La magia de “L’Infinito” di Giacomo Leopardi, che ci spinge a guardare oltre i confini imposti dal reale per vivere il piacere e la felicità.

 

L’Infinito è una delle poesie di Giacomo Leopardi più belle, dove il Poeta riflette oltre le cose materiali varcando l’immaginazione per entrare negli spazi sterminati dell’interiorità ,unica via per la ricerca del piacere e della felicità, che ,non trovando conferme nel reale, genera quel Pessimismo tipico del grande genio ,che è consapevole fino in fondo di ciò che lo circonda e dei limiti che la vita gli ha offerto.

Ma, oggi si può benissimo guardare all’”Infinito” da un altro punto di vista, anche perché quella solitudine che dona al poeta quell’”ermo colle” nell’era della “connessione perenne” rischia di non essere possibile, poichè l’uomo si dedica poco o niente all’introspezione.
Questa poesia è oggi patrimonio dell’Umanità.

L’Infinito

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Giacomo Leopardi

La lirica è un viaggio verso l’infinito piacere e la felicità,oltre la realtà della vita, come la Divina Commedia fu il viaggio di Dante verso Dio. Per Leopardi come per noi l’Infinito non è altro che un viaggio tra il finito e l’infinito, nel mondo delle illusioni dove l’uomo vuole cercare la felicità in un futuro, che poi si rivelerà essere un meraviglioso irraggiungibile miraggio. Viene fuori il pessimismo , che è il light motiv di tutto il pensiero leopardiano, la dolce tristezza di un cuore restio alla resa dell’evidenza di una natura matrigna, che lo induce alla continua riflessione sulla vita dell’uomo. Infatti possiamo trovare la felicità soltanto in quel luogo oltre il colle, oltre la siepe, quando ci perdiamo in quello spazio infinito, che ci mostra la bellezza dell’eternità.

infiito

Mai la messa con le chitarre e coi bonghi…

 

Meglio quella in rito ambrosiano, con devozione vibrante e preghiere in latino, canti in latino e brevi omelie in italiano

tetto chiesa

Ma vacci tu, Diotallevi, alla messa coi bonghi. Il sociologo Luca Diotallevi, Dio lo illumini, è convinto che la crisi del cattolicesimo si risolverebbe se tutti i cattolici confluissero nelle parrocchie. Basta distinguo! Basta movimenti! Basta messe in latino! Tutti dal parroco amico di Zuppi! Bene, domenica scorsa sono stato alla messa in rito ambrosiano antico a Santa Maria della Consolazione, Milano. Arrivato in anticipo immaginavo di trovare una chiesa semideserta e invece, pur non piccola, era strapiena. Nessuna possibilità di sedersi se non per terra. Una messa incredibilmente giovane, tanti ragazzi, tantissime ragazze (sedute per l’appunto anche per terra), parecchie donne velate. Devozione vibrante. Preghiere in latino, canti in latino, in italiano solo la breve omelia. Frequenti inginocchiamenti, sforzo minimo per chi dispone di inginocchiatoio, medio per chi disponendo di sedia deve inginocchiarsi sul pavimento ma può appoggiarsi allo schienale davanti, notevole per chi come me pone le rotule sulla pietra senza attenuante alcuna. Organo a canne. Comunione alla balaustra (sulla lingua). Chi frequenta una messa così (la consiglio per domani) mai frequenterebbe quel pezzo di modernariato anni 60-70 che è la messa cattoprotestante, stile Cei, con le chitarre e i bonghi. Mai.

 

Camillo Langone

da IL FOGLIO                                                                                         

Papa Francesco II

 

 

