Van’ka ,un racconto di Natale di Anton Čechov(1886)-

 

Van’ka Žukov, un ragazzetto di nove anni che da tre mesi stava a bottega dal calzolaio Aljachin per imparare il mestiere, la notte di Natale non andò a dormire. Dopo aver atteso che i padroni e i lavoranti uscissero per andare in chiesa, tirò fuori dall’armadio del padrone la boccetta dell’inchiostro, una penna col pennino arrugginito e, sistematosi davanti un foglio tutto spiegazzato, incominciò a scrivere. Prima di tracciare la prima lettera, si voltò alcune volte timoroso verso la porta e la finestra, guardò di traverso l’icona scura, ai due lati della quale si allungavano i palchetti con le forme per le scarpe, e tirò un sospiro. La carta stava su un panchetto e lui s’era messo in ginocchio davanti al panchetto.
«Caro nonnino, Konstantin Makaryč!» scrisse. «Ti scrivo questa lettera. Ti faccio tanti auguri per Natale e ti auguro ogni bene dal Signore Iddio. Non ho più né il padre né la mammina, mi sei rimasto tu solo.»Van’ka volse gli occhi alla finestra buia, sulla quale baluginava il riflesso della sua candeletta, e si raffigurò vivamente il nonno Konstantin Makaryč, che faceva il guardiano notturno presso i signori Živarev. È un vecchietto sui sessantacinque anni, piccolo, magrolino, ma straordinariamente vivace e svelto, con un viso sempre sorridente e gli occhi da ubriaco. Di giorno dorme nella cucina della servitù, o passa il tempo a scherzare con le cuoche, di notte, poi, ravvolto in un ampia pelliccia di montone, fa il giro della proprietà picchiando sulla sua placca. Dietro di lui, a testa bassa, camminano la vecchia Kaštanka e un cagnolino, V’jun, così chiamato per il suo color nero e per il suo corpo lungo come quello di una donnola. Questo V’jun è straordinariamente rispettoso e cordiale, si comporta con la stessa dolcezza con quelli di casa e con gli estranei, ma non gode di grande fiducia. Sotto tanta ossequiosità e umiltà si nasconde la più gesuitica malizia. Nessuno sa scegliere meglio di lui il momento giusto per avvicinarsi furtivamente e azzannarti una gamba, o per infilarsi nella dispensa o per rubare una gallina a un contadino. Più di una volta gli hanno rotto le zampe posteriori a forza di botte, un paio di volte lo hanno appeso per la collottola, non passa settimana che non lo frustino a morte, ma lui risorge sempre.
Ora certamente il nonno sta vicino al portone, strizza gli occhi alle finestre rosso vivo della chiesa del villaggio e, scalpicciando per terra con gli stivali di feltro, scherza con le donne di servizio. Alla cintola tiene appesa la placca; batte le mani per scaldarsi, si rattrappisce tutto dal freddo e, con la sua stridula risata da vecchietto va pizzicando ora la cameriera, ora la cuoca.
«Non volete annusare un po’ di tabacco?» dice, porgendo alle donne la sua tabacchiera.
Le donne annusano il tabacco e starnutiscono. Il nonno è preso da un entusiasmo indescrivibile, scroscia in una allegra risata e grida:
«Staccalo, col gelo s’è attaccato!»
Danno da fiutare il tabacco anche ai cani; Kaštanka starnutisce, scuote il muso e, offesa, si trae in disparte. V’jun, invece, per rispetto, non starnutisce e dimena la coda. E il tempo, intanto, è meraviglioso. L’aria è quieta, diafana e fresca. La notte è buia, ma si vede tutto il villaggio con i suoi tetti bianchi, le spirali di fumo che escono dai camini, gli alberi inargentati di brina, i monticelli di neve. Tutto il cielo è cosparso di stelle che ammiccano allegre e la via lattea si disegna con tanta nettezza che pare l’abbiano lavata e strofinata con la neve, per la festa… Van’ka sospirò, intinse la penna e continuò a scrivere:
«Ieri ho avuto una tirata di capelli. Il padrone mi ha trascinato per i capelli fino a fuori e mi ha strigliato col tiraforme, perché mentre cullavo il loro bambino inavvertitamente avevo preso sonno. Domenica, poi, la padrona mi ordinò di pulire un’aringa, ma io cominciai dalla coda, e lei prese l’aringa e cominciò a sbattermela in faccia. I lavoranti si burlano di me, mi mandano alla bettola a comperare la vodka, mi comandano di rubare i cetrioli dei padroni, e il padrone mi picchia con tutto quello che gli capita sotto mano. E anche da mangiare non c’è proprio niente. La mattina mi danno del pane; a pranzo polenta, e la sera di nuovo pane, e, quanto al tè e alla zuppa di cavoli, quella roba lì se la pappano i padroni. E mi fanno dormire nell’ingresso, e quando il bambino loro piange io non dormo più per niente, e dondolo la culla. Caro nonnino, fammi questa carità, toglimi di qui e portami a casa, nel villaggio, io non ne posso proprio più.. Te lo chiedo in ginocchio e pregherò eternamente Iddio per te, ma portami via di qui, altrimenti ne morirò…»
