Categoria: favole per la vita
Una scatola di stelle
Emma sapeva cosa avrebbe trovato sotto l’albero, d’altra parte i regali li aveva chiesti a mamma e papà. Di sorprese non ce ne sarebbero state e all’esistenza di Babbo Natale non ci credeva più.
«Tutte stupidaggini… favolette per bimbi sciocchi» aveva detto alle sue compagne di classe. Molte le diedero ragione, solo Alice storse il naso: «Invece, a me piace pensare che Babbo Natale arrivi con i suoi doni. La sorpresa di non sapere cosa ci sarà dentro il pacchetto infiocchettato è il vero regalo. È l’attesa di scoprire cosa ti meriti e cosa davvero ti fa felice… capisci?».
Emma sbuffò infastidita: «Credi ancora a queste cose? Povera ingenua!».
Alice abbassò gli occhi. Era una sognatrice e spesso tutte le altre ragazzine la prendevano in giro per le sue idee fantasiose. «Sai Emma» le disse, certe volte accade di vedere cose brillare senza un motivo. Sono i doni della fantasia e dell’immaginazione. Doni preziosi che non hanno prezzo».
Emma indietreggiò pensando che Alice fosse impazzita e si ripeté con convinzione che le sue preferenze erano ben altre: giochi elettronici, bei vestiti e smalti lucidissimi per pitturare le unghie, come quelle delle star. Altro che magie! Eppure, nonostante dimostrasse sicurezza e arroganza, si sentì a disagio di fronte ad Alice.
In effetti a Emma mancava qualcosa che avrebbe riempito il vuoto che sentiva dentro. Nello stomaco. Nella mente. Cercava ciò che non c’era. Che non possedeva. Ma cosa, ancora non lo sapeva. E di certo non era uno dei doni che aveva chiesto ai suoi genitori. La vigilia era alle porte e quando Emma uscì con sua madre per fare gli ultimi acquisti vide una gatta gironzolare proprio sotto casa. Lasciava impronte a forma di stelline dorate… no, le zampe non erano sporche, eppure le macchie stampate sul marciapiede erano proprio a forma di stella.
«Guarda mamma….che strana quella gatta, lascia delle stelline. Le vedi? Mi piacerebbe raccoglierle» esclamò sgranando gli occhi.
«Ma che dici? Hai le traveggole? Non accarezzarla, Può graffiarti» rispose seccata la donna.
Come era possibile che sua madre non avesse visto quelle orme a cinque punte?
Mentre la domanda le frullava nella testa, vide la gatta strofinare il muso sui pantaloni di un omone dalla barba lunga e gli occhiali scesi sul naso. Indossava un cappotto rosso e liso, un cappello floscio e le scarpe erano slabbrate. Si fermò a guardare la scena, mentre sua madre continuò a camminare a passo svelto verso i negozi del centro. In quel momento arrivò Alice e senza alcun indugio si mise a parlottare con quell’uomo e subito dopo diede una carezza alla gatta che immediatamente iniziò a fare le fusa.
Emma rimase di stucco, la sua compagna di classe conosceva quell’uomo, un barbone come tanti che aveva una gatta davvero stramba.
«Alice, conosci quel barbone?» chiese quasi schifata.
«Sì, è molto buono e gentile» le rispose.
«E la gatta? Hai visto che lascia delle stelline sul marciapiede? Vorrei raccoglierle» Emma sperava che almeno lei lo confermasse.
Alice si mise a ridere e se ne andò saltellando lasciando Emma a bocca aperta.
Una vocina le arrivò alle orecchie: «Ti piacciono le mie stelline?».
Emma si guardò intorno, l’uomo era scomparso ed era rimasta solo la gatta: «TU PARLI?» esclamò irrigidendosi.
«Quando è il caso…parlo» rispose la gatta.
Emma cominciò a tremare: «No… no… non è possibile. Sto impazzendo… come Alice».
«Non avere paura, lascia che il tuo cuore ti indichi la via giusta. Quella dei desideri più belli. È Natale e tutti dobbiamo esser più buoni e sinceri» disse la gatta dileguandosi tra la folla che riempiva le strade colme di luci colorate e addobbi argentati. Sul marciapiede rimasero solo le sue impronte dorate.
La sera della vigilia il freddo pungeva più degli spilli. Le previsioni del tempo davano nevicate abbondanti e questo preoccupò Emma che continuò a chiedersi dove mai si rifugiasse quell’uomo barbuto e soprattutto dove fosse finita la gatta parlante con le sue orme a stella. Mentre scartava i regali non riuscì a gioire di quei doni tanto desiderati e le vennero in mente le parole di Alice.