Habemus papam Francesco II. È subentrato al suo omonimo predecessore e spiazza un po’ tutti, in particolare coloro che amavano e coloro che detestavano il papa di prima. E’ decisamente contro l’aborto, che definisce senza mezzi termini un omicidio, è fortemente impegnato nella difesa della famiglia e della natività, condanna l’eutanasia, gli uteri in affitto e non si trattiene dal denunciare che “c’è troppa frociaggine” nella Chiesa, usando un linguaggio che per taluni è “papale papale” per altri è scurrile, non adatto a un Papa. E’ vero che poi si è scusato, sollecitato a gran voce dai bigotti del politically correct che amano correggere le dissonanze con l’ipocrisia; ma le scuse possono riguardare quel che ha detto, ma non sopprimono, non revocano quel che ha pensato; sono una rettifica dell’espressione usata, ma non possono essere una ritrattazione delle sue convinzioni.  Da anni il Papa denuncia la presenza di una lobby gay all’interno della Chiesa, e vede insinuarsi il pericolo di un reclutamento omosex nei seminari. Ciò non toglie che il Papa ribadisca il rispetto, l’apertura e l’affetto verso tutti, gay inclusi, indipendentemente dalle inclinazioni sessuali. Il Papa non equipara le coppie omosessuali alle famiglie, anche perché sarebbe incoerente col magistero della Chiesa, ma non vuole giudicare né occuparsi delle loro scelte intime, private. Però da tempo mostra disagio per la presenza di conventicole gay, gruppi di pressione, lobbies appunto, all’interno della Chiesa; quello che altrove viene chiamato “amichettismo”. Certo, dicendo che in Chiesa “c’è troppa frociaggine”, il Papa ha dimenticato la storia recente della Chiesa. Due o tre predecessori recenti di Papa Bergoglio, erano “in odore di frocità”, per restare nel suo gergo da caserma più che da parrocchia. E di alti prelati gay si intuisce la presenza anche tra i cardinali odierni.  In tema di accoglienza dei gay in Chiesa, la condizione, ribadita anche di recente, è che non pratichino la loro attività sessuale. C’è chi si indigna che il Papa e la Chiesa non riconoscano “quell’elemento fondamentale della loro personalità che è la sfera erotica”, come scrive su la Repubblica Luigi Manconi, in un articolo peraltro non banale. Ma se è per questo, anche ai sacerdoti eterosessuali la chiesa interdice la sfera sessuale. Non si può giudicare la Chiesa come se fosse un’associazione qualunque, non si possono ignorare i principi morali e religiosi su cui è fondata, tra cui la castità e l’astinenza. Chi fa quella scelta sa già in anticipo a cosa va incontro, quali sono le rinunce a cui si impegna; nessuno lo costringe a farla, ma se la fai poi ti devi attenere alle regole. E’ come se qualcuno scegliesse la carriera militare e poi dicesse che aborre l’uso delle armi. Per semplificare la linea della Chiesa bergogliana in tema di omosessualità potremmo dire in sintesi: gli omosessuali hanno pari dignità di ogni altro essere umano e credente; le porte della Chiesa sono aperte per lui. Sul piano dei comportamenti, nessuna interferenza sulla condotta delle coppie omosessuali che possono essere riconosciute a tutti gli effetti unioni civili ma non equiparate ai matrimoni e alle famiglie. Così porte aperte della Chiesa agli omosessuali ma se prendono i voti devono avere un comportamento conseguente, non possono praticare la loro omosessualità. E’ la distinzione tra l’essere e il fare: la Chiesa rispetta la persona ma se entra in seminario o in parrocchia, non può comportarsi come se fosse fuori. E non parliamo poi della pedofilia.   Torniamo al Papa Francesco II. A dir la verità, non è un rovesciamento di posizione rispetto al passato, semmai un assestamento, un riequilibrio, forse un po’ gesuitico, comunque un’integrazione: la linea del Papa si è meglio chiarita e articolata negli ultimi tempi, con l’ultimo documento papale e alcune sue dichiarazioni recenti. Bergoglio è nella linea della tradizione cattolica sui temi che riguardano la vita, la nascita, la morte, i matrimoni, la famiglia, il sesso; mentre sul piano storico, sociale e civile è decisamente dalla parte dei poveri del mondo, contro il capitalismo, lo sfruttamento e il consumismo, per l’accoglienza dei migranti, per la giustizia sociale e per la pace. Potremmo definirlo un conservatore rivoluzionario, socialista e reazionario; per forzarlo nelle categorie politiche, ha una posizione di destra morale e di sinistra sociale, con qualche impronta giovanile di peronismo.  Il vero problema che resta per il pontificato di Papa Francesco non è la sbandata a destra o a sinistra, come gli viene rimproverato a turno, secondo i versanti. Il vero problema irrisolto è la crisi della Chiesa, la scristianizzazione del mondo, il declino della fede, soprattutto in Occidente; le chiese deserte, la subalternità psicologica all’invasione islamica, l’incapacità di risvegliare la spiritualità, l’assenza di modelli positivi, di esempi, di santi. Si tratta di un processo che travalica i secoli e i papi. Bergoglio qui è perdente come i suoi predecessori, ma senza la loro autorevolezza, appare più inadeguato, non ha il carisma di Giovanni Paolo II né la dottrina di Benedetto XVI. E per avvicinare i lontani, ha allontanato molti vicini, credenti nostrani.  Insomma, a parte qualche caduta di stile, Francesco II ha riequilibrato la barca di Pietro, troppo sbilanciata sul versante opposto dall’altro Francesco. È stato infine divertente vedere l’imbarazzo del Partito Progressista Bergogliano, che vedeva in lui il leader del campo largo – come ha detto il giullare di quel mondo, Roberto Benigni – e invece si è trovato spiazzato dalle sue parole frociate.

Alain Delon..

alain Delon

 Penso che pochi uomini siano entrati nell’immaginario femminile come è stato ‘per Alain Delon, la sua bellezza era folgorante, maschile nonostante il tutto bello che c’era  nel suo volto. I suoi occhi chiari sprigionavano un fascino irresistibile, e si comprendono tutti i suoi amori durevoli  od effimeri. Vederlo insieme a Romi Schnaider, uno dei suoi grandi amori, riempiva un quadretto di perfetta sintonia, stupiva chiunque lo incontrasse, nonostante non avesse un carattere facile, e non avesse quella statura particolarmente alta… forse avrebbe avuto troppo.  Ma la vita  è inesorabile, non guarda in faccia nessuno, gli anni che passano non ti chiedono chi sei , come fa il mondo reale, per riservarti un trattamento di favore.Nella sua vecchiaia non è un uomo felice e mi rattrista pensare che ,in fondo in fondo, nonostante i successi, le favole vissute,  tendiamo tutti alla medesima fine.

