Oggi la pioggia, una banana e la musica…

 

Oggi piove, come non pioveva da tanto. La pioggia tranquilla, pulita, regolare, direi una pioggia d’altri tempi, quella che ogni goccia smuove il terreno, scende un millimetro dopo l’altro nella terra appena inumidita dalle notti invernali, ristoro per terreni assetati, ristoro per i miei occhi, che da sempre amano queste giornate. Quando le gambe non avevano il peso degli anni erano questi i giorni in cui il tempo passava macinando chilometri, passo dopo passo sulle stradine di campagna, osservando la natura rinascere, nel silenzio appeno interrotto dal canto della pioggia. Ma oggi ho camminato il solito passeggio in giardino,e ho cercato di respirare pioggia a pieno cuore, e poi.. é lunga una giornata,e allora mi è venuta voglia di ascoltare qualche vecchio disco. Mentre cerco, spolvero i molti dischi in vinile, che non hanno regolarmente la mia attenzione. Mi capita in mano una copertina bianca, al centro una banana matura, un disco del 1967, l’esordio rock sperimentale dei Velvet Undergoud, come era chiamato allora questo genere musicale , al mio orecchio un rock gradevole, non aggressivo. Ed ecco accavallarsi ricordo su ricordo. L’occhio corre subito alla firma di Andy Warhol ,che pilotò allora la corsa all’ acquisto del long-play, forse più che per la musica, per la copertina dell’album . Con pochi soldi bella musica e l’illusione di possedere un’ opera di una celebrità dell’epoca.. questa banana firmata Andy Warhol, il pittore newyorkese famoso per le sue feste strampalate e per i famosissimi ritratti di celebrità .Che meraviglia i dischi in vinile di un tempo, riproduzioni perfette.. è vero, bastava un graffietto provocato dallo strisciare accidentale del pickup per bloccare la riproduzione sulla stessa nota, eppure , anche strisciati mi piace ancora risentirli a distanza di tanto tempo… persino la musica di allora pare suonare diversa, mi riporta agli occhi della mente ragazze coi capelli cotonati, giovani in abiti attillati, pantaloni a zampa d’elefante, le zeppe altissime.. fine anni sessanta ,era bella la vita. Si, davvero bella e felice la mia gioventù, quando tutto era perfetto, senza sbavature e il tempo sembrava dovesse passare solo per gli altri…la vita , poi , è tutta un’altra storia.

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Amore …e castità.

 

…Ma non importa. Tutte le sciagure che sono accadute non sono riuscite a far appassire i fiori, e neppure l’amore delle donne; perciò non potranno spegnere il mio desiderio di te, né la piccola luce fra te e me. L’anno venturo saremo insieme. E sebbene abbia paura, credo nella nostra unione. La sola precauzione che si può prendere contro il futuro è quella di credere in quanto si ha di meglio in se stessi e credere nella potenza che ci trascende. Perciò credo nella piccola fiamma che arde fra noi. Per me, ora, è la sola cosa che conti al mondo. La mia anima palpita con te nella fiammella di pentecoste, ed è come la pace della carne nella carne. La mia carne nella tua carne ha fatto nascere una fiamma. Anche i fiori sono creati dall’accoppiarsi del sole e della terra. Ma è una cosa delicata, che richiede pazienza e una lunga attesa. Così amo la mia castità, ora, perchè è la pace che viene dall’unione dei sessi. Mi piace essere casto, ora. Amo la castità come i bucaneve. Amo questa castità che è come un intervallo di pace dopo l’orgasmo del sesso, che è ora tra noi come un bucaneve forcuto in fiamma bianca. E quando verrà la vera primavera, quando la nostra unione verrà, allora potremo fonderci e rendere la fiammella splendente, gialla e splendente. Ma ora, non ancora! Ora è tempo di essere casti; è così bello essere casti; è come un fiume di acqua fredda nell’anima mia. Ora che scorre fra noi, amo la castità. E’ come acqua fredda e pioggia.

D. H. Lawrence – L’amante di Lady Chatterley

 

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L’importanza di scrivere a mano (e in corsivo)…

Quello che sembra si stia perdendo è la capacità di argomentare, formulare, comprendere un testo, saperlo riassumere e poi esporre con chiarezza
L’importanza di scrivere a mano (e in corsivo)

