Cose preziosissime. Chi le ha viste?

C’erano una volta cose preziosissime.
La parola data o la stretta di mano,
quando valevano più di cento firme
fatte davanti al notaio.

La dignità quando non era mai in vendita,
perché era l’unico capitale
che una persona possedeva.

Il rispetto per le persone anziane,
quando la vecchiaia non era ancora emarginazione,ma significava esperienza, saggezza,essere ascoltati dai più giovani.

I valori, sia umani, civili, religiosi,
quando valevano molto di più delle cose di valore.

Il tempo quando scorreva a ritmi naturali
e la gente non aveva la necessità di guardare l’orologio ogni cinque minuti.

C’erano una volta cose preziosissime…

 

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Capita a tutti di ragionare su di noi, prima o dopo…

 

Sono giunto a quella età per cui la vita è, per ogni uomo, una sconfitta accettata. Si direbbe che il quadro dei miei giorni, come le regioni di montagna, si componga di materiali diversi agglomerati alla rinfusa. Vi ravviso la mia natura, già di per sé stessa composita, formata in parti eguali di cultura e d’istinto. Affiorano qua e là i graniti dell’inevitabile; dappertutto, le frane del caso. Mi studio di ripercorrere la mia esistenza per ravvisarvi un piano, per individuare una vena di piombo o d’oro, il fluire d’un corso d’acqua sotterraneo, ma questo schema fittizio non è che un miraggio della memoria. Di tanto in tanto, credo di riconoscere la fatalità in un incontro, in un presagio, in un determinato susseguirsi di avvenimenti, ma vi sono troppe vie che non conducono in alcun luogo, troppe cifre che a sommarle non danno alcun totale. In questa difformità, in questo disordine, percepisco la presenza di un individuo, ma si direbbe che sia stata sempre la forza delle circostanze a tracciarne il profilo; e le sue fattezze si confondono come quelle di un’immagine che si riflette nell’acqua.

Marguerite Yourcenar “Memorie di Adriano”

 

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Nonna radio ha una marcia in più..

 

Abbraccia la tua radio per favor, compie cent’anni ed è il media più antico tra i moderni e il più confidenziale per indole, il più sentimentale, il più magico, il più italiano. Intanto è il più compatibile con l’immaginazione, perché non ha immagini e ti fa cavalcare con la fantasia. Poi, è il più adatto a un paese loquace, refrattario ai silenzi e alla lettura, più incline alla cultura orale dove il fascino è nella parola e nel tono di voce. E poi la radio è la più rispettosa della vita pratica, perché per ascoltarla non devi interrompere la tua attività, puoi fare altro. E infine, se permettete, è il media più italiano, anche perché nessuno discute la sua paternità, come per il telefono, è nata dal genio italiano di Guglielmo Marconi e dal suo telegrafo: la tv, la stampa, il web, hanno padri diversi o controversi, la radio no.

La discrezione della radio, la signorilità del suo sussurrare e il pudore di non mostrare la rendono davvero un mezzo per bene, d’altri tempi, quando si diceva ossequi alla signora e ci si toglieva il cappello. È stato facile celebrare quest’anno i settant’anni della Tv perché la sua nascita cadeva in epoca repubblicana, il 1954, nonostante le prime prove tecniche di trasmissione fossero nei primissimi anni quaranta. Più spinoso è invece parlare della Radio che il prossimo 6 ottobre compirà cent’anni, essendo nata a pieno regime, sotto il fascismo, il 1924. Eiar era il suo cognome da signorina, molto più volatile e aereo, facilmente declinabile alla fascista: Ejar, ejar alalà (in realtà era un motto dannunziano a sua volta mutuato dagli antichi romani e perfino greci).

