Una notte d’estate e la poesia di Antonio Machado.

Notte d’estate (Noche de Verano) di Antonio Machado è una poesia che mette in scena la solitudine e il vuoto del poeta proiettati sul paesaggio di un vecchio villaggio durante una notte estiva.

Notte d’estate
È una bella notte d’estate
Tengono le alte case
aperti i balconi
del vecchio paese sulla vasta piazza
Nell’ampio rettangolo deserto,
panchine di pietra, evonimi ed acacie
simmetrici disegnano
le nere ombre sulla bianca arena.
Allo zenit la luna, e sulla torre
la sfera dell’orologio illuminata.
Io in questo vecchio paese a passeggiare
solo come un fantasma.

Noche de verano, (testo originale)

Es una hermosa noche de verano.
Tienen las altas casas
abiertos los balcones
del viejo pueblo a la anchurosa plaza.
En el amplio rectángulo desierto,
bancos de piedra, evónimos y acacias
simétricos dibujan
sus negras sombras en la arena blanca.
En el cenit, la luna, y en la torre,
la esfera del reloj iluminada.
Yo en este viejo pueblo paseando
solo, como un fantasma.

Antonio Machado

Il caldo di una notte d’estate, i climatizzatori che non facevano ancora sentire il loro rumore notturno, i balconi delle case ai piani alti, per far entrare la frescura della notte.
Tutto questo creava comunità, appartenenza, identità collettiva .Questo paesaggio risveglia il senso di solitudine di chi lo vive , come Antonio Machado,espressione di un malessere esistenziale per una perdita recente , oppure ,chi lo ricorda può ritrovarvi luoghi antichi, sommessi momenti di piacevole solitudine in periodi giovanili, quando le notti semplici e silenziose facevano da sfondo a sogni e desideri. Chi non ha avuto momenti come questi, che ripensati ad anni di distanza non ci vedano ,come il fantasma di Machado, aggirarsi tra tutto quello che non c’è più ed è stato , per noi, tantissimo? E l’orologio della torre ci  fa scorrere ,proprio  davanti agli occhi, il film della vita che scorre e di quello che è stata la nostra esistenza.

borgo estivo

Cadere e rialzarsi…

 

Quanto è difficile abbandonare il nostro modo di pensare?
 Quanta paura abbiamo di perdere qualcosa?
 Quanto sarebbe facile mandare avanti tutte le sofferenze, come si fa con un film troppo noioso o disturbante, e arrivare direttamente al punto in cui si rialza.
E invece dobbiamo attraversare il dolore, tanti dolori, tanti dispiaceri anche se ce ne sono alcuni che non supereremo mai.
Ci sono cose che dobbiamo fare, momenti da dimenticare ,parti di noi , luoghi e persone da abbandonare.
Abbiamo percorso tante strade , convinti di essere finalmente su quella che ci avrebbe portato a quella meta, solo sempre intravista, come un miraggio ,per accorgerci poi che ancora era una strada sbagliata, oppure non la nostra strada.
Ma se riusciamo a comprendere che se le cose belle a un certo punto finiscono, anche quelle brutte prima o poi lo faranno, poichè questa è la legge della vita.

caduta

La magia de “L’Infinito” di Giacomo Leopardi, che ci spinge a guardare oltre i confini imposti dal reale per vivere il piacere e la felicità.

 

L’Infinito è una delle poesie di Giacomo Leopardi più belle, dove il Poeta riflette oltre le cose materiali varcando l’immaginazione per entrare negli spazi sterminati dell’interiorità ,unica via per la ricerca del piacere e della felicità, che ,non trovando conferme nel reale, genera quel Pessimismo tipico del grande genio ,che è consapevole fino in fondo di ciò che lo circonda e dei limiti che la vita gli ha offerto.

Ma, oggi si può benissimo guardare all’”Infinito” da un altro punto di vista, anche perché quella solitudine che dona al poeta quell’”ermo colle” nell’era della “connessione perenne” rischia di non essere possibile, poichè l’uomo si dedica poco o niente all’introspezione.
Questa poesia è oggi patrimonio dell’Umanità.