Il segreto antico del miracolo italiano

Il vero miracolo italiano non è il boom economico tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta del secolo scorso, l’epoca dei boomers e dello sviluppo straordinario di un Paese passato da agricolo e premoderno a industriale e avanzato; invaso dalle fiat e dai frigoriferi, dell’immigrazione a Torino, Milano e Roma, pervaso dalla fiducia e della dolce vita. Il miracolo italiano, quello che rende ancora oggi questo paese unico al mondo e meta universale di turisti, visitatori e pellegrini, è nato alcuni secoli prima. È quando l’arte incontrò il pensiero e la religione e nacque quell’irripetibile miracolo che la rese patria mondiale della bellezza, dell’arte, del genio e della fantasia.
In principio fu Platone che ebbe secoli dopo il suo transito terreno, due figli: Plotino, nato sulle sponde del Nilo forse da famiglia romana e Agostino, nato a Tagaste, in Algeria. Due emigrati d’eccezione. Plotino fondò la scuola platonica a Roma, portando la sapienza greca e orientale nel cuore dell’impero e poi della cristianità. Agostino, il berbero, il fenicio, venuto a Milano, tradusse Platone nel cristianesimo e congiunse la filosofia antica alla teologia cristiana.
Non capiremmo Dante, il padre della civiltà italiana e universale, senza quei presupposti. Platone sbarcò a Firenze nel quattrocento. Ad annunciarlo fu un singolare filosofo bizantino, Giorgio Gemisto detto Pletone, per assonanza col Maestro; ma poi a rendere Platone di casa a Firenze fu un singolare pensatore, teologo, astrologo e traduttore: Marsilio Ficino, nativo di Figline Valdarno (dove l’ho ricordato ieri sera in un incontro) che ebbe in dono da Cosimo de’Medici un palazzo a Careggi, dove rifondò l’Accademia platonica, divenuta Accademia fiorentina. La frequentavano Poliziano, Pico della Mirandola, gli stessi Cosimo e Lorenzo de’Medici e molte eccellenze del suo tempo.
Ficino tradusse, tra l’altro, il corpus platonico, le Enneadi di Plotino, le opere dei neoplatonici e il de Monarchia di Dante in lingua “italiana”. Definì Dante in modo perfetto: “per patria celeste, per abitatione florentino, di stirpe angelico, in professione philosopho poeticho”. Ficino dette una base di pensiero, una teoria, a quella fioritura eccezionale di artisti che tradussero i miti dell’antichità e la storia sacra del cristianesimo in figure, memorabili affreschi e pale d’altare. Botticelli, Tiziano, Raffaello, Tintoretto, Piero della Francesca, e poi Michelangelo e Leonardo, solo per citare i nomi universalmente noti. La religione si fece narrazione figurativa, attraverso capolavori che furono la traduzione della fede in bellezza: la Pietà, il giudizio universale, l’Ultima cena, solo per citarne alcuni. Ma anche la magia, la tradizione ermetica, il mondo degli dei, la scuola di Atene. Il pensiero mescolato alla teologia si fece pittura. E da quell’incrocio creativo di mito, pensiero e religione, o  – se preferite – di grecità, romanità e cristianesimo, nacque il miracolo italiano. In quel tempo fu soprattutto miracolo fiorentino, i mecenati, oggi diremmo gli sponsor, i committenti furono i papi e i signori del tempo. Di quel miracolo, Marsilio Ficino fu il crocevia nel Quattrocento: nato nel 33, vissuto 66 anni, morto nel 99: chi crede alla simbologia numerica forse darà un senso a quelle date ternarie.
Marsilio Ficino era figlio del medico dei Medici, non è un bisticcio; fin da ragazzo fu apprezzato dai signori di Firenze come una mente illuminata. Era un po’ gobbo, bleso, aveva un’indole malinconica, comune a molti spiriti magni; suonava inni orfici col liuto, componeva canti astrologici, studiava la magia, simpatizzò per Savonarola. Per lui l’amore era amaro; l’amore non corrisposto, diceva, era una morte in vita; e probabilmente c’era qualcosa della sua vita in quel pensiero.
A lui si deve la rinascita di Platone in Italia e della tradizione che parte da lui. Le sue due maggiori opere, il de Amore e la Theologia Platonica, esordiscono con la parola chiave: Plato, il suo ispiratore. Non è un pensatore originale, Marsilio Ficino, ma non vuole esserlo, come non volle esserlo Plotino, che si schernì dicendo che aveva solo ripreso le fonti della sapienza, aveva rianimato il pensiero di Platone e del suo magnifico allievo, Aristotele: “Le nostre teorie non sono nuove né di oggi”, vengono da molto lontano. Per loro era più importante la Tradizione che essi rappresentavano, piuttosto che l’originalità di un ingegno solitario. E corale fu il miracolo italiano, il frutto irripetibile e prodigioso di un clima, di un pensiero che s’incarnava in pittura, poesia, bellezza.
Ma lo scopo non era estetico, rivolto solo al piacere del bello; perché la bellezza, come l’amore, era un modo per elevarsi a Dio, per avvicinarsi alla Bellezza divina, di cui era un riflesso e un presagio. L’amore era per Ficino un’ascesa al cielo, in un percorso di purificazione, sublimazione e spiritualizzazione dell’eros. Dio crea la mente angelica, poi l’anima e infine il corpo dell’universo.
La forza segreta di quel miracolo era nella fusione di espressioni e ambiti che noi oggi immaginiamo separati: la pittura, l’architettura, in generale l’arte; la meditazione filosofica, i saperi magici, la scienza; la fede e la visione di Dio. Anche i corpi erano presagio e annuncio di una vita spirituale.
Marsilio Ficino è considerato il padre della psicologia. Ma quel padre era figlio al tempo stesso delle forme e degli archetipi platonici, di Plotino e di Sant’Agostino, del paganesimo e del cristianesimo, e della fede unita alla magia attraverso i misteri. Prese tante direzioni il pensiero rinascimentale, e anche l’arte; col tempo si fece scienza, in alcuni casi divinizzazione (si pensi a Pico) dell’uomo al centro dell’universo.
Ma con Marsilio Ficino quel mondo, quella gerarchia di esseri e di beni, per citare San Tommaso, era ancora coesa, unita, non si pensava separata.
Cos’è l’anima per Ficino? E’ copula mundi, come lui la definisce, unifica l’universo, si fa anima mundi e lega tutte le cose, visibili e invisibili. Non capiremmo la psicanalisi di Jung senza il platonico Marsilio; un famoso allievo di Jung, James Hillman, riconobbe il debito verso il fiorentino e verso quella linea platonica, che passa da Plotino e giunge fino a Vico. E come in Vico è fondamentale in Marsilio l’immaginazione, la fantasia creatrice. Anche Marsilio vede i dodici Dei come archetipi della psicologia; gli dei perduti, per Jung sono diventate malattie dell’anima.  Perché ricorrere alla psicanalisi moderna e nordeuropea, dice Hillman a noi italiani e mediterranei, quando avete la tradizione originaria in casa, le fonti di una “psicologia straordinaria”. Occorrerebbe, dice, rifarsi alla “controeducazione” di Marsilio Ficino.
Insomma, quello fu il vero miracolo italiano che ha sparso nella penisola città d’arte, cattedrali, luoghi mirabili e capolavori. Ogni tanto ricordiamoci su quali tesori siamo seduti, e ripensiamo alle fonti artistiche e fantastiche, filosofiche e teologiche, di quel miracolo.