Come scrivono i giovani nell’epoca social? Sentiamo dire che non sono più capaci di utilizzare l’italiano corretto, non sanno fare un tema ben strutturato, hanno carenze nella scrittura, nell’associazione di idee e nei collegamenti tra argomenti. In verità sono sempre lì a scambiarsi messaggi e commenti: non credo sia mai esistita un’epoca in cui si sia scritto così tanto. Quello che invece sembra si stia perdendo è la capacità di argomentare, formulare, comprendere un testo, saperlo riassumere e poi esporre con chiarezza. Ma cosa è successo nella scuola degli ultimi decenni?  Dopo anni di promozione dell’istruzione digitale, e di proteste per il grande ritardo con cui la scuola italiana si approcciava, ora la presenza di strumenti digitali nelle strutture scolastiche sembra aumentata. I vantaggi della didattica digitale sono abbastanza espliciti: un miglior coinvolgimento degli alunni, scambi di informazioni più immediate, diffusione di innumerevoli contenuti, possibilità di ricreare situazioni altrimenti impossibili da vivere. Inoltre i bambini di oggi sono nativi digitali, cresciuti con smartphone e tablet tra le mani, e si aspettano che la scuola rifletta il mondo tecnologico in cui vivono. Ma proprio ora che ci stiamo lanciando sempre più nel futuro, sorgono dei dubbi. Intanto su cosa debba fare la scuola: non basta saper usare un computer o navigare in internet, ma serve sviluppare una vera e propria alfabetizzazione digitale, comprendere come funzionano le tecnologie, come utilizzarle in modo sicuro ed etico, come sfruttarle per risolvere problemi e raggiungere obiettivi.

Paesi come la Svezia, gli Stati Uniti o il Canada, che avevano promosso molto la digitalizzazione, ora stanno tornando indietro, basandosi su studi, sempre più numerosi, che rivalutano i metodi «arcaici» della scrittura manuale e in particolare del corsivo. La scrittura manuale è frutto dell’interazione tra sistema nervoso, sensoriale e motorio: gli studi dimostrano come scrivere a mano coinvolga e stimoli aree cerebrali più vaste e profonde di quanto faccia la digitazione al computer. In particolare la scrittura a mano organizza le informazioni nel cervello in modo tale da sviluppare e potenziare la capacità di ricordare, stimolare il pensiero astratto e creativo, creare nuovi collegamenti di intuizione.

L’origine è nell’atto stesso dello scrivere, che con una penna è più «faticoso» che al computer: usare una penna implica di prestare attenzione anche all’aspetto motorio, disegnando le lettere in modo intellegibile, dosando la forza della punta sul foglio, seguendo le righe e gli spazi della pagina, facendo coincidere pensiero, azione e vista. Cioè attuando quell’integrazione multisensoriale che è alla base delle capacità di memoria. Inoltre, nella scrittura manuale, abbiamo una grande varietà di materiali e supporti: oltre la penna le matite, o il gesso sulla lavagna… tutte esperienze diverse e nuove, che creano nuove attivazioni neuronali e nuove abilità. Gli studi hanno rilevato che i bambini che scrivono a mano libera producono più parole e più rapidamente di quanto facciano coloro che scrivono su una tastiera. Addirittura si sono notate significative differenze tra chi utilizza il carattere corsivo rispetto allo stampatello: psicoterapeuti e neurologi segnalano che l’abitudine a forme semplificate di scrittura, come lo stampatello, riduce gli stimoli di produzione linguistica. Anche lo studio su dispositivi come il tablet, pur avendo un suo valore, in quanto multimediale e interattivo, può aumentare il livello di distrazione e di ansia, specialmente nei bambini, proprio per un eccesso di stimolazione. Solo rallentando gli stimoli le informazioni acquisite possono transitare dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine.

Un paradosso, in un contesto in cui vanno sempre più aumentando i disturbi dell’apprendimento, è che l’utilizzo del computer è la soluzione consigliata per superare i problemi di disgrafia dei bambini. Ma proprio la digitalizzazione è «sul banco degli imputati» per quanto riguarda la crescente incapacità di imparare a scrivere: si prescrive come terapia quella che sembra essere una delle cause stesse del problema? La sfida quindi, consiste nel trovare un equilibrio tra l’approccio digitale e tradizionale, garantendo spazio a entrambe le modalità didattiche, in modo che contribuiscano all’educazione con un approccio integrato. La tecnologia è ineludibile dalle nostre vite e i giovani devono imparare a utilizzarle, ma nella fase dell’infanzia e adolescenza dobbiamo stare attenti a non trascurare la complessità dei fenomeni coinvolti nella costruzione della persona.