Van’ka storse la bocca, si passò il suo pugno tutto nero sugli occhi e ruppe in un singhiozzo.
«Ti triterò sempre il tabacco,» continuò, «pregherò Iddio per te, e se non mi comportassi bene, tu dammele di santa ragione. E se credi che non potrei fare nessun lavoro, chiederò all’intendente che per amor di Cristo mi lasci pulire gli stivali, oppure andrò al posto di Fed’ja come aiuto-pastore. Nonnino caro, non ne posso più, non mi resta che morire. Volevo scappare al villaggio a piedi, ma non ho scarpe e ho paura del gelo. Ma quando sarò grande, io per ricompensarti ti manterrò e non permetterò che nessuno ti maltratti, e quando morirai, pregherò per la pace dell’anima tua, come prego per mamma Pelageja.
«Mosca, sai, è una città grande. Sono tutte case di signori, e ci sono molti cavalli, ma pecore nessuna, e i cani non sono cattivi. Qui i ragazzi non vanno in giro con la stella, e nel coro non ci prendono nessuno a cantare; una volta ho visto nella vetrina di una bottega che gli ami li vendono direttamente con la lenza, e per ogni sorta di pesci, e sono molto cari, c’era perfino un amo che poteva sostenere un pesce siluro di un quindici chili. Ho visto anche delle botteghe dove c’erano fucili di ogni tipo, come quelli dei padroni, tanto che costavano almeno cento rubli l’uno… Nelle macellerie si trovano galli cedroni, le starne e le lepri, ma i venditori non dicono dov’è che li prendono.
«Caro nonnino, quando dai padroni faranno l’albero di Natale coi regalini, prendimi una noce dorata e riponila nel bauletto verde. Chiedila alla signorina Ol’ga Ignat’evna, dille che è per Van’ka.»
Van’ka tirò un sospiro convulso e tornò a fissare la finestra. Ricordò che nel bosco, a cercare l’albero di Natale per i padroni, ci andava sempre il nonno e portava con sé il nipotino. Che ore felici erano quelle! Il nonno gemeva, il ghiaccio gemeva, e, a guardare loro, gemeva anche Van’ka. Prima di tagliare l’albero, di solito il nonno fumava la pipa, fiutava a lungo tabacco, e si burlava di Vanjuska, tutto infreddolito… I giovani abeti, coperti di brina, stavano immobili, aspettando di vedere a chi di loro toccava morire. D’un tratto, sbucata da chissà dove, una lepre vola come una freccia sui cumuli di neve… Il nonno non può fare a meno di gridare:
«Prendila… prendila! Ah, diavolo senza coda!»
Tagliato l’albero, il nonno lo trascinava fino alla casa dei padroni, e là si mettevano a decorarlo… Più di tutti si affaccendava la signorina Ol’ga Ignat’evna, la beniamina di Van’ka. Quando era ancora viva Pelageja, la madre di Van’ka, e stava dai padroni come cameriera, Ol’ga Ignat’evna rimpinzava Van’ka di dolci e, per passatempo, gli aveva insegnato a leggere, a scrivere, a contare fino a cento e perfino a ballare la quadriglia. Quando poi Pelageja morì, mandarono l’orfanello Van’ka nella cucina della servitù, col nonno, e di lì a Mosca, dal calzolaio Aljachin…
«Vieni, caro nonnino,» continuò Van’ka. «Te ne prego in nome di Cristo Nostro Signore, portami via di qui. Abbi pietà di me, orfano infelice, qui mi massacrano di botte e ho una gran fame, la noia poi è indescrivibile e piango sempre. L’altro giorno il padrone mi ha picchiato sulla testa con una forma da scarpa così forte che sono cascato in terra e a stento mi sono riavuto. La mia vita è rovinata, è peggio di quella di un cane… Salutami ancora Alëna, Egor il guercio, e il cocchiere, e non dare a nessuno il mio organetto. Sono il tuo nipote Ivan Žukov, caro nonnino, prendi il treno e vieni.»
Van’ka piegò in quattro il foglio scritto e lo mise in una busta comprata il giorno prima per una copeca… Dopo averci pensato un attimo, intinse la penna e scrisse l’indirizzo:
«Al nonno, al villaggio».
Poi si grattò la testa, ci pensò su e aggiunse: «A Konstantin Makaryč». Contento che nessuno gli avesse impedito di scrivere, infilò il berretto e, senza neanche gettarsi sulle spalle la giacchetta di pelo, in maniche di camicia com’era, corse in strada…
Certi commessi della macelleria che aveva interpellato il giorno prima gli avevano detto che le lettere si infilano nelle cassette postali, e dalle cassette vengono poi portate per tutto il mondo sulle trojke della posta, guidate da postiglioni ubriachi e tutte squillanti di campanelli. Van’ka corse fino alla prima cassetta postale e infilò la preziosa lettera nella fessura…
Cullato da dolci speranze, un’ora dopo egli dormiva profondamente… Sognava una stufa. Su di essa stava seduto il nonno, con i piedi scalzi a penzoloni, e leggeva la lettera alle cuoche… Accanto alla stufa girava V’jun, dimenando la coda..
vanka