Come soffrì la radio, quando era ancora giovane, a vedere che il successo della figlia Televisione oscurava il suo. Sì, felice per sua figlia ma si sentiva messa da parte, invecchiata di colpo. Si è rifatta un po’ coi nipoti, i new media, che in parte l’hanno rivalutata e in parte hanno reso più attempata sua figlia in video. E si è poi mescolata con l’i-phone, in forme ibride e creative, che non l’hanno resa del tutto superflua. La modernità della radio era consegnata alle sue dimensioni: più era grossa più era vecchia, antiquata e viceversa più era piccola, transistor, e più era agile e moderna. Poi passarono entrambi al vintage e al modernariato, come il magnetofono e il mangiadischi.

La radio vive nascosta e sedentaria, tra casa e auto, sopraffatta dallo smartphone in cui in fondo sopravvive sotto falso nome; non ama esibire, non vive d’apparenza, si affida alle parole più che ai gesti, alle canzoni più che alle azioni, e parla, parla tanto.

La radio non è la preistoria dei mass media, ma è qualcosa in più, di magico e fatale. La radio, dicevamo, è insuperabile per questa sua flessibilità che la rende duttile alla vita e alla sua pratica: tu puoi farti la barba, puoi lavorare, puoi guidare, puoi correre e fare sport, puoi fare ogni cosa mentre ascolti la radio. Con la tv, il tablet, lo smartphone, il pc, no, è più difficile. Ti occupano la vista. Lei è multitasking e non si sostituisce al mondo, ma ti accompagna, è la colonna sonora della vita. La sua magia è nella parola e nella musica; incanta più della visione e al tempo stesso fa pensare. Vai in tv e ti notano la cravatta, vai in radio e ti notano un concetto. È più di sostanza, la radio, meno futile. Per dirla nel gergo ruffiano della contemporaneità la radio è Smart, Warm and Friendly. Passateci l’uso ironico dell’americanismo, noi che vent’anni fa proponemmo il ritorno alla lingua italiana in Rai, ma ci permette di riassumere perché uno strumento antico o perlomeno di modernariato, comunica ancora bene, molto meglio di tante recenti innovazioni, rispetto alle quali mantiene un maggior grado di penetrazione, di fidelizzazione e di appetibilità. Ma la Radio davvero è particolarmente efficace perché è un mezzo facilmente abbordabile e diretto (Smart), intimo ed emozionale (Warm), non invasivo ma amichevole (Friendly).

Poi un limite oggettivo e grosso della radio rispetto agli altri media è anche per altri versi un suo pregio esclusivo: la mancanza di immagini, anzi la cecità del suo comunicare, ha tagliato le gambe agli aspetti più facili e a volte più torbidi della comunicazione, anche pubblicitaria: c’è meno Sesso, Sangue, Violenza, Trucco e Avvenenza a fare da richiamo. La Radio è più sobria, più autentica, più mite, sembra perfino meno interessata all’aspetto venale, ai soldi e al successo, un mezzo quasi da confessionale. Ti giochi tutto con le parole e con quel che c’è dentro. Certo, pure con la voce si può essere seduttivi e perfino erotici, ma alla fine l’arte dell’affabulazione, la capacità di combinare parole, musiche e silenzi per entrare in un universo parallelo e invisibile, fatto di armonie e cibo per la mente, è la specialità magica della radio.

Ho molti ricordi radiofonici, e non solo perché in radio, alla Rai, ci ho lavorato per anni. Anzi, i ricordi più mitici e più tenaci sono quelli che ti porti da bambino. Ogni tanto la preistoria personale viene a trovarci. Tu ricordi vagamente il soggiorno di casa tua da bambino, tuo padre accanto a un gran bestione di radio, tu e i tuoi fratelli raccolti a sentire le partite di calcio, “se la squadra del vostro cuore ha perso consolatevi con Stock 84”. Ricordi lo stupore del quadrante acceso, gremito di nomi esotici, la sorpresa di quelle linee luminose che si spostavano con la manopola e le voci promiscue che cambiavano rapidamente, dall’inglese al russo all’arabo. Il Lontano entrava in casa. Scusa Ciotti, linea ad Ameri, grazie Bortoluzzi.