D’un tratto qualcuno suonò al campanello ed Emma corse ad aprire. Sul pianerottolo c’era una piccola scatola. Quando l’aprì vide volare mille stelle dorate, identiche alle orme lasciate dalla gatta. Immersa in quella pioggia natalizia sentì il cuore riempirsi di gioia. Era il dono più bello e inaspettato che avesse mai ricevuto. Corse in casa e andò verso la finestra. Guardò la neve scendere e in mezzo alla strada vide l’uomo con il cappotto rosso e la gatta bianca fermi davanti ad un lampione. Assieme a loro c’era anche Alice. In coro le gridarono: «Buon Natale Emma. Ora hai il dono che meritavi».
MOONY WITCHER
I giovani nella nuova era…
I ragazzi di oggi sono gia abbastanza diversi dai loro genitori, famiglie poco unite, affetti indecifrabili, vita senza valori e punti di riferimento molto scarsi, ma il gran numero di bambini che nasceranno avrà conoscenze approfondite di elettronica, conoscerà la potenza energetica dell’atomo per poterla sfruttare a beneficio proprio, cosi come molte forme di energia. Essi cresceranno tra scienziati, ingegneri, intelligenze artificiali, robot, sicuramente perderanno molte prerogative derivanti da riflessioni spirituali, etiche ed emozionali. Le nuove generazioni vivranno in una nuova era, che avrà la forza di distruggere la civiltà a meno che non tralascino l’insegnamento delle leggi spirituali e continuino a seguirle.
I pupazzi ballerini di Tommy…
Tommy è stato promosso al rango di artista. È in corso la sua prima mostra e quindi nessuno farà più caso al suo “cervello ribelle”. Gli artisti possono liberamente folleggiare e nessuno se ne fa un problema. Sono almeno 10 anni che lavoro a tempo pieno perché questo potesse accadere. Non mi sono mai voluto rassegnare ad avere un figlio “fantasma”, invisibile a tutti come prescrive il suo stato di autistico maggiorenne. Tommy è un ragazzo neuro divergente che non si rassegna ad essere recluso in qualche istituto, come il mondo preferirebbe, per il suo bene naturalmente. Che altro valore sociale potrebbe mai essere a lui attribuito, se non quello di essere considerato “una retta”, a vantaggio di chi abbia ricevuto il favore di averlo in carica per internarlo? Che altro potrebbe fare un ragazzo di 24 anni pieno di vita come lui, che però non ha riconosciuto alcun diritto di cittadinanza, anche se nessuno apertamente lo dirà mai?
Tommy non parla, non ha un ruolo sociale, non ha una relazione, non ha amici, non ha colleghi, non ha un lavoro. Nemmeno ha un telefono e alcun account social, se non quello su Instagram che alimento io. Invece ora è un artista, ha la patente di libero esercizio della sua mente fuori standard, può fare ciò che vuole e almeno ha una categoria di umani che potrebbe anche rivendicarne l’ appartenenza.
Una delle tante notti che vegliavo il suo sonno agitato, temendo una di quelle crisi che scombussolano solo a esserne testimoni, cominciai a immaginare cosa potesse sognare una persona che pareva comprendere solo nozioni elementari, che sembrava incapace di elaborare concetti complessi, che sembrava cogliere della realtà solo una visione appiattita. Un mondo disegnato a matita su un foglio di carta, senza minimo accenno alla dimensione della profondità. Non era però quello che stavo cominciando a intuire e sperimentare della mente autistica, respirando mio figlio giorno e notte, scoprendomi per la prima volta padre nella fase acuta del suo turbinio adolescenziale.
Ebbi quindi la netta impressione di riuscire a leggere ciò che si celasse dietro la sua inquietudine notturna, mi cominciai a convincere che i suoi pensieri indicibili fossero proprio quei pupazzi ballerini, mi appuntai questa sensazione che fu al centro del primo libro che scrissi su Tommy, la riporto come la scrissi allora: «La notte, l’autistico si agita. Posso capirlo… Probabilmente vede i pensieri come oggetti concreti sparsi per la stanza, quindi diventa euforico per questo particolare affollamento del suo spazio. Provo a improvvisare… Per lui i pensieri sono come pupazzi ballerini che saltellano su sedie e tavolini; per lui i pensieri hanno il fruscio di un rubinetto aperto e allagano piano piano il pavimento. Per questo trovo Tommy spesso seduto sul letto, abbracciato ai cuscini come fossero salvagente, perché teme di affogare tra i pensieri».