Una scatola di stelle

 
Emma sapeva cosa avrebbe trovato sotto l’albero, d’altra parte i regali li aveva chiesti a mamma e papà. Di sorprese non ce ne sarebbero state e all’esistenza di Babbo Natale non ci credeva più.

«Tutte stupidaggini… favolette per bimbi sciocchi» aveva detto alle sue compagne di classe. Molte le diedero ragione, solo Alice storse il naso: «Invece, a me piace pensare che Babbo Natale arrivi con i suoi doni. La sorpresa di non sapere cosa ci sarà dentro il pacchetto infiocchettato è il vero regalo. È l’attesa di scoprire cosa ti meriti e cosa davvero ti fa felice… capisci?».

Emma sbuffò infastidita: «Credi ancora a queste cose? Povera ingenua!».

Alice abbassò gli occhi. Era una sognatrice e spesso tutte le altre ragazzine la prendevano in giro per le sue idee fantasiose. «Sai Emma» le disse, certe volte accade di vedere cose brillare senza un motivo. Sono i doni della fantasia e dell’immaginazione. Doni preziosi che non hanno prezzo».

Emma indietreggiò pensando che Alice fosse impazzita e si ripeté con convinzione che le sue preferenze erano ben altre: giochi elettronici, bei vestiti e smalti lucidissimi per pitturare le unghie, come quelle delle star. Altro che magie! Eppure, nonostante dimostrasse sicurezza e arroganza, si sentì a disagio di fronte ad Alice.

In effetti a Emma mancava qualcosa che avrebbe riempito il vuoto che sentiva dentro. Nello stomaco. Nella mente. Cercava ciò che non c’era. Che non possedeva. Ma cosa, ancora non lo sapeva. E di certo non era uno dei doni che aveva chiesto ai suoi genitori. La vigilia era alle porte e quando Emma uscì con sua madre per fare gli ultimi acquisti vide una gatta gironzolare proprio sotto casa. Lasciava impronte a forma di stelline dorate… no, le zampe non erano sporche, eppure le macchie stampate sul marciapiede erano proprio a forma di stella.

«Guarda mamma….che strana quella gatta, lascia delle stelline. Le vedi? Mi piacerebbe raccoglierle» esclamò sgranando gli occhi.

«Ma che dici? Hai le traveggole? Non accarezzarla, Può graffiarti» rispose seccata la donna.