Poi, la domenica radiosa, le canzoni riempivano la casa combinandosi con l’odore di ragù. Pensi che sia un mondo sepolto o solo sognato, tanto pallido e stinto è il ricordo. Ma poi un pomeriggio, alla controra, ti arrampichi sulla soffitta della casa paterna e ritrovi lacerti del passato che giacciono inerti ma alludono a una preistoria favolosa e affettiva. Ritrovi con loro quelle stanze, quelle voci, quei volti, quelle abitudini di casa. Riemerge da quell’Atlantide familiare la carcassa del prezioso animale domestico, la radiona Clariton in radica di noce che irradiava il soggiorno. Con qualche espediente si rianima, dà segnali di vita, emette rumori, suoni… Vorresti riascoltare le parole e le voci di quel tempo e rivedere al suo fianco quella poltrona occupata. Ma poi ti accontenti d’aver ritrovato la macchina del tempo e ti reincanta il suo fervore di luci. Non sai come festeggiare la sua ricomparsa, ma mentre ci pensi, ti accorgi che lo stai già facendo. Si riaccendono i ricordi, va in onda il passato. Benedetta Radio, sei stata sempre di parola.

Marcello Veneziani                      

Un’emozione…

Un’emozione…

Ci sono giorni, che piove, piove come fosse autunno, per ricordarsi all’improvviso che è primavera, allora si imbizzarriscono le correnti e cominciano a litigare. Dapprima borbottii, poi un litigio furioso con sonore botte,il cielo si scurisce, nero come la pece, inizia una fitta grandinata , grossi chicchi che luccicano tra i lampi. Il vento si agita come un ballerino impazzito che danza tra gli alberi rivestendosi di foglie ,che spariglia attorno. Dietro i vetri, osservava questo brutto temporale; non aveva il profumo della calura estiva, ma si portava dietro un freddo quasi invernale, un cielo che schiariva lentamente diventando lattiginoso, luce biancastra da fine autunno, prati bianchi di grandine, rami, foglie, fiori sfregiati sparpagliati ovunque. Una grande tristezza la assaliva , si sentiva torturata come la natura, incapace di difendersi. Ricordava quando lui c’era ancora ,il tepore del viso di lui accanto al suo, piaceva ad entrambi guardare la pioggia, lei accovacciata sulle sue ginocchia ad osservare l’acqua, che scorreva lungo i vetri, oppure scendeva sulla veranda aperta, durante l’estate, momenti in cui si sentiva soltanto la musica della pioggia, a volte un crescendo di note forti, che improvvisamente si smorzavano nel vento placato.. allora sgocciolavano le gronde, la pioggia diradava, tornava la luce del pomeriggio a cancellare quella sera autunnale calata all’improvviso. Come quando finisce uno spettacolo, una passeggiata in veranda sgranchiva le loro gambe,in quel tramonto che sembrava un ‘alba, che schiariva dalla notte per immergersi nella sera, negli ultimi raggi di sole che coloravano il cielo e le nuvole con rossi incredibili, nello spegnersi del sole dietro la collina… e pioveva ancora, una pioggia sottile da rimasugli di nuvole violette, uno spettacolo incredibile, che avevano visto poche volte, che avevano ammirato quasi inebetiti . C’era il sole della sera e pioveva, se si fosse potuto assaggiare la pioggia non avrebbe stupito se fosse stata zuccherata. Senza parlare lei incominciava a sorridere e poi scoppiavano in una risata, lo squarcio azzurro che piano piano diradava le gocce, le rallentava . Dietro le colline il cielo giallo, uno scrigno pieno d’oro ai piedi di un arcobaleno che , in pochi secondi disegnava il suo arco, che si perdeva lontano nella pianura ancora scura. Abbracciati avevano vissuto questa emozione, meravigliosa, la pioggia nel tramonto di fuoco, un’ emozione rara irripetuta fino a ieri sera quando, in quello squarcio di azzurro , in quelle ultime gocce colorate lei vedeva ancora i sui occhi, gli stessi che l’avevano incantata la prima volta, in cui l’aveva visto, gli stessi,che parevano sorridere in quell’ultimo addio!!

