aver rivolto parola o incontrato anima viva. Se esiste un esempio di cadavere decomposto è un portico che perde un bar per una roba del genere, e la cosa più terrificante è che quei ragazzi hanno l’impressione di esser felici attendendo il tonfo di una bibita o infilando le dita per estrarre la merendina. Che la vita sia quella briciola che abbiamo lasciato loro.

Per Natale, se potessi, vorrei rimediare a quel tonfo.
Proprio così, se potessi, per Natale a mio figlio regalerei un bar.
Tutto per lui e per tutti quelli che vuole, soprattutto sconosciuti. Sarebbe il suo Mocambo. Avete presente quello della canzone? Per anni, non sono riuscito ad ascoltare la prima strofa de La ricostruzione del Mocambo di Paolo Conte senza scoppiare in lacrime.  Dopo le mie vicissitudini – iniziava il brano – oggi ho ripreso con il mio bar, dopo un periodo di solitudine, ecco qui il Mocambo tutto in fior….

Mi farebbe piacere sapere che esiste un posto nel quale, dopo le sue vicissitudini, mio figlio possa tornare e sentirsi a casa anche senza di me. Un posto tutto suo e «tutto in fior» anche solo per una sera. Lì potrebbe sparare due cazzate, ascoltarne altre, bersi una cosa e poi scordarsi quello che si è detto senza dimenticare i volti. In quel bar potrebbe star seduto a dissipare il tempo, ad ascoltare d’improbabili amori ricambiati, di altri che non cambiano mai, d’imprese sportive, di lavori sfumati, riacciuffati o lasciati, di case troppo vuote che per tornarci da soli ci vuole fegato. O di altre, più piccole, dentro le quali c’è chi gli vuol bene. Potrebbe incontrare una ragazza che, magari, proprio ora sta passando fuori da lì. E dato che il bar non c’è più, lui non la vedrà. E lei non sa come sorride Eugenio quando la vita gli si muove dentro.

Cristiano Governa
unnamedcristina Paleari