L’Infinito

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Giacomo Leopardi

La lirica è un viaggio verso l’infinito piacere e la felicità,oltre la realtà della vita, come la Divina Commedia fu il viaggio di Dante verso Dio. Per Leopardi come per noi l’Infinito non è altro che un viaggio tra il finito e l’infinito, nel mondo delle illusioni dove l’uomo vuole cercare la felicità in un futuro, che poi si rivelerà essere un meraviglioso irraggiungibile miraggio. Viene fuori il pessimismo , che è il light motiv di tutto il pensiero leopardiano, la dolce tristezza di un cuore restio alla resa dell’evidenza di una natura matrigna, che lo induce alla continua riflessione sulla vita dell’uomo. Infatti possiamo trovare la felicità soltanto in quel luogo oltre il colle, oltre la siepe, quando ci perdiamo in quello spazio infinito, che ci mostra la bellezza dell’eternità.

infiito

Metafora della vita..

 

OIG

La vita è questa: persone che vanno, persone che vengono. Persone che conoscerai bene, altre che non riconoscerai più. Persone sincere, altre a cui cadrà la maschera. Persone che amerai oppure odierai, che ricorderai o rimpiangerai. Sì, la vita è questa, persone che vanno e persone che vengono, ma quelle importanti sono quelle che restano…

Un Quasimodo non troppo ermetico, ma bellissimo…

 Un Quasimodo non  troppo ermetico, ma bellissimo, una sublime poesia, un canto del cuore , che mi ha sempre affascinata. Amo questo suo essere partecipe della vita, che trionfa sempre, che nasce dal nulla. Il più grande miracolo che accade nel mondo continuamente…nonostante tutto.

 Sogno

Ed ecco sul tronco
si rompono le gemme:
un verde più nuovo dell’erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul botro.

E tutto mi sa di miracolo;
e sono quell’acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c’era..

Salvatore Quasimodo

 

albero

 

Una maschera per vivere…

 

In ogni lingua europea l’uso della parola “person”è involontariamente appropriato. L’origine di “person” è “persona”, una maschera ,come quella che gli attori erano soliti indossare sui palcoscenici antichi;ed è sicuramente vero che la maggior parte di loro non mostravano se stessi come erano, ma indossavano una maschera della quale interpretavano il ruolo. Infatti, la nostra posizione sociale può essere paragonata ad una continua commedia.
Ed è  per questo motivo che l’uomo che sa riconoscere il valore delle cose trova la maggior parte della società senza alcun interesse , mentre l’incompetente e credulone si trova perfettamente a suo agio, come se fosse a casa sua. E’ stato guardandomi intorno che mi sono ricordata della visione pessimistica della vita di Shopenhauer  e, sinceramente, mi pare attualissima.

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E’ nell’incertezza l’habitat naturale della vita dell’uomo…

La nostra vita è un’opera d’arte – che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no. Per viverla come esige l’arte della vita dobbiamo – come ogni artista, quale che sia la sua arte – porci delle sfide difficili (almeno nel momento in cui ce le poniamo) da contrastare a distanza ravvicinata; dobbiamo scegliere obiettivi che siano (almeno nel momento in cui li scegliamo) ben oltre la nostra portata, e standard di eccellenza irritanti per il loro modo ostinato di stare (almeno per quanto si è visto fino allora) ben al di là di ciò che abbiamo saputo fare o che avremmo la capacità di fare.

Dobbiamo tentare l’impossibile. E possiamo solo sperare – senza poterci basare su previsioni affidabili e tanto meno certe – di riuscire prima o poi, con uno sforzo lungo e lancinante, a eguagliare quegli standard e a raggiungere quegli obiettivi, dimostrandoci così all’altezza della sfida. L’incertezza è l’habitat naturale della vita umana, sebbene la speranza di sfuggire ad essa sia il motore delle attività umane.