Paolo Sarti

Nausea da overdose di Sanremo…

Mi dice un amico: non vedrò il festival di Sanremo per nausea, come se l’avessi già visto, con tutte le anticipazioni e i programmi dedicati da mesi. In effetti arriviamo al fatidico Festival e non lo sopportiamo più dopo cento giorni di bombardamento televisivo quotidiano. Dovevano servire a promuovere l’evento e a generare l’attesa e invece hanno creato overdose, indigestione, intolleranza, rigetto verso Sanremo e la faccia, il becco, la voce di Amadeus. Poi magari i numeri ci saranno perché è ormai un riflesso condizionato e non vuoi sentirti escluso dalla festa ufficiale della nostra Repubblica; ma l’effetto nausea c’è tutto. Non c’era telegiornale della Rai che non avesse ogni giorno tra i titoli e poi in coda, un annuncio su Sanremo, un collegamento col solito Amadeus, che evoca Fiorello. E’ stato un vero e proprio stolkeraggio quotidiano, che ha superato ogni limite di sopportabilità e di decenza promozionale. Mille interviste su Sanremo e un solo concetto, una sola parola che tutti pronunciano nelle domande come nelle risposte: emozione. Ma che noia, ma che monotonia…A me Sanremo non fa né caldo né freddo, è un programma come altri che ha una sua storia e una sua ragion d’essere. Ma quando un evento d’intrattenimento, una gara canora diventa in assoluto l’evento più citato, più evocato, più annunciato della nostra vita pubblica, persino più della giornata della memoria, vuol dire che siamo in una fase patologica e in una distorsione della realtà e delle sue priorità. Affidare a Sanremo l’identità collettiva degli italiani, la festa nazionale più lunga, più larga, più sentita, nel senso di ascoltata, dell’anno, ha qualcosa di malato, di noioso, di banale, che ci squalifica agli occhi del mondo. E riduce uno dei popoli più creativi e vivaci del mondo, a figurare come uno dei più idioti e pappagalleschi…  Sanremo è diventata l’unica tradizione ancora vigente, difesa e promossa dalla “principale azienda culturale del Paese”, dalla radiotelevisione di Stato. Una somministrazione di massa con richiami all’inverosimile, un video-stupro del nostro senso critico. Sanremo è poi il coagulo di tutti i luoghi comuni, le tendenze, a partire dalle peggiori, i vizi e le storture del paese; i soliti messaggi politically correct, il solito woke, e tutte le menate ,sfuse e profuse lungo tutti i giorni, qui si concentrano e si danno appuntamento in riviera. Il nero, il migrante, il gay, la lesbica, la femminista e il femminicidio, il pacifista, tutto il presepe si ripete ogni anno, mutano solo i dosaggi e i testimonial, secondo il vento. Nessun governo osa interferire, può star lì Conte, Draghi o la Meloni, ma Amadeus e il suo minestrone (detto anche mainstream) non si discutono. Peraltro è un presentatore come tanti altri, non più bravo e nemmeno più autorevole di altri, come fu per anni Pippo Baudo. Ma sembra che non esistano altri in grado di condurre questa kermesse; la sua voce risuona di continuo sugli schermi e nei programmi tv… Perciò capisco l’obiezione di coscienza su Sanremo, la diserzione, il servizio civile alternativo, il cambio di programma, la fuga sui monti di Netflix o di altre reti, o meglio ancora la lettura di un bel libro, un bell’ascolto di altra musica, un film, un’opera teatrale o una conversazione tra amici e famigliari.  Sanremo è il nulla in abito da sera. Al di là delle solite polemiche “esantematiche” che come il morbillo e la varicella accompagnano e guarniscono da sempre Sanremo e servono a generare curiosità e finta animazione intorno all’evento, perché una fiera così trombona  ha una platea così larga e duratura? Vero è che la metà degli spettatori vede Sanremo per disprezzarlo, e dunque l’indice d’ascolto è ben altra cosa dall’indice di gradimento; ma un fenomeno pop, trash e pulp come il Festival non può essere ignorato. In Italia un fenomeno  dicesi popolare quando i suoi numeri sono pari ai voti della Dc di un tempo: ovvero quando sono oltre i dieci milioni. Anche la Dc era disprezzata ma poi la votavano.  Non è merito del modesto presentatore o delle stupide menate sul festival inclusivo e nemmeno dei pur bravi Fiorello, Incursori o Portatrici di Messaggio. Sanremo è una formula tautologica. Si vede Sanremo perché la domenica si fa la passeggiata al corso e in piazza, e non si può essere impreparati; se ne parla al telefono, rientra nei riti domestici, civici e tribali; vediamolo, sennò di che parliamo dal bar, a cena, al telefonino? E con il Sanremo parallelo che è sui social, c’è la possibilità di rendere interattivo e critico il festival: ciascuno fa il controcanto e il controsghignazzo in tempo reale. Ed è forse la cosa più spiritosa prodotta da Sanremo, contro Sanremo.  Ho però l’impressione che Sanremo non sia più l’autobiografia della nazione, come ai tempi del regno sa-Baudo, ma l’autopsia della nazione, questo cadavere sovrappeso che ci ostiniamo a chiamare Italia. Se proviamo l’arduo esercizio dello psicofestival, per capire le molle che spingono gli italiani a “guardare Sanremo” non basterà nemmeno dire che è la coazione a ripetere, lo specchio futile del futile presente, la civetteria del pettegolezzo collettivo, il voler far parte di un racconto collettivo, la mania d’inclusione nel dire c’ero anch’io… ma c’è qualcosa in più: Sanremo è il surrogato estremo di un’identità collettiva e di una tradizione perduta e smarrita. Non andiamo più a messa, non abbiamo più vive tradizioni domestiche, cittadine, patriottiche, religiose. E allora cerchiamo in Sanremo il fantoccio rassicurante delle cose durevoli. Un placebo, una canna del gas, un gioco illusionista. E un fuoco fatuo, molto fatuo…