A distanza di quasi 10 anni dall’aver annotato quel pensiero mi rendo conto di quanto ci fosse di profetico: quei pupazzi ballerini che oggi sono appesi colorati alle pareti del suo atelier saranno davvero il suo salvagente per non affogare nel mare dell’indifferenza. Quei pensieri indecifrabili, che sembrano solo baluginare per nano istanti dietro la compostezza dei volti dei tantissimi fratelli autistici di Tommy sparsi per il Paese, altro non sono che un codice che cerca contenitori per generare immagini, produrre realtà felicemente balzane, surrealmente rivoluzionare rispetto al grigio flemmatico che ricopre di una coltre uniformante ogni stimolo di atipicità.
Nessuno ancora ha proclamato un “Pride dei cervelli ribelli”; mi piacerebbe che i pupazzi di Tommy potessero essere la scintilla per accendere un movimento di idee capace di colmare questa lacuna. Penso che l’umanità progredisca proprio attraverso persone capaci di esprimere pensieri e comportamenti divergenti.
Vorrei combattere la prassi “confortevole” per cui l’unico approccio possibile a una condizione umana fuori standard sia considerarla come uno stato patologico, o peggio come un oltraggio all’ordine naturale che tutto governa. I cervelli ribelli, non solo quelli come Tommy, solo per pregiudizio sono assimilati al disordine, o al disprezzo delle regole. Sono più che convinto che in assenza di un pensiero ribelle la società si dibatta in un sistema chiuso. Aver aiutato mio figlio a mischiare i colori per più di cento folli dipinti di animali inesistenti e folletti sorridenti, mi è stato prezioso per riflettere sul valore del pensiero ideologicamente fluido, come gioiosamente sovrascrivibile. Sforzarmi di guardare il mondo con gli occhi incantati di Tommy è stata per me il modo migliore per cogliere il privilegio di vivere con consapevolezza un momento cruciale della nostra storia, quello in cui potremmo essere protagonisti attivi della fase più meravigliosamente sregolata del nostro cammino evolutivo.
Nelle mani il destino…
C’è chi nasce coi pugni serrati, chi con le mani spalancate e chi col pollice in bocca, qualcuno persino con le mani giunte o protese in avanti, come per difendersi. Il carattere già si profila dalle mani, perché il neonato non ha ancora a fuoco la vista; la luce originaria e il buio del passaggio, lo hanno reso provvisoriamente cieco. Sicché le mani parlano al suo posto. C’è chi rimane cieco per tutta la vita, anche se vede.
L’infanzia è una mano che si apre, e stringe altre mani, per gioco o per farsi guidare, conosce il mondo maneggiando le cose; la gioventù spalanca le mani, afferra con vigore il mondo, abbraccia la vita. La vita adulta si abituerà poi a prendere e lasciare la presa, ad afferrare pesi, armi, valigie; a maneggiare, manipolare, condurre per mano, tendere la mano per soccorrere o essere soccorsi. La vecchiaia è una mano che si chiude, si rinserra nel pugno, si appoggia a un bastone, stringe quel che resta, temendo di perderlo, fino a che non gli resta più nulla e stringe un pugno d’aria. Il mondo del vecchio si restringe, si fa sempre più piccolo, introverso, a volte si rinchiude dentro il suo corpo, il suo intestino, i suoi organi che funzionano male. Le sue mani sono impotenti, il mondo è sempre meno a portata delle sue mani, che cominciano a tremare e cercano sostegni.
Le mani sono la gloria dell’uomo rispetto agli animali; sono l’intelligenza del corpo, pensiero tattile, prensile, toccante. Sono la mappa dove è segnata la sua fatica passata ed è scritto il suo cammino futuro”.
Le scelte giuste… coloratevi di nuovo.