Sfuggire all’incertezza è un ingrediente fondamentale, o almeno il tacito presupposto, di qualsiasi immagine composita della felicità. È per questo che una felicità «autentica, adeguata e totale» sembra rimanere costantemente a una certa distanza da noi: come un orizzonte che, come tutti gli orizzonti, si allontana ogni volta che cerchiamo di avvicinarci a esso.

Zygmunt Bauman, da “L’arte della vita” .

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L’egemonia demenziale del nostro paese..

Ma davvero un manager di Stato deve dimettersi dal suo incarico non per incapacità, disonestà, abuso di potere ma per aver usato una citazione di Mussolini in altro contesto, non certo per farne l’apologia? Ma davvero un dipendente pubblico deve essere licenziato, secondo la Corte di Cassazione, non per incapacità, disonestà, abuso di potere, assenteismo, violenza o altro ma perché ha chiamato “lesbica” una sua collega? Ma davvero sono più delinquenti coloro che in metro non borseggiano, non derubano il prossimo, non lo aggrediscono, ma filmano e denunciano i ladri? Ma davvero merita provvedimenti disciplinari un dipendente che avverte i passeggeri dai microfoni della metro che a bordo ci sono zingari che stanno rubando? (Avrebbero dovuto dire: esponenti della cultura rom stanno tenendo corsi di redistribuzione dei redditi). Potrei andare all’infinito, dirvi di carriere onorate ma mozzate solo da una parola sconveniente, atleti di valore cancellati perché una volta hanno usato un linguaggio non conforme, o solo una parolina oggi proibita, e tanto altro. Si sono bevuti il cervello.

Non è solo un delirio ideologico questo strapotere del “correttivo” (variante moralista e punitiva del collettivo); ma diventa sanzione, discriminazione, persecuzione. Puoi avere avuto una vita esemplare, una carriera fondata su merito, fatica e capacità, puoi preoccuparti dei diritti, della libertà e della sicurezza dei cittadini; ma se dici quella parola vietata, se usi quell’espressione proibita, sei entrato come nel gioco dell’oca nella casella fatale e la fortuna come si diceva anticamente in quel gioco “‘nzerra a’porta”, chiude per sempre ogni tua aspettativa, ogni tuo diritto, ogni tuo requisito.

Poi c’è sempre un cazzullo qualunque che dice: ma non c’è nessuna egemonia culturale, è una fandonia. E’ vero, c’è un’egemonia demenziale, che è infinitamente peggio; ha perso i suoi residui caratteri culturali, tramite l’ideologia è arrivata al suo stadio peggiore, quello che mortifica l’intelligenza, il buon senso, la percezione della realtà. Ed è così pervasiva che non ti accorgi nemmeno che è una gabbia ideologica, una lente deformante.

L’altra sera avevo voglia di andare al cinema, ci andavo spesso, almeno un paio di volte a settimana. Ho visto le novità nelle sale: non c’era un film che non trattasse di quei temi obbligati del “correttivo”, film sui gender, sulla storia riscritta in chiave femminista, sulle storie omotrans, e se trattano di storia, sul nazismo e dintorni. Variante, i migranti. Perfino i film d’animazione si vanno adeguando, tra un po’ pure nei thriller ci sarà l’obbligo assoluto che la vittima sia nero, gay, trans, migrante, e l’assassinio sia il maschio bianco, fascista, etero, conservatore, sessista e omofobo. Devi sperare in qualche film asiatico, o della periferia estrema del mondo per vedere qualcosa di diverso, ma fino a un certo punto, perché se entrano nel circuito globale devono avere almeno qualche ingrediente d’obbligo nella confezione. Alla fine non sono andato al cinema. E quando l’ho scritto nei social, oltre a ricordarmi che pure le serie che si vedono a casa rispettano gli stessi ingredienti e hanno gli stessi indirizzi, molti mi hanno detto, gloriandosene, che loro al cinema non ci vanno più. Va bene, ma non c’è nessun orgoglio in questa rinuncia, è una sconfitta, una mutilazione della libertà e della cultura, un cedere a chi usa il suo potere in modo demenziale ed infame. Non si può continuamente sottrarsi, rinunciare, escludersi perché altri somministrano la loro pappa ideologico-correttiva. Ed è superfluo aggiungere, ma è doveroso farlo, che il lato b di questa situazione è la sconsolante assenza di alternative, di culture, movimenti e produzioni diverse. Il carosello è sempre a senso unico, come fu a Sanremo (egemonia demenziale, anzi monopolio coatto).