Marcello Veneziani                                                                                                             

Gli scrittori odierni che da bambini si permettevano di rifiutare le verdure..

Il misconoscimento letterario di Susanna Agnelli è una forma di classismo al contrario. Oltre che il modo per perdersi un grande esempio di stoicismo moderno. Altro che quelli di oggi.

susanna

“Appartengono alla letteratura tutti i libri che si possono leggere due volte” ha decretato Gómez Dávila, e dunque “Vestivamo alla marinara” di Susanna Agnelli è letteratura. L’ho letto nell’altro secolo, l’ho riletto ora con nuovo piacere e nuovo profitto. Il misconoscimento letterario di Susanna Agnelli è una forma di classismo al contrario. Oltre che il modo per perdersi un grande esempio di stoicismo moderno (stoicismo di lusso ma pur sempre stoicismo). Infermiera ovviamente volontaria abbracciava le tubercolotiche morenti che le colleghe schifavano, guidava ambulanze sotto i bombardamenti, attraversava il Mediterraneo su navi ospedale spesso silurate dagli angloamericani (in barba alla Convenzione di Ginevra), sfidava le pallottole dei cecchini fascisti, a Firenze, per recuperare il corpo di una donna colpita malgrado l’evidente gravidanza… Senza mai una lamentela, puro dovere e puro stile fin nella scrittura asciutta, perfetta, senza un grammo di grasso e di compiacimento. Anche un grande esempio di educazione (a Torino, da piccola): “Se uno non finiva tutto quello che aveva nel piatto se lo ritrovava davanti al pasto seguente”. Dopo Susanna Agnelli come faccio a leggere gli scrittori odierni, senza vita e senza stile, che da bambini, è chiaro, si permettevano di rifiutare le verdure?

Camillo Langone  __da il FOGLIO             

M.G.Benoist, “Ritratto di una donna nera”: la storia di due donne.

Se fosse stato dipinto oggi e messo in mostra in questi nostri tempi, in cui il contesto storico ha ridimensionato il pensiero e il sentire comune, integrando nelle nostre vite la gente di colore, e tutte le persone considerate anormali, nessuno ricorderebbe la sua esistenza e lo scalpore che fece a quei tempi. Oggi si può ammirare al Louvre e capita ancora di imbattersi in qualche rivista, magari non attualissima, che ne racconta la storia.

M.G.Benoist, “Ritratto di una donna nera”: la storia di due donne

Parigi,primavera del 1800, grande eccitazione per l’edizione annuale del Salon, l’esposizione ufficiale di belle arti. E’ la prima, da quando Napoleone Bonaparte ha iniziato, con la nomina a Console, la sua irresistibile ascesa politica. Mai come questa volta, le sale sono affollate: raffinati gentiluomini e signore alla moda, si fermano perplessi davanti a un dipinto. Nell’aria c’è odore di scandalo. Dopo la Rivoluzione, anche le donne sono state ammesse a esporre. Ed è proprio una pittrice, Marie-Guillemine Benoist (1768-1826), a presentare il quadro che ha fatto scalpore. Perchè il dipinto, di cui si parla tanto, è questo:

negresse Benoist

Una giovane donna, vista di tre quarti, è seduta su una sedia “a medaglione”, vestita da un tessuto blu, riccamente drappeggiato, in una posa riservata ai ritratti delle dame dell’alta società, come la tunica alla moda stretta in vita da una sottile cintura rossa. Lo sfondo è spoglio, il tono austero, la presenza di accessori ridotta al minimo, come nei ritratti alla moda di Jacques-Louis David, il pittore più celebre del tempo. Ciò che sconvolge è il fatto che la donna è nera e per la prima volta rappresentata come una dama e  non in uno stato servile, l’unico concesso per inserire i neri nei dipinti. È vero che, nel Salon di due anni prima, il ritratto di un nero aveva riscosso gran successo, ma lì si trattava di un noto deputato della Convenzione, il primo proveniente da Santo Domingo. Qui è diverso: una donna nera qualsiasi e, in più, raffigurata come fosse una signora. Inaccettabile. I più colti e tradizionalisti rimproverano alla pittrice di aver scelto un soggetto che contravviene alle più elementari regole accademiche.
“Le sujet noir et la couleur noire est un exercice rebelle a l’art de la peinture, Il soggetto nero e il colore nero è un esercizio contrario all’arte della pittura”: citano a memoria. E lei, invece, evidenza proprio il colore della pelle, giocando sul contrasto tra il nero e il bianco immacolato della veste.
E, poi, ha scelto come titolo “Portait d’une negresse, ritratto di una negra”
Anche se allora, lontano dai tempi del “politicamente corretto”, il termine “negresse, negra ” non aveva alcun senso peggiorativo, comunque ribadiva l’anonimato della modella e il connotato razziale.