Come era possibile che sua madre non avesse visto quelle orme a cinque punte?

Mentre la domanda le frullava nella testa, vide la gatta strofinare il muso sui pantaloni di un omone dalla barba lunga e gli occhiali scesi sul naso. Indossava un cappotto rosso e liso, un cappello floscio e le scarpe erano slabbrate. Si fermò a guardare la scena, mentre sua madre continuò a camminare a passo svelto verso i negozi del centro. In quel momento arrivò Alice e senza alcun indugio si mise a parlottare con quell’uomo e subito dopo diede una carezza alla gatta che immediatamente iniziò a fare le fusa.

Emma rimase di stucco, la sua compagna di classe conosceva quell’uomo, un barbone come tanti che aveva una gatta davvero stramba.

«Alice, conosci quel barbone?» chiese quasi schifata.

«Sì, è molto buono e gentile» le rispose.

«E la gatta? Hai visto che lascia delle stelline sul marciapiede? Vorrei raccoglierle» Emma sperava che almeno lei lo confermasse.

Alice si mise a ridere e se ne andò saltellando lasciando Emma a bocca aperta.

Una vocina le arrivò alle orecchie: «Ti piacciono le mie stelline?».

Emma si guardò intorno, l’uomo era scomparso ed era rimasta solo la gatta: «TU PARLI?» esclamò irrigidendosi.

«Quando è il caso…parlo» rispose la gatta.

Emma cominciò a tremare: «No… no… non è possibile. Sto impazzendo… come Alice».

«Non avere paura, lascia che il tuo cuore ti indichi la via giusta. Quella dei desideri più belli. È Natale e tutti dobbiamo esser più buoni e sinceri» disse la gatta dileguandosi tra la folla che riempiva le strade colme di luci colorate e addobbi argentati. Sul marciapiede rimasero solo le sue impronte dorate.

La sera della vigilia il freddo pungeva più degli spilli. Le previsioni del tempo davano nevicate abbondanti e questo preoccupò Emma che continuò a chiedersi dove mai si rifugiasse quell’uomo barbuto e soprattutto dove fosse finita la gatta parlante con le sue orme a stella. Mentre scartava i regali non riuscì a gioire di quei doni tanto desiderati e le vennero in mente le parole di Alice.

D’un tratto qualcuno suonò al campanello ed Emma corse ad aprire. Sul pianerottolo c’era una piccola scatola. Quando l’aprì vide volare mille stelle dorate, identiche alle orme lasciate dalla gatta. Immersa in quella pioggia natalizia sentì il cuore riempirsi di gioia. Era il dono più bello e inaspettato che avesse mai ricevuto. Corse in casa e andò verso la finestra. Guardò la neve scendere e in mezzo alla strada vide l’uomo con il cappotto rosso e la gatta bianca fermi davanti ad un lampione. Assieme a loro c’era anche Alice. In coro le gridarono: «Buon Natale Emma. Ora hai il dono che meritavi».

MOONY WITCHER

babbo natale1

I giovani nella nuova era…

 

I ragazzi di oggi sono gia abbastanza diversi dai loro genitori, famiglie poco unite, affetti indecifrabili, vita senza valori e punti di riferimento molto scarsi, ma il gran numero di bambini che nasceranno avrà conoscenze approfondite di elettronica, conoscerà la potenza energetica dell’atomo per poterla sfruttare a beneficio proprio, cosi come molte forme di energia. Essi cresceranno tra scienziati, ingegneri, intelligenze artificiali, robot, sicuramente perderanno molte prerogative derivanti da riflessioni spirituali, etiche ed emozionali. Le nuove generazioni vivranno in una nuova era, che avrà la forza di distruggere la civiltà a meno che non tralascino l’insegnamento delle leggi spirituali e continuino a seguirle.

i giovani e il futuro1

I pupazzi ballerini di Tommy…

Tommy è stato promosso al rango di artista. È in corso la sua prima mostra e quindi nessuno farà più caso al suo “cervello ribelle”. Gli artisti possono liberamente folleggiare e nessuno se ne fa un problema. Sono almeno 10 anni che lavoro a tempo pieno perché questo potesse accadere. Non mi sono mai voluto rassegnare ad avere un figlio “fantasma”, invisibile a tutti come prescrive il suo stato di autistico maggiorenne. Tommy è un ragazzo neuro divergente che non si rassegna ad essere recluso in qualche istituto, come il mondo preferirebbe, per il suo bene naturalmente. Che altro valore sociale potrebbe mai essere a lui attribuito, se non quello di essere considerato “una retta”, a vantaggio di chi abbia ricevuto il favore di averlo in carica per internarlo? Che altro potrebbe fare un ragazzo di 24 anni pieno di vita come lui, che però non ha riconosciuto alcun diritto di cittadinanza, anche se nessuno apertamente lo dirà mai?