Non ne parlo più per denunciare questa egemonia e nemmeno per farne l’analisi; ma perché avverto crescente un disagio di vivere, in questo mondo, a queste condizioni. E so già che qualunque testimonianza, opera o riflessione in senso inverso non lascerà traccia, non verrà presa in considerazione, sarà prima o poi cancellata dal diario di bordo dei nostri giorni. Così il dissenso muta in defezione e la defezione in rabbia. Ma rabbia impotente, a giudicare dagli esiti di questa denuncia. Rabbia impotente, se si considera che perfino un chiaro e preciso orientamento, opposto a questo calderone, ha vinto le elezioni e governa in paese. E sai già che nulla potrà fare per cambiare le cose e almeno favorire che si affianchi una chiave opposta o diversa di lettura del mondo rispetto a quella dominante e soffocante.

Qualcuno obbietta: si vede che sta bene alla gente tutto questo, se nulla impedisce che si affermi, e così in fretta. No, signori, non è che sta bene alla gente, il problema è che da una parte c’è un potere, una mafia, una cappa e dall’altra ci sono cittadini sfusi, perduti nella loro vita di singoli, impotenti. E il martellamento è così insistente, quotidiano, ossessivo che alla fine abbozzi, accetti- sindrome di Stoccolma, rassegnazione, tortura cinese goccia a goccia, farsi andar bene tutto per sopravvivere – e alla fine magari pensi che la realtà sia davvero il contrario di quel che vedono i tuoi occhi e percepisce la tua mente. E la cancel culture applicata a tanti ambiti, che pure viene respinta da gran parte della gente, che la sente come falsa, dispotica, innaturale? Ma alla lunga è più facile cancellare che costruire o conservare, è più facile ignorare che ricordare; basta un colpo di spugna, un reset, un tasto che cancella e vince l’ignoranza unita all’amnesia. Per costruire e per salvaguardare, invece, ci vuole pazienza, coraggio, capacità e creatività di inventare – pezzo su pezzo una cultura – qualcosa che necessita di cura e di manutenzione. No, è molto più facile liberarsene, disfarsi, cancellare. Per questo confesso il disagio di vivere in un mondo del genere, senza verità.

MV

Disattenzione…o senza impegno ?

 

Disattenzione

Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare domande,
senza stupirmi di niente.

Ho svolto attività quotidiane,
come se ciò fosse tutto il dovuto.

Inspirazione, espirazione, un passo dopo
l’altro, incombenze,
ma senza un pensiero che andasse più in là
dell’uscire di casa e del tornarmene a casa.

Il mondo avrebbe potuto essere preso per
un mondo folle,
e io l’ho preso solo per uso ordinario.

Nessun come e perché –
e da dove è saltato fuori uno così –
e a che gli servono tanti dettagli in movimento.

Ero come un chiodo piantato troppo in
superficie nel muro
(e qui un paragone che mi è mancato).

Uno dopo l’altro avvenivano cambiamenti
perfino nell’ambito ristretto d’un batter
d’occhio.

Su un tavolo più giovane da una mano d’un
giorno più giovane
il pane di ieri era tagliato diversamente.

Le nuvole erano come non mai e la pioggia
era come non mai,
poiché dopotutto cadeva con gocce diverse.

La terra girava intorno al proprio asse,
ma già in uno spazio lasciato per sempre.

E’ durato 24 ore buone.
1440 minuti di occasioni.
86.400 secondi in visione.

Il savoir-vivre cosmico,
benché taccia sul nostro conto,
tuttavia esige qualcosa da noi:
un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal
e una partecipazione stupita a questo gioco
con regole ignote.

Wislawa  Szymborska

 

pane