Invece, per la pittrice, la giovane non era una sconosciuta , pare fosse una domestica al servizio della famiglia, portata in Francia dalla Guadalupe.
Una domestica, però, non una schiava. La schiavitù era stata abolita, appena sei anni prima, con una legge a lungo contestata dai proprietari delle piantagioni dei territori oltremare, convinti di non sopravvivere senza manodopera a costo zero. La tratta di schiavi dall’Africa era stata tacitamente mantenuta: i neri erano considerati, comunque, degli esseri inferiori. Nel dipinto, no. L’ex schiava è raffigurata con dignità, sensibilità e attenzione ai sentimenti: nel volto una malinconica rassegnazione e la vulnerabilità di chi è costretto a vivere in un mondo estraneo.
Non si pensava nemmeno che una pittrice potesse fare critica sociale. Eppure ha inserito un’ allusione alla legge contro la schiavitù nel copricapo, che ricorda, sia l’acconciatura tipica delle donne antillane che il berretto frigio dei rivoluzionari. E poi i colori, bianco, rosso e blu, sono quelli della bandiera della Francia, il paese che, almeno nominalmente, ha portato la libertà. Non basta: i visitatori appassionati di pittura non possono non cogliere un altro elemento.  Il seno nudo non ha niente di malizioso, anzi. Insieme alla posizione delle mani e allo sguardo diretto verso lo spettatore, è un riferimento preciso a un dipinto celeberrimo: la “Fornarina” di Raffaello. Una domestica, una ex schiava nera, nobilitata dal richiamo a una tradizione pittorica illustre. Ce ne sono di motivi di scandalo. E la pittrice non può ignorarli.

fornarina

Figlia di una famiglia di piccola nobiltà, ha iniziato a dipingere nello studio di una ritrattista famosa, Elisabeth Vigé-Lebrun.
Durante la Rivoluzione ha cessato ogni attività ed è sopravvissuta a stento, nascosta per sfuggire alla ghigliottina, insieme al marito aristocratico e convinto realista. Ma ora la paura è finita. È ambiziosa e, dopo che ha avuto la possibilità di frequentare l’atelier di David e di esporre al Salon, vuole ottenere la sua affermazione pubblica. Nella primavera del 1800 le vicende delle due donne si intrecciano: la modella non è più schiava e la pittrice può esercitare il suo mestiere.
C’è empatia e comprensione: entrambe si sentono, finalmente, libere. Il dipinto, malgrado qualche aspro giudizio negativo, è un trionfo poichè
il pubblico più illuminato vede un manifesto dell’ emancipazione dei neri e delle donne. Molti lo condividono. È un clima di entusiasmo, che non durerà a lungo. Due anni dopo, nel 1802, Napoleone cederà alle pressioni dei grandi proprietari di piantagioni e la schiavitù verrà ristabilita. La repressione sarà feroce. Tra le due donne, a questo punto, si aprirà un abisso.
Non sappiamo quale sarà la sorte della giovane del ritratto; probabilmente continuerà a rimanere al servizio della famiglia, come schiava e per tutta la vita. Marie-Guillemine Benoist sarà riassorbita nel conformismo dell’alta società e diventerà la ritrattista ufficiale della famiglia Bonaparte. Finirà per rinunciare alla pittura, un’attività giudicata poco consona alle cariche pubbliche sempre più importanti, assunte dal marito.
Entrambe rientreranno nei loro ruoli: il breve momento, che le ha viste unite e uguali, è finito.

E se un giorno ci svegliassimo mutati nel prodotto del nostro lavoro?

                                           Arbeitsapokalypse

 E se un giorno ci svegliassimo mutati nel prodotto del nostro lavoro? «Arbeitsapokalypse» è il racconto di Michele Ghiotti

Illustrazione di Elena Beatrice

Ma Giove fatto accorto, per le cose passate, della propria natura degli uomini, e che non può loro bastare, come agli altri animali, vivere ed essere liberi da ogni dolore e molestia del corpo; anzi, che bramando sempre e in qualunque stato l’impossibile, tanto più si travagliano con questo desiderio da sé medesimi, quanto meno sono afflitti dagli altri mali; deliberò valersi di nuove arti a conservare questo misero genere: le quali furono principalmente due. L’una mescere la loro vita di mali veri; l’altra implicarla in mille negozi e fatiche.