Tommy non parla, non ha un ruolo sociale, non ha una relazione, non ha amici, non ha colleghi, non ha un lavoro. Nemmeno ha un telefono e alcun account social, se non quello su Instagram che alimento io. Invece ora è un artista, ha la patente di libero esercizio della sua mente fuori standard, può fare ciò che vuole e almeno ha una categoria di umani che potrebbe anche rivendicarne l’ appartenenza.

 Lasciatemi cullare nella mia illusione di padre, potrebbe anche finire tutto qui, lo so bene, almeno però c’abbiamo provato. Non avevo mai considerato le opere di Tommy come oggetti da esporre. Tutto è cominciato 3 o 4 anni fa, quando abbiamo pensato di mettere in mano al nostro ragazzo tele, colori e pennelli. Fino a quel momento disegnava ovunque e con qualunque cosa lasciasse traccia. Abbiamo tonnellate di carta disegnata da Tommy, sin dal tempo delle scuole elementari. Già da bambino disegnava velocissimo e sempre figure in movimento, sembrava volessero segnalarci con salti e piroette quello che lui non riusciva a comunicare a parole.

Una delle tante notti che vegliavo il suo sonno agitato, temendo una di quelle crisi che scombussolano solo a esserne testimoni, cominciai a immaginare cosa potesse sognare una persona che pareva comprendere solo nozioni elementari, che sembrava incapace di elaborare concetti complessi, che sembrava cogliere della realtà solo una visione appiattita. Un mondo disegnato a matita su un foglio di carta, senza minimo accenno alla dimensione della profondità. Non era però quello che stavo cominciando a intuire e sperimentare della mente autistica, respirando mio figlio giorno e notte, scoprendomi per la prima volta padre nella fase acuta del suo turbinio adolescenziale.

Ebbi quindi la netta impressione di riuscire a leggere ciò che si celasse dietro la sua inquietudine notturna, mi cominciai a convincere che i suoi pensieri indicibili fossero proprio quei pupazzi ballerini, mi appuntai questa sensazione che fu al centro del primo libro che scrissi su Tommy, la riporto come la scrissi allora: «La notte, l’autistico si agita. Posso capirlo… Probabilmente vede i pensieri come oggetti concreti sparsi per la stanza, quindi diventa euforico per questo particolare affollamento del suo spazio. Provo a improvvisare… Per lui i pensieri sono come pupazzi ballerini che saltellano su sedie e tavolini; per lui i pensieri hanno il fruscio di un rubinetto aperto e allagano piano piano il pavimento. Per questo trovo Tommy spesso seduto sul letto, abbracciato ai cuscini come fossero salvagente, perché teme di affogare tra i pensieri».

A distanza di quasi 10 anni dall’aver annotato quel pensiero mi rendo conto di quanto ci fosse di profetico: quei pupazzi ballerini che oggi sono appesi colorati alle pareti del suo atelier saranno davvero il suo salvagente per non affogare nel mare dell’indifferenza. Quei pensieri indecifrabili, che sembrano solo baluginare per nano istanti dietro la compostezza dei volti dei tantissimi fratelli autistici di Tommy sparsi per il Paese, altro non sono che un codice che cerca contenitori per generare immagini, produrre realtà felicemente balzane, surrealmente rivoluzionare rispetto al grigio flemmatico che ricopre di una coltre uniformante ogni stimolo di atipicità.

Nessuno ancora ha proclamato un “Pride dei cervelli ribelli”; mi piacerebbe che i pupazzi di Tommy potessero essere la scintilla per accendere un movimento di idee capace di colmare questa lacuna. Penso che l’umanità progredisca proprio attraverso persone capaci di esprimere pensieri e comportamenti divergenti.