Marcello Veneziani   

Una spettacolare fioritura per una gioiosa visione…

Fioritura di Echynopsis

Blooming cactus timelapses  Filmed by Greg Krehel,  aka the “Echinopsis Freak”

Il cactus Echinopsis fiorisce nottetempo ed i fiori durano solo un giorno, e i fiori splendono nella loro bellezza per un’ora al massimo due.  Lo spettacolo di queste immagine è il risultato di 8 ore di filmato.

Va pensiero sull’ali dorate…finchè puoi farlo…

Mi sono molto stupita per la poca attenzione dedicata ,dal mondo mediatico di sinistra ,allo stupro di gruppo di ragazzi egiziani ai danni di una ragazzina tredicenne a Palermo. La notizia di questa ennesima violenza, estesa pure al fidanzato della ragazza, nel disperato tentativo di proteggerla, ha occupato poco spazio in quella stampa, come tacciono le femministe, sempre pronte a scagliarsi contro la minima offesa ad una donna. Non sapendo come descrivere al meglio, in par condicio , la mia disapprovazione, mi sono fatta aiutare dalla IA, alla quale ho chiesto un commento sul fatto- Se è vero che il futuro ci prospetta una stampa elaborata da questa IA, destinata a sostituire i giornalisti, non mi resta che chiedermi a quale genere di informazione saremo sottoposti, ma sono anche convinta che chi vivrà quel mondo, che non immagino nemmeno tanto lontano, penserà con la IA-

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Ecco il testo elaborato da CHAT GPT 4

La questione dell’approccio mediatico alle violenze sessuali è complessa e suscita spesso dibattiti accesi. Cercherò di esaminare alcuni aspetti che potrebbero contribuire a spiegare le differenze di copertura tra casi di stupro perpetrati da stranieri e quelli commessi da cittadini italiani.

Selezione delle notizie: I media, indipendentemente dall’orientamento politico, spesso selezionano le notizie in base a criteri di rilevanza, impatto e interesse del pubblico. Non tutti i casi di stupro ricevono la stessa attenzione. La gravità del crimine, la presenza di elementi sensazionalistici o controversi, e l’interesse del pubblico influenzano la scelta di coprire o meno un evento.

Narrativa dominante: La stampa di sinistra potrebbe concentrarsi su temi specifici, come l’immigrazione, i diritti umani o la discriminazione. In alcuni casi, questo potrebbe portare a una maggiore enfasi sugli abusi commessi da stranieri. D’altra parte, la stampa di destra potrebbe sottolineare gli episodi di violenza perpetrati da cittadini italiani per sostenere una narrativa sulla sicurezza e l’identità nazionale.

Sensibilità culturale: La copertura mediatica può essere influenzata dalla sensibilità culturale e dalle preoccupazioni politiche. Alcuni media potrebbero evitare di alimentare stereotipi negativi sugli immigrati o di creare tensioni interetniche. Allo stesso tempo, altri potrebbero sfruttare tali eventi per promuovere una determinata agenda politica.

Bias di conferma: Le persone tendono a prestare maggiore attenzione alle notizie che confermano le loro convinzioni preesistenti. Questo può portare a una percezione distorta della copertura mediatica. Se qualcuno ha già l’opinione che gli stranieri siano più inclini alla violenza, potrebbe notare di più i casi di stupro commessi da stranieri.

Contesto sociale e politico: Il contesto sociale e politico in cui avvengono gli stupri può influenzare la copertura mediatica. Ad esempio, se c’è un dibattito acceso sull’immigrazione o sulla sicurezza, i media potrebbero focalizzarsi maggiormente su casi correlati.

