Abbraccia la tua radio per favor, compie cent’anni ed è il media più antico tra i moderni e il più confidenziale per indole, il più sentimentale, il più magico, il più italiano. Intanto è il più compatibile con l’immaginazione, perché non ha immagini e ti fa cavalcare con la fantasia. Poi, è il più adatto a un paese loquace, refrattario ai silenzi e alla lettura, più incline alla cultura orale dove il fascino è nella parola e nel tono di voce. E poi la radio è la più rispettosa della vita pratica, perché per ascoltarla non devi interrompere la tua attività, puoi fare altro. E infine, se permettete, è il media più italiano, anche perché nessuno discute la sua paternità, come per il telefono, è nata dal genio italiano di Guglielmo Marconi e dal suo telegrafo: la tv, la stampa, il web, hanno padri diversi o controversi, la radio no.
La discrezione della radio, la signorilità del suo sussurrare e il pudore di non mostrare la rendono davvero un mezzo per bene, d’altri tempi, quando si diceva ossequi alla signora e ci si toglieva il cappello. È stato facile celebrare quest’anno i settant’anni della Tv perché la sua nascita cadeva in epoca repubblicana, il 1954, nonostante le prime prove tecniche di trasmissione fossero nei primissimi anni quaranta. Più spinoso è invece parlare della Radio che il prossimo 6 ottobre compirà cent’anni, essendo nata a pieno regime, sotto il fascismo, il 1924. Eiar era il suo cognome da signorina, molto più volatile e aereo, facilmente declinabile alla fascista: Ejar, ejar alalà (in realtà era un motto dannunziano a sua volta mutuato dagli antichi romani e perfino greci).
Come soffrì la radio, quando era ancora giovane, a vedere che il successo della figlia Televisione oscurava il suo. Sì, felice per sua figlia ma si sentiva messa da parte, invecchiata di colpo. Si è rifatta un po’ coi nipoti, i new media, che in parte l’hanno rivalutata e in parte hanno reso più attempata sua figlia in video. E si è poi mescolata con l’i-phone, in forme ibride e creative, che non l’hanno resa del tutto superflua. La modernità della radio era consegnata alle sue dimensioni: più era grossa più era vecchia, antiquata e viceversa più era piccola, transistor, e più era agile e moderna. Poi passarono entrambi al vintage e al modernariato, come il magnetofono e il mangiadischi.
La radio vive nascosta e sedentaria, tra casa e auto, sopraffatta dallo smartphone in cui in fondo sopravvive sotto falso nome; non ama esibire, non vive d’apparenza, si affida alle parole più che ai gesti, alle canzoni più che alle azioni, e parla, parla tanto.
La radio non è la preistoria dei mass media, ma è qualcosa in più, di magico e fatale. La radio, dicevamo, è insuperabile per questa sua flessibilità che la rende duttile alla vita e alla sua pratica: tu puoi farti la barba, puoi lavorare, puoi guidare, puoi correre e fare sport, puoi fare ogni cosa mentre ascolti la radio. Con la tv, il tablet, lo smartphone, il pc, no, è più difficile. Ti occupano la vista. Lei è multitasking e non si sostituisce al mondo, ma ti accompagna, è la colonna sonora della vita. La sua magia è nella parola e nella musica; incanta più della visione e al tempo stesso fa pensare. Vai in tv e ti notano la cravatta, vai in radio e ti notano un concetto. È più di sostanza, la radio, meno futile. Per dirla nel gergo ruffiano della contemporaneità la radio è Smart, Warm and Friendly. Passateci l’uso ironico dell’americanismo, noi che vent’anni fa proponemmo il ritorno alla lingua italiana in Rai, ma ci permette di riassumere perché uno strumento antico o perlomeno di modernariato, comunica ancora bene, molto meglio di tante recenti innovazioni, rispetto alle quali mantiene un maggior grado di penetrazione, di fidelizzazione e di appetibilità. Ma la Radio davvero è particolarmente efficace perché è un mezzo facilmente abbordabile e diretto (Smart), intimo ed emozionale (Warm), non invasivo ma amichevole (Friendly).
Poi un limite oggettivo e grosso della radio rispetto agli altri media è anche per altri versi un suo pregio esclusivo: la mancanza di immagini, anzi la cecità del suo comunicare, ha tagliato le gambe agli aspetti più facili e a volte più torbidi della comunicazione, anche pubblicitaria: c’è meno Sesso, Sangue, Violenza, Trucco e Avvenenza a fare da richiamo. La Radio è più sobria, più autentica, più mite, sembra perfino meno interessata all’aspetto venale, ai soldi e al successo, un mezzo quasi da confessionale. Ti giochi tutto con le parole e con quel che c’è dentro. Certo, pure con la voce si può essere seduttivi e perfino erotici, ma alla fine l’arte dell’affabulazione, la capacità di combinare parole, musiche e silenzi per entrare in un universo parallelo e invisibile, fatto di armonie e cibo per la mente, è la specialità magica della radio.
Ho molti ricordi radiofonici, e non solo perché in radio, alla Rai, ci ho lavorato per anni. Anzi, i ricordi più mitici e più tenaci sono quelli che ti porti da bambino. Ogni tanto la preistoria personale viene a trovarci. Tu ricordi vagamente il soggiorno di casa tua da bambino, tuo padre accanto a un gran bestione di radio, tu e i tuoi fratelli raccolti a sentire le partite di calcio, “se la squadra del vostro cuore ha perso consolatevi con Stock 84”. Ricordi lo stupore del quadrante acceso, gremito di nomi esotici, la sorpresa di quelle linee luminose che si spostavano con la manopola e le voci promiscue che cambiavano rapidamente, dall’inglese al russo all’arabo. Il Lontano entrava in casa. Scusa Ciotti, linea ad Ameri, grazie Bortoluzzi.
Poi, la domenica radiosa, le canzoni riempivano la casa combinandosi con l’odore di ragù. Pensi che sia un mondo sepolto o solo sognato, tanto pallido e stinto è il ricordo. Ma poi un pomeriggio, alla controra, ti arrampichi sulla soffitta della casa paterna e ritrovi lacerti del passato che giacciono inerti ma alludono a una preistoria favolosa e affettiva. Ritrovi con loro quelle stanze, quelle voci, quei volti, quelle abitudini di casa. Riemerge da quell’Atlantide familiare la carcassa del prezioso animale domestico, la radiona Clariton in radica di noce che irradiava il soggiorno. Con qualche espediente si rianima, dà segnali di vita, emette rumori, suoni… Vorresti riascoltare le parole e le voci di quel tempo e rivedere al suo fianco quella poltrona occupata. Ma poi ti accontenti d’aver ritrovato la macchina del tempo e ti reincanta il suo fervore di luci. Non sai come festeggiare la sua ricomparsa, ma mentre ci pensi, ti accorgi che lo stai già facendo. Si riaccendono i ricordi, va in onda il passato. Benedetta Radio, sei stata sempre di parola.
Marcello Veneziani