Vorrei combattere la prassi “confortevole” per cui l’unico approccio possibile a una condizione umana fuori standard sia considerarla come uno stato patologico, o peggio come un oltraggio all’ordine naturale che tutto governa. I cervelli ribelli, non solo quelli come Tommy, solo per pregiudizio sono assimilati al disordine, o al disprezzo delle regole. Sono più che convinto che in assenza di un pensiero ribelle la società si dibatta in un sistema chiuso. Aver aiutato mio figlio a mischiare i colori per più di cento folli dipinti di animali inesistenti e folletti sorridenti, mi è stato prezioso per riflettere sul valore del pensiero ideologicamente fluido, come gioiosamente sovrascrivibile. Sforzarmi di guardare il mondo con gli occhi incantati di Tommy è stata per me il modo migliore per cogliere il privilegio di vivere con consapevolezza un momento cruciale della nostra storia, quello in cui potremmo essere protagonisti attivi della fase più meravigliosamente sregolata del nostro cammino evolutivo.

Gianluca Nicoletti__ La Stampa
tommy

 

Nelle mani il destino…

C’è chi nasce coi pugni serrati, chi con le mani spalancate e chi col pollice in bocca, qualcuno persino con le mani giunte o protese in avanti, come per difendersi. Il carattere già si profila dalle mani, perché il neonato non ha ancora a fuoco la vista; la luce originaria e il buio del passaggio, lo hanno reso provvisoriamente cieco. Sicché le mani parlano al suo posto. C’è chi rimane cieco per tutta la vita, anche se vede.
L’infanzia è una mano che si apre, e stringe altre mani, per gioco o per farsi guidare, conosce il mondo maneggiando le cose; la gioventù spalanca le mani, afferra con vigore il mondo, abbraccia la vita. La vita adulta si abituerà poi a prendere e lasciare la presa, ad afferrare pesi, armi, valigie; a maneggiare, manipolare, condurre per mano, tendere la mano per soccorrere o essere soccorsi. La vecchiaia è una mano che si chiude, si rinserra nel pugno, si appoggia a un bastone, stringe quel che resta, temendo di perderlo, fino a che non gli resta più nulla e stringe un pugno d’aria. Il mondo del vecchio si restringe, si fa sempre più piccolo, introverso, a volte si rinchiude dentro il suo corpo, il suo intestino, i suoi organi che funzionano male. Le sue mani sono impotenti, il mondo è sempre meno a portata delle sue mani, che cominciano a tremare e cercano sostegni.
Le mani sono la gloria dell’uomo rispetto agli animali; sono l’intelligenza del corpo, pensiero tattile, prensile, toccante. Sono la mappa dove è segnata la sua fatica passata ed è scritto il suo cammino futuro”.

da La leggenda di Fiore

Le scelte giuste… coloratevi di nuovo.

 

Scegliete amici, amanti e amori che siano ali forti con cui spiccare il volo, che vi aiutino a nascere, pure quando nascere fa male, per scoprire chi siete davvero, per rendervi persone migliori. Scegliete chi vi rimprovera per troppo affetto, invece di chi vi consola per convenienza. Chi vi affronta a muso duro, vi urla a dosso e alla fine resta. Scegliete chi non vi incatena all’immobilità del suolo, ma disegna per voi un altro pezzo di cielo. Chi non fa promesse e poi le mantiene. Chi tradisce le aspettative, perché non c’è altro modo di onorare la vita, nella sua magnifica imperfezione. Chi vi cambia gli occhi, o ve li restituisce per la prima volta, mostrandovi un modo diverso di guardare. Scegliete chi vi spinge a lottare, a combattere, a crescere, a sperimentare. Chi inventa ogni giorno colori nuovi, e ha incoscienza abbastanza da accostare il verde col giallo, il blu cobalto col rosso rubino, perché nulla ci fa più coraggiosi come la capacità di rompere gli schemi e sovvertire l’ovvio. Scegliete chi vi fa paura. E poi, scegliete chi vi fa venire voglia di vincere quella paura.

colori nuovi

 

Una favola e la politica…. e io preferisco le favole vere a quelle quotidiane della realtà!