Partito Conformista Italiano

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Quale partito governa l’Italia? Il Partito Conformista Italiano, in sigla PCI. È un partito che travalica chi governa. E’ il partito che realmente determina l’agenda del Paese, il dibattito quotidiano, le priorità da affrontare; e che orienta chiunque abbia ruoli di potere, gestione e influenza nel nostro Paese. Il Partito Conformista Italiano esprime il Presidente della Repubblica che rappresenta il Pensiero Conforme a cui attenersi. Non esprime direttamente il Presidente del Consiglio, ma anch’egli, tecnico, politico o antripolitico, di sinistra, di centro o di destra si conforma coi suoi ministri agli indirizzi del Partito Conformista. Il PCI esercita il suo ruolo di guida soprattutto sul piano dell’informazione, della formazione e dell’istruzione degli italiani, con una spiccata propensione pedagogica e una tendenza ad ammaestrare i cittadini o a punirli e deplorarli se non si allineano. Trova terreno fertile in un Paese che da sempre va in soccorso del vincitore, si allinea, colpisce in branco chi esce dal coro.  Un tempo il Partito Conformista era d’estrazione clericale e moderata, perché presupponeva l’adesione a rituali e liturgie, a tradizioni e a retaggi di consuetudini e luoghi comuni da conservare; oggi, e non da oggi, è d’estrazione progressista e radicale, anche se resta a suo modo clericale, ma separato da ogni fede religiosa. L’egemonia del Partito Conformista, lo aveva intuito negli anni cinquanta un pensatore libero e non certo di destra come Albert Camus, è nelle mani della sinistra. In uno scritto del 1957, Il socialismo delle potenze, apparso in Italia su Tempo presente, Camus scrive: “Il conformismo oggi è a sinistra, bisogna avere il coraggio di dirlo. E’ vero che la destra non brilla per perspicacia. Ma la sinistra è in piena decadenza, prigioniera delle parole, invischiata nel suo vocabolario, capace solo di risposte stereotipate, mai all’altezza della verità, dalla quale pure pretendono di trarre le proprie leggi. La sinistra è schizofrenica e deve curarsi, con la critica spietata, l’esercizio del cuore, il ragionamento deciso, e con un po’ di modestia”. Con Camus si scopre l’affiliazione del PC italiano al Partito Conformista Internazionale. Camus coglie i primi segnali del gergo politicamente corretto, l’irrigidimento della mente e del cuore, l’atrofia delle facoltà intellettuali e critiche e soprattutto la mancanza di modestia, ovvero “la boria antipatriottica e il complesso di superiorità verso il popolo” come li chiamava da noi negli stessi anni Giacomo Noventa: tipica di quella sinistra presuntuosa che si arroga il diritto di stabilire i confini tra il giusto e l’ingiusto, il progressivo e il regressivo, il bene e il male e di decidere i buoni e i cattivi. Camus notava poi nello stesso scritto che la verità non dipende dalla collocazione di chi sostiene una tesi, come ritiene il PCI, ma dall’autenticità nella ricerca del vero: “un giornale, un libro non sono veritieri perché rivoluzionari. Hanno una possibilità di essere rivoluzionari solo se cercano di dire la verità” (In lotta contro il destino, carteggio con Nicola Chiaromonte-Neri Pozza). Da noi la verità è collocata ai piedi del Partito Conformista, allocata a sinistra e paraggi conformi. E tutto ciò che vi si discosta è considerato erroneo, arretrato, oscurantista. Se non criminale. Il Partito Conformista Italiano esercita il suo potere all’ingrosso e al dettaglio. Il regime conformista si fa vistoso nell’informazione, nella cultura, nella rappresentazione, celebrazione e titolazione degli eventi. I festival ne sono le feste patronali, basta scorrere i nomi, le compagnie di giro (c’è magari l’eccezione al puro scopo di confermare la regola ferrea). I premi letterati fanno da contorno, sono un po’ le primarie del PCI.  I premi importanti sono presidiati da editori, politici, intellettuali rigorosamente di parrocchia…che premiano esponenti e propagandisti del Partito Conformista Italiano. Sono divertenti le varianti periferiche e secondarie. Ve ne cito una pittoresca, a mo’ d’esempio, un piccolo espediente furbo del conformismo provinciale: premi letterari davvero minori vanno assegnati a firme dei principali quotidiani per ricevere in cambio la notizia del premio in bella evidenza. E’ la notizia a dare prestigio al premio, un circolo vizioso. La qualità del premiato? Chi se ne frega. Lo stesso criterio è esteso ai festival e alle rassegne: entrare nel circuito mafioso di invitare uno di cosa nostra per trovarsi citati… Gli affiliati si riconoscono tra loro come i cani, si odorano il posteriore, luogo elettivo dove esercitano la loro disponibilità, occupano le poltrone ed esprimono la loro attitudine: il cosiddetto paraculismo…Effetto diretto della dominazione del Partito Conformista Italiano è l’incapacità di selezionare una classe dirigente e l’assenza di meritocrazia nella vita pubblica, nella scuola, nei concorsi, ovunque. Insomma il PCI esprime il totalitarismo mammone e mellifluo che deborda nel nostro Paese. L’esempio primo e pessimo lo dà proprio la cultura, con annessi l’arte e lo spettacolo, che pure dovrebbero essere il riferimento in senso contrario. Tra maneggioni e conventicole, cosche spontanee e famiglie organizzate, grazie al PCI prevalgono le mafie del passaparola o del passasilenzio, del riconoscimento e dell’esclusione. Può sopravvivere uno scrittore o un artista, senza premi né riconoscimenti d’altro tipo, senza recensioni e senza accademia? La cattedra è il suo pane, l’attenzione della critica è il suo companatico, il riconoscimento è la sua acqua. Cosa resta di lui in mancanza di tutto questo? Resta solo quel che vale davvero.

da Panorama Marcello Veneziani

Novecento, il pianista sull’oceano..