pioggia di settembre

Elegia nostrana in un paese smemorato…

 

 

È possibile immaginare un’elegia italiana o nostrana, come J.D. Vance ha imbastito un’ Elegia americana? Il libro scritto dall’attuale candidato a vice di Trump era dedicato alla memoria, all’infanzia, alla profonda provincia dell’America; da noi sarebbe un viaggio nostalgico nella provincia italiana, quel che ha rappresentato nella vita e nell’immaginario nostrano. Ieri, nel mio paese natio, Bisceglie, a conclusione del festival “I libri nel borgo antico”, cercherò – nella brevità di un incontro – di ricamare un’elegia paesana, aiutandomi con le immagini del passato, nel tempo in cui la memoria e i paesi tendono a svanire, con una velocità impensabile alla luce della proverbiale lentezza della vita di paese, al sud in particolare. I festival del libro hanno il merito di portare la cultura in provincia, i libri e gli autori del momento. Tenterò l’operazione inversa, di portare il paese, la provincia nel cuore della cultura, della memoria e della riflessione del presente. In fondo la grande letteratura nasce provinciale prima di diventare universale. Ogni volta che parli di un paese parli di ogni paese, tutto ciò che è profondamente intimo, locale, nostrano è ciò che è più universale, più sentito, comune a tutti. Anche chi vive in città ha un paese d’origine nel cuore; magari non è il suo ma dei suoi nonni; tanti ricordano memorabili giorni vissuti nella carezza del paese e nel suo pigro avvolgersi intorno a noi.
Contrariamente a quel che si dice, il mondo locale era molto più ricco, vario e universale del mondo globale nel quale viviamo. In paese conosci mille persone, ti fermi a parlare con cento, sai vita, morte e miracoli di tanta gente; nella grande città ne conosci e ne saluti assai meno, ti fermi a parlare con pochissimi.
Il bambino cresciuto nel mio paese, come in molti altri paesi, abitava in tre mondi reali: conosceva il paese, la piazza, il corso, le case, i negozi, la vita paesana ma conosceva pure la campagna, gli animali, la civiltà contadina che era fino a pochi decenni fa prevalente e contigua al paese; e conosceva il mare a due passi da casa, i pesci e i pescatori, le reti, le barche, i ricci, le cozze, i bagni; un altro mondo.
Ma non solo. Le famiglie numerose di una volta – allargate, allungate, aperte ad amici, comari e conoscenti – ti mettevano in confronto permanente con mondi diversi dal tuo per età, ceto, esperienza. Oggi, le famiglie sono piccole, introverse e colonizzate dal mondo parallelo dei media; i giovani stanno coi giovani, i vecchi coi vecchi (quando non sono soli). C’è una specie di razzismo generazionale, di ristrettezza dello sguardo, di apartheid anagrafica che ci separa e ci isola; non conosciamo più dal vivo il passato, e gli anziani non conoscono i giovani che abiteranno il futuro. Vivono tempi, mezzi, linguaggi diversi. Accanto al mondo naturale e reale, si viveva in un mondo magico e religioso popolato di miti, folletti, favole e superstizioni, preghiere e processioni; capivi che il mondo non ruota intorno a te o dentro quella teca onnisciente chiamata smartphone, ma esiste nella realtà visibile e invisibile e tu sei solo un puntino dentro quell’universo.
Poi l’esperienza nel paese era multisensoriale. Non c’era solo la parola e la vista, c’era anche l’olfatto, tra odori e puzze, il gusto forte dei sapori veraci, il tatto, cioè il contatto di prossimità, toccarsi oltre a parlarsi, fiatarsi accanto; la prossimità era tangibile. Oggi conosciamo di più il lontano, ieri conoscevamo di più il vicino, la prossimità.