Ecco una favola molto antica, che mi è capitata sotto gli occhi oggi e che prima mi ha fatto verificare  chi fosse l’autore .Mi si presenta come scritta da Leonardo, ma che tradussi  dal greco Esopo e poi dal latino Fedro . Anche se questo può avere la sua importanza sapete che mi ha fatto pensare ? A quanto grande sia la stupidità dei nostri governanti e mi riferisco all'”eccelso”Biden “, seguito dai governanti dell’Europa e poi dei nostri Luminari, che si sono precipitati a sanzionare Putin in ogni modo possibile senza prima aver pensato alla spaventosa crisi energetica in cui avrebbero cacciato buona parte del mondo, senza preoccuparsi minimamente del popolo, ma solo di compiacere la Nato. Putin andava punito, non noi,e questo le gente non lo dimentica, non lo dimenticherà tanto presto.

Una volpe era caduta in un pozzo e non
poteva più uscirne. Un caprone assetato viene
allo stesso pozzo guarda dentro e la vede: – E’
buona quest’acqua? Era la fortuna inattesa. –
Se è buona! Scendi giù, amico mio! Scendi: è
una delizia!
E quello stordito si caccia giù e beve sino a
saziarsene. Quando ebbe bevuto, si guardò
intorno. – E ora come si fa a risalire?
– Già, è un affaraccio; ma c’è un modo di
salvare te e me. Guarda: tu appoggi i piedi
davanti, così, in alto, contro il muro, e rizzi le
corna; io m’arrampico e poi ti tiro su. Va bene?
– Facciamo pure così rispose quel bonaccione; e
così fece.
La volpe, saltando lesta lungo le gambe, le
spalle e le corna del suo compagno, si trovò
subito al collo del pozzo; e già se ne andava.
– Ohé, – gridò il malcapitato – te ne vai? E così
mi tradisci?
La volpe si rivoltò verso di lui : – Se tu avessi
tanti ragionamenti nella testa quanti hai peli
sotto il mento non saresti sceso giù, prima
d’aver pensato al modo di risalire.

La-volpe-e-il-caprone-Fedro.jpg

Scienza e magia…a volte insieme.

 

Amo la scienza, ma altrettanto amo il concetto di magia, di magico e non penso che queste idee siano in conflitto. L’evidenza e la magia stanno insieme come la musica e la canzone, come l’inchiostro e la poesia, come la verità e la metafora.Una buona metafora non distrugge la verità, la riporta soltanto a un contesto più umano- Invece per me la magia è come ricercare il significato, un atto interpretativo ,un coltivare intenzionalmente lo stupore e la gratitudine- Comprendere la fisica che fa aprire le ali per uno stupendo volo di airone è una gioia ed arricchimento, come lo è contemplare le sottigliezze che trasformano il momento in cui l’airone scivola nell’aria in poesia.
Vi sono due percorsi per la magia:l’immaginazione e l’attenta osservazione. L’immaginazione è la finzione che noi amiamo, ossia la verità costruita sulla falsa riga- Osservazione attenta è la ricerca voluta di informazioni,la geometria di un alveare;la lentezza perfetta di un avvoltoio; sentire la vita in un albero-
La magia necessita della nostra intenzione, la nostra scelta di essere partecipi. E dobbiamo scegliere di incontrarla a metà strada. E quando lo facciamo, spesso scopriamo che la magia non è lasciare andare ciò che è reale. Essa è la sintesi di questo:il nettare del fatto diventa il miele del suo signicato.Un cenno di tutto ciò che che non si può quantificare-

airone

Perchè si dice…

Il 24 giugno si celebra la festa di san Giovanni Battista, o notte di san Giovanni Battista. Al santo è dedicato un celebre proverbio della tradizione popolare: “San Giovanni non vuole inganni”. Un modo di dire che ha diverse declinazioni dialettali, come quella meneghina “San Giuan fa minga ingann”. Scopriamo che significa, grazie al libro di Saro Trovato, fondatore di Libreriamo, in cui 300 modi di dire non avranno segreti

San Giovanni non vuole inganni

“San Giovanni non vuole inganni” è un proverbio di origine toscana, non a caso San Giovanni Battista è patrono di Firenze. Il proverbio è di origine medievale e trae significato dalla moneta in uso a quell’epoca, il fiorino, così chiamato proprio perché da un lato era raffigurato il giglio fiorentino. Dall’altro lato però si poteva vedere l’immagine di San Giovanni Battista, già allora patrono della città.