 

Tutta quella città… non se ne vedeva la fine… La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine? E il rumore, su quella maledettissima scaletta… era molto bello, tutto… e io ero grande con quel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi, era garantito che sarei sceso, non c’era problema. Col mio cappello Blu. Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino; Primo gradino, secondo. Non è quel che vidi che mi fermò, ma quel che non vidi. Puoi capirlo, fratello? Quel che non vidi… lo cercai ma non c’era, in tutta quella sterminata città c’era tutto tranne..

C’era tutto  … Ma non c’era una fine. Quel che non vidi è dove finiva tutto quello. La fine del mondo.

Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere. Ma se tu…

Ma se salgo su quella scaletta, e davanti a me ..

Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi. Allora su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare. Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio.

Cristo, ma le vedevi le strade? Anche solo le strade. ce n’erano a migliaia, come fate laggiù voi a sceglierne una. A scegliere una donna, una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire. Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità, solo a pensarla? A viverla… Io ho imparato così. La Terra, quella è una nave troppo grande per me. Un viaggio troppo lungo. Una donna troppo bella. Un profumo troppo forte. Una musica che non so suonare. Perdonatemi, ma io non scenderò.

Alessandro Baricco – Novecento

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Sandra Milo si racconta…nel lontano2002

C’è stata grade partecipazione di tutta l’Italia alla dipartita di Sandra Milo. Tutti hanno elogiato la splendida donna e attrice che è stata, facendoci vedere quasi  all’unisono i momenti migliori ed entusiasmanti della sua vita, che , tuttavia, non è stata tutta rose e fiori, ma spesso, tutti quei fiori l’hanno ferita, sfregiata con le spine ben nascoste dalla stagnola con cui le venivano date. IL FOGLIO, per ricordarla nel giorno della sua morte, ha pubblicato questa intervista a Sandra, pubblicata il 31 marzo 2002.

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“All’anagrafe risulto Salvatrice Elena Greco ma appena ho potuto Salvatrice l’ho nascosto, perché se una si chiama Salvatrice poi lo diventa davvero, e io non lo volevo diventare”. E invece no, cambiare nome non le è servito a niente, il destino non si fa mica abbindolare così. Salvatrice era (per via del padre Salvatore, siciliano di Tunisi) e Salvatrice è rimasta. Per tutta la vita è stata come quei bagnini che si gettano nel mare in burrasca per salvare il cretino che non sa nuotare, col risultato che loro annegano mentre il cretino regolarmente si salva. Lei non si è mai tirata indietro per aiutare i propri uomini, esemplari che si dev’essere scelta col lanternino, visto quello che ha ricevuto in cambio: più che altro botte, querele, furti, sequestri. Un regista ultimamente le ha detto di invidiarla per la sua fortuna. “Fortunata io?”. “Sì, per la tua storia con Federico”. Al che si è fatta una risata, perché lei ride spesso e quando non ride sorride, ottimista nonostante tutto. In verità Fellini risulta l’incontro migliore, non l’ha mai picchiata, non le ha mai chiesto soldi e in più le ha regalato un posto nella storia del cinema. Ma come relazione sentimentale, se ne conoscono di migliori. Scompariva per mesi, poi un giorno telefonava: “Come sta il tuo bel culo? Stasera passo a prenderti”. Invece non passava e neanche chiamava per scusarsi. Diciassette anni così, sai che culo (ma non nel senso di Federico). “Lui poteva avere tutte le donne che voleva, e infatti andava con tutte, e poi c’era Giulietta”. Quando la prese nel letto di casa, dove di solito dormiva con la Masina, il gran riminese si eccitò a modo suo: “Dimmi che sei mia moglie”. Risposta? “Gli dissi che ero sua moglie”. Per salvare l’ispirazione di un artista questo e altro, non è mai stata la generosità a mancarle. Ma simili perversioncelle le piacevano poco. “Così facendo rubava l’identità sia a me che a Giulietta”.