Le case in paese erano centri fiorenti di vita; la gente entrava e usciva di continuo, si chiamavano dai balconi e dalle finestre, avevi continue visite all’improvviso. Famiglie numerose comportavano sciami generazionali in transito continuo nelle proprie case. Società aperte, altro che chiuse, ma nella prossimità. Conviviali, a volte litigiose.
Insomma, contrariamente a quel che oggi si pensa, il mondo del paese era più ricco, vario e movimentato di quello telematico, virtuale e internettaro di oggi. C’era più umanità anche se di rado si vedevano le masse, le folle, le file. La vita nella sua semplicità sembrava nascere, crescere e finire spontanea; è la vita gratis, che vuol dire per grazia, senza prezzo e senza pretese, dove i beni primari sono accessibili gratuitamente.
Sto parlando al passato perché quel paese non c’è più. Si è svuotato, i figli lavorano lontano, le coppie non fanno figli, i vecchi sono aumentati, le strade hanno più extracomunitari che paesani. La vita biologica si allunga, la vita comunitaria si accorcia, la gente sta più in casa o in auto, ha meno natura intorno. Spariti gli asini, i muli, le galline e gli altri animali di cortile, i cani sotto i carretti o traini; le capre e le pecore, munte direttamente a domicilio per avere il latte fresco. Ora ci sono più cani e gatti in casa, umanizzati, trattati meglio, sostituiscono figli e amici.
Chi si aspetta a questo punto il rimpianto per quel tempo, resterà deluso. Primo, perché quel mondo era anche duro, aspro, povero, crudo, affamato, scalzo, ingiusto, ignorante e manesco.
Secondo, perché ogni epoca ha i suoi progressi e i suoi regressi, le sue conquiste e le sue perdite, e non ha senso rimpiangere le une senza considerare le altre.
Terzo, perché anche a volerlo quel mondo non torna più; è impossibile e patetico immaginare di ripristinarlo o rimetterlo artificialmente in vita. E non riusciremmo più a vivere in quel modo, in quel mondo, in quelle condizioni. Non era più bello quel mondo ma gli occhi che lo osservavano, i nostri occhi di bambino e poi di ragazzo, ancora pieni di vita e di aspettative. Era la nostra infanzia ma ci pareva l’infanzia del mondo, quando principiavano tutte le cose.
Allora perché ne parli e con tanta passione? Perché è bello farsi cacciatori di ricordi, è bello aver memoria di un mondo diverso, è bello ritornare a coloro che non ci sono più e alle cose che non ci sono più. Abitare più mondi è una ricchezza, abitare il passato oltre il presente è una preziosa risorsa e un termine di paragone, un buon esercizio che affina il nostro senso critico, la nostra libertà e la nostra coscienza di essere al mondo. La nostalgia è un bellissimo sentimento che fa bene all’anima, umanizza i rapporti, riporta la vita all’essenziale. Diventa una malattia se si capovolge in odio verso il presente, pretesa di abolirlo o almeno di maledirlo. Allora da sentimento si fa risentimento.
Ci vorrebbe un’elegia nostrana, senza pretese restauratrici e velleità revansciste. Un sentimento che prende il cuore, rende più lievi i giorni, ci fa vivere in più mondi e non solo in quello presente, che da vecchi ci piace sempre meno. E che ci rimette in pace con i morti e col passato.
Perciò è bello una domenica sera di fine estate riprendere, mano nella mano, la danza dei ricordi, l’elegia per un mondo che non c’è più.