(Giacomo Leopardi, Storia del genere umano)

Il 14 marzo 2067, bicentenario del Capitale, tutti gli uomini e le donne della Terra si risvegliarono nei loro letti (ma anche su amache, tatami e pavimenti) con un corpo nuovo. Una stupefacente metamorfosi li aveva trasformati nello strumento o nel prodotto del proprio lavoro, secondo quella che divenne nota come la Legge di Luciani. Così – basti un esempio per settore economico – i contadini divennero pomodori, avocado e banane. I meccanici marmitte fumanti, pistoni e ammortizzatori.[1] I banchieri gruzzoli di banconote, pacchetti di azioni e bitcoin. I web manager algoritmi ipercinetici.[2] Il futurologo fisheriano Alan Luciani l’aveva previsto ben quarantanove anni prima nel suo libro Arbeitsapokalypse e al Graham Norton Show, ma nessuno, e si può ben capire, gli aveva creduto. Nonostante avesse propugnato la sua teoria con un’eloquenza e una convinzione commoventi, era stato deriso sia dal conduttore sia dai tabloid.[3] Tutti i Paesi precipitarono nell’anarchia perché i governanti, senza distinzione di forme di Stato, si risvegliarono con scarpe oblunghe, facce dipinte e nasi da clown. Tutti i sistemi economici perirono. Il primo a morire fu il capitalismo, dato che l’intera massa di trader e commercianti si era transustanziata in merce, la quale, senza più venditori, rimase ad ammuffire nei magazzini. Nemmeno i Paesi statalisti sopravvissero, con l’aggravante che i prodotti in cui mutarono gli esercenti erano di minore qualità. Daremo ora conto delle trasformazioni più curiose da un punto di vista storico-sociologico. Gli intellettuali – rinomati accademici o incompresi geni di provincia – si disincarnarono in fluttuanti idee, ora dense come cumulonembi ora vane come aria rarefatta: alcune migrarono verso le loro sedi iperuraniche, altre svanirono nell’atmosfera come spruzzi di deodorante, altre ancora ristagnarono come cappe di smog sulle città. Gli scrittori, ovviamente, si tramutarono in libri: ognuno nell’ultimo che stava scrivendo, pronto per la stampa o illeggibile che fosse. Si può immaginare che in genere ne furono contenti, dato che una delle loro maggiori aspirazioni era quella di essere identificati con la propria opera.[4] Caso particolare fu quello dei poeti, quelli veri, che si trasformarono in silenzi sacri e spaventosi, in cui era custodito l’enigma del mondo, e probabilmente, il senso ultimo di quanto era accaduto.[5]Gli insegnanti ebbero sorti diverse a seconda del loro temperamento. I gelidi esecutori divennero noiosi manuali scolastici e pedanti regolamenti finiti nel dimenticatoio. I buonisti palline di carta masticata, bigliettini e bottiglie flippate sui banchi. Gli appassionati, invece, fuochi, ora fatui, ora veri e propri roghi, quegli stessi fuochi che avevano cercato di accendere nelle testoline (e, nel migliore dei casi, nei cuoricini) dei loro alunni. Bruciarono fino a consumarsi e tutto finì lì.

I religiosi scomparvero da un giorno all’altro. Tutti, senza eccezione: papi, vescovi, preti, rabbini e imam (svanirono in un lampo di luce accecante); monaci buddisti, taoisti e shintoisti, dalai lama e bramini (si dissolsero in un sonoro gong); santoni, sacerdoti neopagani e streghe wicca (si dileguarono in un refolo di vento).[6] Chi furono quindi i sopravvissuti? Per uno strano capriccio del destino, gli unici che, sfuggendo alla Legge di Luciani (senza che questi l’avesse previsto), si risvegliarono tali e quali a come si erano addormentati furono i disoccupati, i pensionati e, soprattutto, coloro che avevano fatto del proprio corpo uno strumento di lavoro. Schiavi, braccianti, muratori, operai, guardie del corpo, vigili del fuoco, poliziotti (tranne quelli cattivi, ridotti a bossoli e macchie di sangue sull’asfalto), atleti, massoterapisti, ballerine, performer, prostitute, assistenti sessuali e sex worker[7]. Furono loro, sopravvissuti a un novello diluvio, a ripopolare il mondo.

Ne sarebbe stato felice Marcuse.[8] E, probabilmente, anche Alan Luciani.

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[1] Per quanto riguarda il settore secondario merita una menzione il bizzarro caso dell’industria del bedding. Nel mattino del 14 marzo comparvero sui letti vuoti altri letti, supini, proni o adagiati sui lati, a seconda di come si erano addormentati i malcapitati.

[2] Ci riferiamo qui al quaternario.

[3] Il futurologo si era infine suicidato, dandosi stoicamente la morte tramite il suo strumento di lavoro, una proletaria Bic cristal blu, che si era infilato su per il naso fino a metà, prima di sbattere con forza la testa sulla sua scrivania, una proletaria Linnmon / Adils Ikea, conficcandosi la penna nella scissura interemisferica e perdendo i sensi per poi morire dissanguato.

[4] La prima era ovviamente quella di essere amati e celebrati dall’intera umanità, cosa impossibile di per sé, figuriamoci in uno scenario del genere.

[5] Non possiamo qui fare riferimento, per questioni di spazio, a tutte le categorie di artisti. Basti sapere che accadde più o meno a tutti la stessa cosa: a) i musicisti si trasformarono in strumenti musicali e canzoni; b) i pittori e gli scultori in dipinti e statue; c) gli attori, gli sceneggiatori e i registi in film; d) i disegnatori e gli animatori in fumetti, cartoon e anime; e) gli artisti concettuali, ovviamente, in riviste di enigmistica.

[6] C’è chi disse che quell’improvviso eclissarsi dimostrava senza dubbio alcuno la non esistenza di favole metafisiche. Secondo altri, invece, era indizio sicuro dell’ascesa a una realtà superiore o addirittura di una vera e propria deificazione.

[7] Non le pornostar né i content creator di Only Fans, che si tramutarono in video hot presto dispersi nella rete. Cfr. nota 5 punto c.

[8] Vd. H. Marcuse, Eros e civilità, Einaudi, 1964 (ed. originale 1955).