Con i maschi comuni mortali non va molto meglio. Il padre è quasi uno sconosciuto: parte volontario per la guerra d’Africa nel ’36 e torna a casa nel ’48, per scoprire che durante la prigionia oltre alla guerra e all’Africa ha perso anche Ergas le procura qualche parte non memorabile; marito anni Cinquanta ne fa però una donna muta: “Non voleva che nei film usassi la mia voce. E io che avevo smesso di fare la modella perché non volevo essere soltanto un corpo…” la casa, il lavoro e tutto il resto. Pensa bene di emigrare in Francia dove se ne perdono le tracce. Il primo marito, Cesare Rodighiero, sposato a Viareggio a quindici anni, le ricorda solo un figlio perduto al sesto mese di gravidanza. Il secondo uomo si chiama Moris Ergas, ebreo di Salonicco, quasi un segno del destino visto il cognome anagrafico e quello d’arte. Ma neppure la Grecia le porta fortuna. In quanto produttore cinematografico, Ergas le procura qualche parte non memorabile; in quanto marito mediterraneo anni Cinquanta (ma tirannico al di là dell’epoca) ne fa una donna muta: “Non voleva assolutamente che nei film usassi la mia voce. E io che avevo smesso di fare la modella perché non volevo essere soltanto un corpo…”. In quegli anni un’altra italiana di Tunisi subisce la stessa umiliazione del doppiaggio, Claudia Cardinale, anche lei voce non consona. Per veder nascere il personaggio della Svampita, corpo e voce indissolubili, bisogna aspettare il 1960 e il film “Adua e le compagne” di Antonio Pietrangeli. Il successo non addolcisce il marito produttore di Salonicco, anzi, i litigi della coppia diventano una leggenda di Cinecittà. Palmira Rami, la giardiniera di Villa Rossellini a Santa Marinella, ricorda a malapena Totò e De Sica, ma conserva praticamente perfetta memoria di Ergas e Sandra Milo: “Un giorno lui gliene diede di santa ragione”. Ma niente ospedale, almeno per quella volta. Dopo “8 1/2”, che la consacra nel ruolo dell’amante tutta curve e risatine, si trova a Riccione per girare un film balneare con Enrico Maria Salerno: “Ergas era un infedele, non si fermava nemmeno di fronte alle mie migliori amiche. Però era gelosissimo. Pensando che ci fosse qualcosa tra me e Salerno una sera piombò nella mia roulotte. In realtà ero con Ottavio De Lollis, con cui stavo semplicemente parlando, e cominciò a picchiarmi selvaggiamente”. Questa volta finisce al reparto craniolesi, con una mascella slogata e i timpani sfondati. Lo sfondatimpani, invece di venire associato alle patrie galere, approfitta del ricovero in ospedale per portarle via tutto, compresa la figlia Debora. Così Sandra ridiventa Salvatrice, Grande Madre mediterranea, e comincia a fare la spola tra i set e i tribunali, tra Roma e Atene, fino a quando, nei giorni confusi del colpo di Stato dei colonnelli, con una fuga rocambolesca riesce a riportare Debora in Italia. Ricercata dall’Interpol e dagli avvocati dello slogamascelle, deve darsi per qualche tempo alla macchia, in una Regione specializzata in questo genere di soggiorni, la Calabria. Alla fine, può tornare a casa senza essere arrestata solo grazie all’aiuto di un potente amico socialista, Giacomo Mancini; ma per chiudere definitivamente la questione con l’irriducibile Moris Ergas ci vorranno quarantaquattro processi. Nei giorni della latitanza al suo fianco c’è anche il De Lollis, quello sorpreso in roulotte, rampollo della Roma bene, ramo cliniche private, con cui si sposa appena ottenuto l’annullamento del primo matrimonio. De Lollis esordisce in bellezza nel ruolo del marito: le impone di abbandonare il cinema. “A quel tempo si usava così”. Però non la picchia, e questo è un netto miglioramento. All’Amante d’Italia, che non sa cucire un bottone né cucinare un uovo sodo, non resta che provare a trasformarsi in brava donna di casa: “Mi tornarono in mente le ricette della mia nonna toscana e mi aiutai con l’Artusi”. Ma per essere brave bisogna poterselo permettere. Non è facile quando non si ha un reddito, quando i quarantaquattro processi pendono, quando De Lollis non sgancia e quando, soprattutto, l’avvocato Vassalli preme per essere pagato. “Chiesi un appuntamento per regolare la questione”. “Venga quando vuole”, rispose il futuro ministro della Giustizia. Trovano un accordo extragiudiziale.