Marcello Veneziani

Giardino d’infanzia …

 

 

Ma com’erano i bambini quando nascevano in branchi e non in campioni unici e irripetibili, e in casa anziché in ospedale? Provo a rinfrescarvi la memoria con graffiti di preistoria ripescati dall’infanzia. Piccoli quadretti di scarso valore rubati all’oblio, per raccontare, tramite storie minime, la dolce fatuità del passato.

*Passa l’angelo e dice amen. Da bambino appena facevi una smorfia, una boccaccia o peggio imitavi uno storpio, genitori e adulti ti ammonivano: non farlo, sennò passa l’angelo e dice amen; ti fa rimanere per sempre così. C’è pure una canzone di De Gregori sul tema. Ho sempre pensato con apprensione a quest’angelo feroce, veloce e privo di senso dell’ironia che ti faceva restare per sempre con la boccaccia, il viso mostruoso e la gamba zoppicante. La faccia d’angelo, i modi celestiali, e poi, con quella purezza divina, con una parolina ti rovina per sempre…Amen, così sia. Ma perché questa tempestiva ed esagerata punizione per uno scherzo da bambini? Rovesciai la teologia che considerava i diavoli come angeli decaduti, convincendomi al contrario che gli angeli fossero diavoli progrediti, dalle buone maniere e dalla carnagione bianca, ma terribili quanto i loro più abbronzati colleghi del piano inferiore. E mi convinsi che gli handicappati fossero in origine bambini dispettosi che erano stati puniti per la loro disobbedienza. Cave signatos, si diceva crudelmente allora, altro che inclusione per i diversamente abili. (Risvolto da non rimpiangere).

*Perché le figurine dei calciatori, associate nella memoria infantile agli album Panini, ebbero grande successo da noi? Si, perché il calcio era lo sport più popolare, perché ogni bambino sognava di essere campione in erba e si giocava dappertutto. Ma c’è una ragione in più, e più profonda, che sfugge: perché il nostro era il paese dei santi e dei santini, la figura del santo era il passepartout del paradiso, lo scudo di protezione, la carta d’indentità patronale di un paese, l’eredità degli dei pagani lasciata alla civiltà cristiana. Non divinità discese dal cielo, non angeli venuti a soccorrerci e a custodirci, ma umanità salita al cielo, gente come noi che aveva compiuto il cammino di fede, opere e dedizione ed era diventata intermediaria col divino. La nostra era la civiltà dei santi e le figurine erano la continuazione dell’agiografia in ambito sportivo; così come i santini dei candidati erano la promessa elettorale, lo scambio tra voto e protezione, preferenza e raccomandazione, tra credenti e potenti. Ogni bambino aveva il suo patrono nel calcio, il suo santino preferito, il suo modello. Santi, santini e figurine erano le icone degli influencer di quel tempo.

*La mia play station dell’infanzia fu un agnello vero, adottato per capriccio in casa. Fui accontentato fino a quando pretesi di mangiare con lui sul pavimento, a quattro zampe, dalla stessa scodella. Non volevo umanizzare l’agnello ma ovinizzarmi io, in una fraternità evangelico-zoologica. Mi tolsero l’agnello per non farmi aderire al gregge. Dissero che se n’era voluto andare lui, per tornare da sua madre. Anche tu avresti fatto la stessa cosa.

*In quel tempo ero buono e volevo alleviare le fatiche domestiche di mia madre. E siccome era uscita, come quasi mai faceva, mi intrufolai in cucina e vidi un cartoccio traboccante di merluzzi che mia madre avrebbe pulito al suo rientro. Pensai di fare cosa utile lavando i merluzzi con il detersivo. Salii sulla sedia e li lavai nel lavandino con Olà, confezione blu con strisce bianche e rosse. Diventarono brillanti le squame dei merluzzi nella schiuma, sembravano pezzi d’argenteria. Sapevano di bucato. Mostrai orgoglioso la mia opera a mia madre. Notai però, con sorpresa, un segno d’ingratitudine in lei. Quel giorno, stranamente, mangiammo per secondo uova al tegamino. Che fine avranno fatto i pesci?