Michele Ghiotti

2 giugno, perché uniti, perché divisi…

Nel giorno del suo compleanno repubblicano, una nazione civile e democratica, dove libertà fa rima con dignità, dovrebbe avere in mente soprattutto una cosa: l’amor patrio è il primo valore condiviso di una comunità nazionale e come tale va preservato e alimentato. Ma è anche il luogo in cui, legittimamente, si distinguono e si divaricano le culture della cittadinanza. Cosa voglio dire? Il 2 giugno è la piazza in cui si incontrano, si salutano e si differenziano, in modo civile, gli italiani. Quali sono i valori comuni che si celebrano nell’amor patrio? Il rispetto del popolo sovrano, della sua storia e delle sue istituzioni, delle sue leggi e della dignità individuale e collettiva; il rispetto della libertà e della democrazia, delle sue regole e dei suoi verdetti; il rispetto dell’Italia, della sua integrità territoriale, del suo paesaggio e del suo linguaggio, delle sue città e delle sue culture, nel quadro di una scelta di civiltà europea e di pace internazionale. E dunque la difesa della patria in caso di pericolo. E’ inutile aggiungere cosa ci unisce in negativo: il rifiuto della violenza, dei totalitarismi e dei regimi oligarchici, ecc. Di tutto questo il presidente della Repubblica dovrebbe essere il supremo garante, ma non il solo: le forze armate e le forze dell’ordine, la magistratura, la cultura e tutti i rappresentanti dello Stato devono farsene garanti. Però non siamo ipocriti: sappiamo che accanto a valori condivisi e a regole comuni e comunemente accettate, ci sono anche motivi di contrasto. Se fingiamo che intorno al 2 giugno e all’amor patrio non ci siano motivi di divergenza, facciamo abortire la festa; ne diamo una versione falsa, puramente cerimoniosa, che nasconde il germe della doppia verità, del finto ossequio. E allora un paese civile, una democrazia sana, non scaccia le divergenze ma cerca di immetterle nel libero gioco della politica e delle culture plurali. E allora dopo aver indicato i punti che ci dovrebbero unire, da destra a sinistra, passando per il centro e per le periferie, provo a dire onestamente cosa ci divide il 2 giugno. Non prendetelo come un esercizio diabolico, di chi vuol seminare zizzania e secessione il giorno delle nozze, ma come una precisa e leale dichiarazione di intenti e di dissonanze. Dunque provo a puntualizzare le differenze.
1) Le culture di centro-sinistra ritengono che l’amor patrio sia fondato sul patto costituzionale, mentre le culture di centro-destra ritengono che prima della costituzione formale, sancita da una carta, vi sia una costituzione reale o materiale che nasce e si forma nel corso della storia e della vita di una comunità. Patriottismo della costituzione da una parte, patriottismo della tradizione dall’altra. Certo, i primi non possono negare importanza alla tradizione di un popolo, così come i secondi devono rispettare le regole sancite dalla Costituzione. Ma i primi affidano il patto tra i cittadini a quella carta, mentre i secondi la affidano alla storia e alla realtà di una nazione. Magari passando per le patrie locali.
2) Di conseguenza, l’amor patrio dei primi si identifica con la nascita dell’Italia repubblicana e antifascista e si situa storicamente in quel quinquennio che va dalla caduta del regime fascista alla promulgazione della costituzione, passando per la guerra di liberazione, il referendum e il ritorno della democrazia. Per i secondi, invece, l’amor patrio è una consonanza antica, coincide con l’essere italiani, indipendentemente dai regimi e dalle costituzioni; e dunque nell’amor patrio rientra la storia dell’Italia, il sentire comune, civile e religioso, la vita di un popolo e di uno Stato unitario. L’amor patrio dei primi quasi coincide con l’antifascismo; per i secondi, invece, è amore delle radici e del loro sviluppo.
3) Sul piano sociale, l’amor patrio dei primi è legato essenzialmente alla cittadinanza e alle sue regole, mentre nei secondi è legato all’appartenenza e all’identità. Per i primi è un caso privo di significato che si nasca in un luogo anziché in un altro, quel che conta è decidere di vivere in quel luogo, accettando alcune regole. Per i secondi invece il legame con un luogo, con un’origine, non è casuale e insignificante, ma è un segno del destino, di conseguenza è importante nascere in un luogo, in una famiglia, nel solco di una patria anziché un’altra. Non è un discorso di astratti principi ma di concrete conseguenze: i primi ritengono che tra un connazionale ed uno straniero non ci siamo differenze, e che la solidarietà debba essere universale. I secondi, invece, ritengono che la solidarietà per essere concreta e incisiva, debba partire dal più vicino e poi allargarsi al più lontano; di conseguenza, l’amor patrio si manifesta a partire da tuo padre e tua madre, da tuo fratello e poi dal tuo vicino, dal tuo collega, dal tuo concittadino e poi dal tuo connazionale, via via allargandosi.
4) L’amor patrio nelle culture progressiste è una variabile secondaria e subordinata del cosmopolitismo e dell’internazionalismo, dell’amore universale. Quel che conta è essere cittadini del mondo; essere cittadini italiani è solo una caso specifico, una modalità relativa e fortuita. Viceversa, per le culture della tradizione si è cittadini del mondo solo in quanto si è cittadini della propria patria, e dunque l’amor patrio è il fondamento vitale e concreto su cui basare il legame con il mondo. Non siamo apolidi e apatridi abitanti del pianeta, indifferenti al luogo che ci vide nascere e crescere; ma portiamo nella nostra anima e nella nostra vita, il segno di quel legame, di quella provenienza, di quella casa e di quelle comunità.
Ora, non credo che le due diverse culture debbano considerarsi l’un contro l’altra armate, non credo che l’una debba disprezzare l’altra evocando fantasmi del passato e figure del Male. Ma non credo nemmeno che possano combaciare e fondersi. La politica è proprio questo, la passione comunitaria verso ciò che unisce e verso ciò che differenzia; la politica è la corda tesa tra il conflitto e il consenso, la possibilità di divergere senza farsi la guerra, o di raggiungere equilibri e coesistenze senza sognare pacificazioni definitive e unanimità impossibili. Per questo è giusto festeggiare insieme il 2 giugno, sentirsi insieme italiani e uniti, ma nella diversità che sono poi le basi della democrazia.