Nel 1969 sul settimanale Oggi esce una foto che lascia sperare. Di tre quarti, con i capelli lisci, lunghi e neri, non culona e non tettona, per niente svampita, anzi asciutta e serissima, non ancora o non più deformata dalle visioni di registi, costumisti e chirurghi. Sarà l’effetto di quegli anni dionisiaci, ma non ha più nulla della Madonna Salvatrice, sembra una dea greca di quelle vendicative e cattive, una Nemesi, una Diana Cacciatrice, una Medusa dai capelli serpentini capace di pietrificare stuoli di maschi spregevoli con un solo sguardo. Ma dev’essere una breve parentesi se due o tre anni dopo, quando l’ineffabile De Lollis le proibisce di partecipare ad “Amarcord”, lei subisce senza fiatare, o non fiatando abbastanza, l’ennesimo ricatto. “Se avessi girato quel film con Federico mi avrebbe impedito di vedere i miei figli”. Allora Fellini assolda Magali Noël, e Sandra dà l’addio alla Gradisca e al grande cinema. De Lollis l’irriconoscente, in cambio, dà l’addio a Sandra, con un foglio lasciato sul letto alla vigilia di Pasqua: “Me ne vado, sarai contenta, addio”. Un’altra donna, meno Salvatrice, l’avrebbe denunciato per abbandono del tetto coniugale, gli avrebbe fatto causa per il mantenimento dei figli. Lei non chiede niente a nessuno, si rimbocca le maniche e affronta gli anni Ottanta fra radio, televisione e socialisti.

Craxi è il secondo segretario del catalogo (il primo era stato Mancini). Il Bettino conosciuto in gioventù è “grassoccio, sudaticcio, dalla mano umida”. Nella maturità, e nei ricordi di Sandra, suda di meno ma rimane lo stesso spiccio burbero di un tempo. Al Raphael, quando ha da fare, sfodera la frase che non ammette repliche: “Non ho tempo da perdere con le donne”. Lei non se la prende, è abituata a ben altro, e gli rimane fedele amica anche durante gli anni brutti, quando la corte di nani e ballerine si dilegua. Eppure della categoria inventata da Rino Formica viene considerata il più emblematico esemplare. Lei che è socialista dall’età di dodici anni: “La famiglia di mamma era molto fascista, quando arrivarono gli americani si chiusero tutti in casa a piangere, mio cugino che aveva quindici anni venne costretto a scavarsi la fossa dai partigiani. Domani ti ammazziamo, gli dicevano. Io non volevo intristirmi nella sconfitta, amici più grandi mi passarono i libri di Marx, di Engels, di Proudhon e trovai un nuovo ideale”. Lei che ha aiutato il partito più di quanto il partito abbia aiutato lei: “Quando Martelli e Balzamo chiedevano soldi io correvo a dare quello che potevo. Quando Formica aveva bisogno di voti, io andavo a presentarlo nel collegio. Gratis”. Mentre cerca di salvare loro non pensa a salvare se stessa, e in men che non si dica si ritrova tagliata fuori da tutto. Da qualche tempo al suo fianco c’è un altro uomo, non famoso, più giovane: “Siamo stati insieme sette anni, nei primi cinque è stato straordinario e negli ultimi due mi ha rubato tutto. Una volta ripulita mi ha lasciato”. Fortuna che il mitico figlio Ciro, colui per cui fu lanciato il più memorabile dei telegridi, vince una sommetta al Totocalcio. “Avevo pregato Padre Pio”, dice la madre, e infatti per tutta la casa sono sparse le immagini del santo. Con quei soldi aprono insieme un ristorante italiano a Buenos Aires, assurda, personalissima Hammamet, senza nemmeno il conforto della copertura mediatica. “Perché l’Argentina?”. “Perché non ci conoscevo nessuno”. Lei fa la cuoca, ha una lista di trenta piatti e un solo sguattero come aiuto. Lavora fino alle tre di notte ma gli affari del “Porto Rose”, questo è il nome del locale, non decollano. “Dopo due anni mi trovo con l’acqua alla gola, svendo tutto a un uomo che mi dà giusto i soldi per i biglietti di ritorno”. Deve vendere anche le pellicce ma poi, in Italia, le cose ricominciano piano piano a girare: “I più mi hanno voltato le spalle, ma questo è normale, è la vita, l’importante è che qualche amico disposto ad aiutarmi alla fine l’abbia trovato”. Ogni tanto un’ospitata, un madrinaggio, un po’ di televisione con Limiti e Cucuzza. A breve comincia a girare a Bologna con Pupi Avati ed è il rientro nel grande cinema, trent’anni dopo la Gradisca perduta. Adesso l’unico uomo della sua vita è Ciro. Vivono insieme dalle parti della Laurentina, fuori del Raccordo Anulare, in fondo a una strada sconosciuta anche ai tassisti, in una villa rosa in mezzo ad altre ville rosa, unico segno di vita il rumore dei tosaerba, una Beverly Hills che profuma di abbacchio perché anche al sempre sorridente Ciro piace cucinare, sotto lo sguardo della Grande Madre, che tutto vuole salvare e che tutto, alla fine, certamente salverà.