*A casa mia non avevamo ancora la tv e il frigorifero, per l’acqua fresca bastava farla scorrere dal rubinetto; primo segno di novità, era appeso al muro un topone nero a due teste, dotato di coda e guscio, che squittiva, chiamato telefono. 921585, il primo numero non si scorda mai. Era nel corridoio perché la telefonata aveva una valenza corale, famigliare e doveva essere breve, comunicare l’essenziale, come un ricetrasmittente militare. Passo e chiudo. In teleselezione, poi, ancora più brevi e si alza la voce, perché parla da remoto.

Una sera scoprì la modernità. Andai a trovare un mio amico, Maurizio, che aveva i genitori più giovani dei miei, era nato a Roma, aveva il televisore in casa, e pure il frigorifero e il termosifone. Coetaneo, abitante di fronte a casa mia, ma mille anni più avanti. A casa sua scoprì che c’era l’acqua minerale frizzante in bottiglie di plastica, c’erano le bustine di idrolitina e si poteva tracannare a cannella, prelevandola direttamente dal frigo, previo schiacciata di pedale del bestione bianco; senza miscelarla, come invece raccomandavano i miei genitori, con acqua a temperatura ambiente per evitare sicure morti per congestione. E alla fine della bevuta, visto il gas, era giustificato anche un rutto di adulta mondanità. C’era un riassunto epocale in quella bevuta, quante libertà in un solo gesto: acqua ghiacciata del frigo, gassata, bottiglia in plastica, bevuta a cannella, rutto incontenibile… Ammazza che modernità.

*A quattro anni sniffavo e cadevo in ecstasy olfattiva con turbe pseudoerotiche puerili. Lo spacciatore era il barbiere. Dopo lo spruzzo di un orrendo, bruciante profumo sulla nuca arrossata, donava sottobanco calendari profumati con donne dalle tette esagerate su vitini di vespa. Il calendario emanava un odore inebriante: il primo erotismo fu per via inalatoria, in sinestesia con la vista. Ma a 4 anni, le confondevo con le figurine Mira Lanza, quella eccessiva gibbosità anteriore e posteriore era ai miei occhi di bambino solo una monelleria del disegnatore e una caricatura femminile.

*Una di quelle sere di fine autunno in cui ti aspetti che dalla cucina ti chiami tua madre o tuo padre a mangiare castagne arrostite. Tu stai facendo i compiti e senti il profumo delle caldarroste impregnare la stanza e salire dalle narici. Felicità è quella pausa odorosa e quelle mani che liberano il frutto giallo e nero dalla buccia arrostita, quel goloso mangiare insieme, tra mani di carbone e punte fredde delle dita che frugano tra caldi frutti…Nostalgia delle castagne di casa. Dal tegame bucato entrano fiamme ed escono ricordi brucianti. La fiamma dei ricordi.

 Marcello Veneziani            

Un’estate lunga sei mesi. Senza più nessuna dolcezza, solo un ineluttabile disagio: come si sopravvive alla monostagione che va da aprile a ottobre?