Scegliete amici, amanti e amori che siano ali forti con cui spiccare il volo, che vi aiutino a nascere, pure quando nascere fa male, per scoprire chi siete davvero, per rendervi persone migliori. Scegliete chi vi rimprovera per troppo affetto, invece di chi vi consola per convenienza. Chi vi affronta a muso duro, vi urla a dosso e alla fine resta. Scegliete chi non vi incatena all’immobilità del suolo, ma disegna per voi un altro pezzo di cielo. Chi non fa promesse e poi le mantiene. Chi tradisce le aspettative, perché non c’è altro modo di onorare la vita, nella sua magnifica imperfezione. Chi vi cambia gli occhi, o ve li restituisce per la prima volta, mostrandovi un modo diverso di guardare. Scegliete chi vi spinge a lottare, a combattere, a crescere, a sperimentare. Chi inventa ogni giorno colori nuovi, e ha incoscienza abbastanza da accostare il verde col giallo, il blu cobalto col rosso rubino, perché nulla ci fa più coraggiosi come la capacità di rompere gli schemi e sovvertire l’ovvio. Scegliete chi vi fa paura. E poi, scegliete chi vi fa venire voglia di vincere quella paura.
Una favola e la politica…. e io preferisco le favole vere a quelle quotidiane della realtà!
Ecco una favola molto antica, che mi è capitata sotto gli occhi oggi e che prima mi ha fatto verificare chi fosse l’autore .Mi si presenta come scritta da Leonardo, ma che tradussi dal greco Esopo e poi dal latino Fedro . Anche se questo può avere la sua importanza sapete che mi ha fatto pensare ? A quanto grande sia la stupidità dei nostri governanti e mi riferisco all'”eccelso”Biden “, seguito dai governanti dell’Europa e poi dei nostri Luminari, che si sono precipitati a sanzionare Putin in ogni modo possibile senza prima aver pensato alla spaventosa crisi energetica in cui avrebbero cacciato buona parte del mondo, senza preoccuparsi minimamente del popolo, ma solo di compiacere la Nato. Putin andava punito, non noi,e questo le gente non lo dimentica, non lo dimenticherà tanto presto.
Una volpe era caduta in un pozzo e non
poteva più uscirne. Un caprone assetato viene
allo stesso pozzo guarda dentro e la vede: – E’
buona quest’acqua? Era la fortuna inattesa. –
Se è buona! Scendi giù, amico mio! Scendi: è
una delizia!
E quello stordito si caccia giù e beve sino a
saziarsene. Quando ebbe bevuto, si guardò
intorno. – E ora come si fa a risalire?
– Già, è un affaraccio; ma c’è un modo di
salvare te e me. Guarda: tu appoggi i piedi
davanti, così, in alto, contro il muro, e rizzi le
corna; io m’arrampico e poi ti tiro su. Va bene?
– Facciamo pure così rispose quel bonaccione; e
così fece.
La volpe, saltando lesta lungo le gambe, le
spalle e le corna del suo compagno, si trovò
subito al collo del pozzo; e già se ne andava.
– Ohé, – gridò il malcapitato – te ne vai? E così
mi tradisci?
La volpe si rivoltò verso di lui : – Se tu avessi
tanti ragionamenti nella testa quanti hai peli
sotto il mento non saresti sceso giù, prima
d’aver pensato al modo di risalire.
Scienza e magia…a volte insieme.
Amo la scienza, ma altrettanto amo il concetto di magia, di magico e non penso che queste idee siano in conflitto. L’evidenza e la magia stanno insieme come la musica e la canzone, come l’inchiostro e la poesia, come la verità e la metafora.Una buona metafora non distrugge la verità, la riporta soltanto a un contesto più umano- Invece per me la magia è come ricercare il significato, un atto interpretativo ,un coltivare intenzionalmente lo stupore e la gratitudine- Comprendere la fisica che fa aprire le ali per uno stupendo volo di airone è una gioia ed arricchimento, come lo è contemplare le sottigliezze che trasformano il momento in cui l’airone scivola nell’aria in poesia.
Vi sono due percorsi per la magia:l’immaginazione e l’attenta osservazione. L’immaginazione è la finzione che noi amiamo, ossia la verità costruita sulla falsa riga- Osservazione attenta è la ricerca voluta di informazioni,la geometria di un alveare;la lentezza perfetta di un avvoltoio; sentire la vita in un albero-
La magia necessita della nostra intenzione, la nostra scelta di essere partecipi. E dobbiamo scegliere di incontrarla a metà strada. E quando lo facciamo, spesso scopriamo che la magia non è lasciare andare ciò che è reale. Essa è la sintesi di questo:il nettare del fatto diventa il miele del suo signicato.Un cenno di tutto ciò che che non si può quantificare-
Perchè si dice…
Il 24 giugno si celebra la festa di san Giovanni Battista, o notte di san Giovanni Battista. Al santo è dedicato un celebre proverbio della tradizione popolare: “San Giovanni non vuole inganni”. Un modo di dire che ha diverse declinazioni dialettali, come quella meneghina “San Giuan fa minga ingann”. Scopriamo che significa, grazie al libro di Saro Trovato, fondatore di Libreriamo, in cui 300 modi di dire non avranno segreti
San Giovanni non vuole inganni
“San Giovanni non vuole inganni” è un proverbio di origine toscana, non a caso San Giovanni Battista è patrono di Firenze. Il proverbio è di origine medievale e trae significato dalla moneta in uso a quell’epoca, il fiorino, così chiamato proprio perché da un lato era raffigurato il giglio fiorentino. Dall’altro lato però si poteva vedere l’immagine di San Giovanni Battista, già allora patrono della città.