Marcello Veneziani   

La nostalgia è l’amor fati. Ciò che si lascia è perduto. La rotta del destino la tracciamo noi.

Recensione di Biagio Riccio

Il presente è ponderato con difficoltà, soprattutto quando uno spezzone della vita sia stato vissuto intensamente.
Affiora il sentimento della nostalgia, dell’irripetibile condizione di un tempo passato, sfiorito.
Come se il presente si annullasse, non esistesse: vi è un conato dell’anima, uno sforzo proteso al ricordo, ad un richiamo del passato, al suo contesto già compiuto.
Se infatti si intende ripetere un film già visto, o fare una rimpatriata, non sarà mai più come prima.
Senti la vecchiezza del presente, la tristezza di una condizione impossibile.
La vigoria del fisico non si può ripristinare, nemmeno con la chirurgia plastica: certe donne non accettano la corrosione del tempo, il presentarsi implacabile delle rughe, la caduta delle forze e ricorrono ad interventi medici che ridicolmente imbruttiscono- (inesorabilmente)-con tiraggi della pelle, il volto e le parti del corpo.
Così non si fa: si ama anche la caduta del tempo: sovvien la tenerezza d’animo che è sublime.
La vecchiezza frantuma il corpo, ma non la voglia di vivere:amate le rughe, sono la gioventù dell’anima.
La nostalgia è una curva, un portarsi all’indietro per raccogliere il tempo versato. Riconosce il fascino dell’inattuale, l’ irriducibilita’ del destino, che giocoforza deve scorrere, come un fiume che deve sfociare nel mare.
La corrente non può risalire, rigurgitare, deve andare irreversibilmente verso quella direzione.
È questa condizione dell’uomo che non accetta il suo destino.
Perché se siamo felici, egoisticamente desideriamo che il tempo si fermi, diventi eterno, non corra verso l’ignoto: la paura e l’angoscia ci prendono.
Ci voltiamo, dunque, indietro e siamo nostalgici: in greco “ritorno” si dice nòstos.
Álgos significa “sofferenza”.
La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare al già vissuto.
Proust ne ha scritto un capolavoro: “Alla ricerca del tempo perduto”.
D’Annunzio dei versi bellissimi ( La sabbia del tempo): si evoca la condizione dell’ uomo, come quella di chi si pone in un ozio immobile (trattenuto dal cavo della mano) al cospetto della clessidra nella quale scorre la sabbia (sempre), anche quando la capovolgi.
“Come scorrea la calda sabbia lieve per entro il cavo della mano in ozio,
il cor sentì che il giorno era più breve.
E un’ansia repentina mi assale”.
L’uomo dunque deve vivere ed accettare il suo destino predisporsi al futuro, ad una progettualità che deve superare anche la consapevolezza della morte.
Amor fati.
È l’amor fati: accettare il destino della vita per cambiarla, per possederla, per rimuovere la nostalgia che produce melanconia.
Questa è la filosofia dell’ottimismo, del dominio della volontà sull’evento, della forza sulle cose.
Una dichiarazione d’amore per la vita.
Dire sì a tutto: sofferenza e felicità, dispiacere e piacere, miseria e gioia, malattia e salute, tristezza e allegria, dolore e soddisfazione, depressione ed estasi, prostrazione ed esaltazione, lutto ed esultanza.
Ecco perché bisogna porsi sotto il segno del fanciullo che vive sanamente nell’innocenza del divenire, come ci aveva insegnato Nietzsche.
Amiamo ciò che accade, perché l’accadere ha luogo nella forma più potente, più feconda, più vera della volontà di potenza, perché essa è pura necessità.
Amor fati come ha scritto in un bellissimo libro Marcello Veneziani è un antidoto al fatalismo contemporaneo: accogliere l’essere nel suo accadere, perché essere è avere un destino, è accettare la vita con i suoi limiti e le consunte responsabilità, non struggersi per essere altro e stare altrove, è amore metafisico per la realtà, è la serenità degli inquieti, una adeguata replica alla grandezza infinita del destino.
Si deve tendere all’espansione della vita, alla ricerca del piacere e dell’ottimismo.
La mitologia segna lo scorrere del tempo: come un filo che un giorno sarà tagliato.
Le figlie della notte, le Moire sono tre: Cloto, nome che in greco antico significa “io filo”, che appunto filava lo stame della vita; Lachesi che significa “destino”, che lo avvolgeva sul fuso e stabiliva quanto del filo spettasse a ogni uomo; Atropo che significa “inflessibile”, che, con lucide cesoie, lo recideva, inesorabile.
La nera Atropo va rimossa : ciò che si lascia è perduto, se non è vissuto.
Amiamo il destino per tracciarne noi la rotta.

( a margine di Amor Fati di Marcello Veneziani).