Ma davvero un manager di Stato deve dimettersi dal suo incarico non per incapacità, disonestà, abuso di potere ma per aver usato una citazione di Mussolini in altro contesto, non certo per farne l’apologia? Ma davvero un dipendente pubblico deve essere licenziato, secondo la Corte di Cassazione, non per incapacità, disonestà, abuso di potere, assenteismo, violenza o altro ma perché ha chiamato “lesbica” una sua collega? Ma davvero sono più delinquenti coloro che in metro non borseggiano, non derubano il prossimo, non lo aggrediscono, ma filmano e denunciano i ladri? Ma davvero merita provvedimenti disciplinari un dipendente che avverte i passeggeri dai microfoni della metro che a bordo ci sono zingari che stanno rubando? (Avrebbero dovuto dire: esponenti della cultura rom stanno tenendo corsi di redistribuzione dei redditi). Potrei andare all’infinito, dirvi di carriere onorate ma mozzate solo da una parola sconveniente, atleti di valore cancellati perché una volta hanno usato un linguaggio non conforme, o solo una parolina oggi proibita, e tanto altro. Si sono bevuti il cervello.
Non è solo un delirio ideologico questo strapotere del “correttivo” (variante moralista e punitiva del collettivo); ma diventa sanzione, discriminazione, persecuzione. Puoi avere avuto una vita esemplare, una carriera fondata su merito, fatica e capacità, puoi preoccuparti dei diritti, della libertà e della sicurezza dei cittadini; ma se dici quella parola vietata, se usi quell’espressione proibita, sei entrato come nel gioco dell’oca nella casella fatale e la fortuna come si diceva anticamente in quel gioco “‘nzerra a’porta”, chiude per sempre ogni tua aspettativa, ogni tuo diritto, ogni tuo requisito.
Poi c’è sempre un cazzullo qualunque che dice: ma non c’è nessuna egemonia culturale, è una fandonia. E’ vero, c’è un’egemonia demenziale, che è infinitamente peggio; ha perso i suoi residui caratteri culturali, tramite l’ideologia è arrivata al suo stadio peggiore, quello che mortifica l’intelligenza, il buon senso, la percezione della realtà. Ed è così pervasiva che non ti accorgi nemmeno che è una gabbia ideologica, una lente deformante.
L’altra sera avevo voglia di andare al cinema, ci andavo spesso, almeno un paio di volte a settimana. Ho visto le novità nelle sale: non c’era un film che non trattasse di quei temi obbligati del “correttivo”, film sui gender, sulla storia riscritta in chiave femminista, sulle storie omotrans, e se trattano di storia, sul nazismo e dintorni. Variante, i migranti. Perfino i film d’animazione si vanno adeguando, tra un po’ pure nei thriller ci sarà l’obbligo assoluto che la vittima sia nero, gay, trans, migrante, e l’assassinio sia il maschio bianco, fascista, etero, conservatore, sessista e omofobo. Devi sperare in qualche film asiatico, o della periferia estrema del mondo per vedere qualcosa di diverso, ma fino a un certo punto, perché se entrano nel circuito globale devono avere almeno qualche ingrediente d’obbligo nella confezione. Alla fine non sono andato al cinema. E quando l’ho scritto nei social, oltre a ricordarmi che pure le serie che si vedono a casa rispettano gli stessi ingredienti e hanno gli stessi indirizzi, molti mi hanno detto, gloriandosene, che loro al cinema non ci vanno più. Va bene, ma non c’è nessun orgoglio in questa rinuncia, è una sconfitta, una mutilazione della libertà e della cultura, un cedere a chi usa il suo potere in modo demenziale ed infame. Non si può continuamente sottrarsi, rinunciare, escludersi perché altri somministrano la loro pappa ideologico-correttiva. Ed è superfluo aggiungere, ma è doveroso farlo, che il lato b di questa situazione è la sconsolante assenza di alternative, di culture, movimenti e produzioni diverse. Il carosello è sempre a senso unico, come fu a Sanremo (egemonia demenziale, anzi monopolio coatto).
Non ne parlo più per denunciare questa egemonia e nemmeno per farne l’analisi; ma perché avverto crescente un disagio di vivere, in questo mondo, a queste condizioni. E so già che qualunque testimonianza, opera o riflessione in senso inverso non lascerà traccia, non verrà presa in considerazione, sarà prima o poi cancellata dal diario di bordo dei nostri giorni. Così il dissenso muta in defezione e la defezione in rabbia. Ma rabbia impotente, a giudicare dagli esiti di questa denuncia. Rabbia impotente, se si considera che perfino un chiaro e preciso orientamento, opposto a questo calderone, ha vinto le elezioni e governa in paese. E sai già che nulla potrà fare per cambiare le cose e almeno favorire che si affianchi una chiave opposta o diversa di lettura del mondo rispetto a quella dominante e soffocante.
Qualcuno obbietta: si vede che sta bene alla gente tutto questo, se nulla impedisce che si affermi, e così in fretta. No, signori, non è che sta bene alla gente, il problema è che da una parte c’è un potere, una mafia, una cappa e dall’altra ci sono cittadini sfusi, perduti nella loro vita di singoli, impotenti. E il martellamento è così insistente, quotidiano, ossessivo che alla fine abbozzi, accetti- sindrome di Stoccolma, rassegnazione, tortura cinese goccia a goccia, farsi andar bene tutto per sopravvivere – e alla fine magari pensi che la realtà sia davvero il contrario di quel che vedono i tuoi occhi e percepisce la tua mente. E la cancel culture applicata a tanti ambiti, che pure viene respinta da gran parte della gente, che la sente come falsa, dispotica, innaturale? Ma alla lunga è più facile cancellare che costruire o conservare, è più facile ignorare che ricordare; basta un colpo di spugna, un reset, un tasto che cancella e vince l’ignoranza unita all’amnesia. Per costruire e per salvaguardare, invece, ci vuole pazienza, coraggio, capacità e creatività di inventare – pezzo su pezzo una cultura – qualcosa che necessita di cura e di manutenzione. No, è molto più facile liberarsene, disfarsi, cancellare. Per questo confesso il disagio di vivere in un mondo del genere, senza verità.