L’espressione “San Giovanni non vuole inganni” voleva significare che, da una parte, l’immagine era garanzia di autenticità e, dall’altra, la figura del Santo rendeva difficile ogni falsificazione. Inoltre, l’immagine avvertiva che qualsiasi copia falsa della moneta era non solo un atto vergognoso, ma anche un grave reato condannabile dalla legge.
Il comparatico e altri significati
In alcune zone del meridione si scorgono significati legati al detto “San Giovanni non vuole inganni” se lo si collega all’usanza del comparatico, che è quel vincolo di quasi parentela spirituale che lega compari e comari di battesimo e i loro figliocci, ma anche compari e comari di matrimonio e i due sposi. Questo legame, a seconda della zona, prevede una serie di regole da rispettare e di obblighi. In Sicilia il comparatico è quasi più importante della parentela perché sfocia nella sacralità.
San Giovanni Battista punisce, secondo la tradizione meridionale, chi non rispetta la fede del compare e soprattutto chi tradisce il compare. Anche in Romagna vi è l’usanza per San Giovanni di regalare alla fidanzata un mazzo di fiori che viene contraccambiato nel giorno di San Pietro e i due vengono chiamati compare e comare di San Giovanni e in qualche modo ufficializzano il loro amore. Il Battista viene invocato nei rituali e nelle usanze fra compari e comari che tendono a tranquillizzarsi della loro fedeltà reciproca.
Vi è un’altra versione dell’origine del detto ed è legata al fatto che, soprattutto nell’Emilia centrale, venivano eseguite delle scanalature sulla facciata o su un fianco dei Battisteri, dedicati generalmente a San Giovanni Battista, pari alle unità di misura di lunghezza utilizzate nelle zone. Così se i contadini dovevano, ad esempio, misurare la lunghezza di un campo in “pertiche”, verificavano lo strumento di misurazione che utilizzavano con il “campione” scanalato sul Battistero di San Giovanni Battista, che, non avrebbe fatto inganni sulla dimensione corretta.
Arrivare dopo i fuochi
Non solo “San Giovanni non vuole inganni”: a San Giovanni Battista è legato un altro modo di dire abbastanza celebre: “arrivare dopo i fuochi”. Con questa espressione si intende dire arrivare troppo tardi, a cose fatte, quando è tutto finito e la nostra presenza non ha più un senso o, per estensione, essere poco svegli, non capire le cose al volo, non cogliere le allusioni. Le origini di questo modo di dire portano una data precisa: il 24 giugno, giorno in cui si festeggia San Giovanni Battista, patrono di Firenze. Nei secoli passati il santo veniva celebrato con processioni, banchetti, tornei, fiere, corse di cavalli e, al tramonto, con i fochi d’allegrezza, un tempo falò di scope di saggina e bracieri di sego, oggi fuochi d’artificio. Quindi, arrivare dopo i fuochi significava, e significa tuttora, arrivare tardi, a spettacolo ormai concluso.
La Javanaise…musica per una nostalgia.
Una sera d’estata…. la ragione si smorza e l’istinto prevale.
E allora giunge la nostalgia di uno di quelle notti al mare quado ci prendeva la voglia intensa e urgente, di fare l’amore con una canzone.
È la sera giusta per “La javanaise”……
Si sa che non è una canzone composta di getto, ma, anzi, scritta su commissione per Juliette Gréco. Ma la javanaise non é nemmeno un ballo: è la java quella che si danzava al ” bal musette” con la musica dell’accordéon.
Poco importa.
Se la si ascolta cantata dalla voce impastata di un Serge Gainsbourg sudato, impudico e, forse, ubriaco, la Javanaise perde tutti gli orpelli, arriva all’essenziale e si rivela per quello che è: il ricordo di un amore di una sensualità lancinante e disperata.
Chapeau !