L’espressione “San Giovanni non vuole inganni” voleva significare che, da una parte, l’immagine era garanzia di autenticità e, dall’altra, la figura del Santo rendeva difficile ogni falsificazione. Inoltre, l’immagine avvertiva che qualsiasi copia falsa della moneta era non solo un atto vergognoso, ma anche un grave reato condannabile dalla legge.

Festa di San Giovanni, perché si accendono falò in tutto il mondo

Dalla noche di San Juan in Spagna, ai falò sulle sponde dei laghi finlandesi, fino al salto del fuoco in Sardegna: quali sono le origini della festa di San Giovanni?

Il comparatico e altri significati

In alcune zone del meridione si scorgono significati legati al detto “San Giovanni non vuole inganni” se lo si collega all’usanza del comparatico, che è quel vincolo di quasi parentela spirituale che lega compari e comari di battesimo e i loro figliocci, ma anche compari e comari di matrimonio e i due sposi. Questo legame, a seconda della zona, prevede una serie di regole da rispettare e di obblighi. In Sicilia il comparatico è quasi più importante della parentela perché sfocia nella sacralità.

San Giovanni Battista punisce, secondo la tradizione meridionale, chi non rispetta la fede del compare e soprattutto chi tradisce il compare. Anche in Romagna vi è l’usanza per San Giovanni di regalare alla fidanzata un mazzo di fiori che viene contraccambiato nel giorno di San Pietro e i due vengono chiamati compare e comare di San Giovanni e in qualche modo ufficializzano il loro amore. Il Battista viene invocato nei rituali e nelle usanze fra compari e comari che tendono a tranquillizzarsi della loro fedeltà reciproca.

Vi è un’altra versione dell’origine del detto ed è legata al fatto che, soprattutto nell’Emilia centrale, venivano eseguite delle scanalature sulla facciata o su un fianco dei Battisteri, dedicati generalmente a San Giovanni Battista, pari alle unità di misura di lunghezza utilizzate nelle zone. Così se i contadini dovevano, ad esempio, misurare la lunghezza di un campo in “pertiche”, verificavano lo strumento di misurazione che utilizzavano con il “campione” scanalato sul Battistero di San Giovanni Battista, che, non avrebbe fatto inganni sulla dimensione corretta.

Arrivare dopo i fuochi

Non solo “San Giovanni non vuole inganni”: a San Giovanni Battista è legato un altro modo di dire abbastanza celebre: “arrivare dopo i fuochi”. Con questa espressione si intende dire arrivare troppo tardi, a cose fatte, quando è tutto finito e la nostra presenza non ha più un senso o, per estensione, essere poco svegli, non capire le cose al volo, non cogliere le allusioni. Le origini di questo modo di dire portano una data precisa: il 24 giugno, giorno in cui si festeggia San Giovanni Battista, patrono di Firenze. Nei secoli passati il santo veniva celebrato con processioni, banchetti, tornei, fiere, corse di cavalli e, al tramonto, con i fochi d’allegrezza, un tempo falò di scope di saggina e bracieri di sego, oggi fuochi d’artificio. Quindi, arrivare dopo i fuochi significava, e significa tuttora, arrivare tardi, a spettacolo ormai concluso.

 

La Javanaise…musica per una nostalgia.

 

amarsi in spiaggia

 

Una sera d’estata…. la ragione si smorza e l’istinto prevale.
E allora giunge la nostalgia di uno di quelle notti al mare quado ci prendeva la voglia intensa e urgente, di fare l’amore con una canzone.
È la sera giusta per “La javanaise”……

Si sa che non è una canzone composta di getto, ma, anzi, scritta su commissione per Juliette Gréco. Ma la javanaise non é nemmeno un ballo: è la java quella che si danzava al ” bal musette” con la musica dell’accordéon.
Poco importa.
Se la si ascolta cantata dalla voce impastata di un Serge Gainsbourg sudato, impudico e, forse, ubriaco, la Javanaise perde tutti gli orpelli, arriva all’essenziale e si rivela per quello che è: il ricordo di un amore di una sensualità lancinante e disperata.
Chapeau !