Uno degli incipit che preferisco nella storia della letteratura l’ha scritto Roberto Calasso a 12 anni, e non è mai stato pubblicato. Calasso però ne ha poi parlato in Memè Scianca, un libriccino del 2021, e fa così: «L’estate la sentivo arrivare dal viale». Il viale sarebbe Spartaco Lavagnini, circonvallazione di Firenze, e all’epoca a cui si riferisce Calasso – l’immediato Dopoguerra – era uno stradone con il pavé al centro per i binari del tram 19, pochissime auto, tigli verdi e slanciati. L’estate che descrive il fondatore di Adelphi si avvicinava come una nave alla costa: lentamente, con emozione e una certa allegria. Ottant’anni dopo l’estate ci travolge come uno schiaffo in piena faccia. Alla prima settimana di aprile i termometri segnano trenta gradi, l’asfalto dei viale è già torrido, i cofani delle automobili scottano. Sudiamo. Un paio di anni fa uscì uno studio molto ripreso dai giornali che diceva: se non si fa niente per ridurre il cambiamento climatico, alla fine del secolo avremo un’estate lunga sei mesi. È il 2024 e l’estate pare iniziata ad aprile, quindi proseguirà a maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, chissà se anche ottobre, è possibile, è probabile. I sei mesi sono già qui, se consideriamo non solo i trenta, ma anche i venticinque gradi temperature estive. Questo, ovviamente, porta con sé una serie di conseguenze gravi che conosciamo bene: dall’ansia climatica alle disuguaglianze sociali acuite dal clima, dalle migrazioni climatiche ai sempre più frequenti dissesti idrogeologici. Ma anche una domanda più faceta che riempie gli aperitivi e le cene e le pause caffè e i pensieri interrogativi davanti allo specchio la mattina: come ci si adatta a un’estate di sei mesi?  C’è intanto un cambiamento nell’immaginazione, e ci penso rileggendo quella frase di Calasso: le primavere e le estati descritte nei romanzi, nei quadri e nei film soprattutto europei del Novecento erano dolci e attese, portavano leggerezza e una dote di maggiore libertà. Ce ne sono molte altre, semanticamente simili, che mi vengono in mente: quella di Arbasino nelle Piccole vacanze, quella di Cassola in Tempi memorabili, quella di Bassani nel Giardino dei Finzi-Contini. Sono primavere ed estati di giardini all’ombra e vestiti chiari, serate che rinfrescano, mattinate oziose in spiaggia e poi pomeriggi nelle camere riparate a riposare. Certe scene di Guadagnino, anche quelle incastonate in un passato dolce e sensuale, sembrano uscite proprio dai Finzi-Contini: «In certe sere di maggio, coi finestroni laterali spalancati dalla parte del sole al tramonto, a un dato punto ci si trovava immersi in una specie di nebbia d’oro».

In certe sere di maggio, a Milano nel duemilaventi e qualcosa, dopo aver letto l’ennesimo bollettino che annuncia: “L’ultimo aprile è stato il più caldo della storia umana”, le finestre se ne stanno invece chiuse, perché il termometro tocca già i trentadue gradi e non piove da settimane e la città puzza da far schifo. Nessuna nebbia d’oro, semmai una patina grigetta che contorna lo skyline di vetro. Accendo l’aria condizionata, guardo le piante rinsecchite sul balcone. Faccio la terza doccia del giorno. Devo uscire per una cena o un aperitivo con il giusto anticipo: in bicicletta me la devo prendere comoda, per non sudare anche tutta questa camicia. Le cene si scelgono nelle case provviste di freddo artificiale. A pranzo, i terrazzi sono ormai banditi, anche se avevamo passato l’autunno a sognare i pomeriggi a casa di tizio, immaginando scene, appunto, guadagninesche e oziose. Ma ci si può stare la sera, semmai, a terminare le notti che si sono trascinate nell’umidità.  Il caldo infiacchisce, camminare stanca: il mondo dell’estate perenne gira al contrario rispetto a quello precedente, non è un mondo di libertà ma di frustrazioni. Se prendere gli aperitivi diventa una sofferenza, allora gli uffici ben condizionati si trasformano in un posto di requie, ci si sta volentieri. Quel briciolo di sindacalismo che si era risvegliato, fatto di smart working o altri termini sul lavorare meno e più indipendentemente, si scioglie nella consapevolezza che stare al computer in case poco ventilate è forse peggio che farlo negli uffici a venti gradi. Due estati fa è capitato piovesse, finalmente, dopo mesi di siccità che aveva investito l’Europa intera: Instagram si era allora riempito di Stories di festeggiamenti, venti-trenta-quarantenni entusiasti che ballavano nella pioggia. Un altro ribaltamento: finisce così che siamo felici quando piove, e non in senso crepuscolare, come diceva una canzone dei Jesus & Mary Chain, ma proprio felici-felici. Perché l’arsura era insopportabile già da marzo, e perché abbiamo introiettato un certo senso di colpa climatico, come se le colpe dei padri, dei nonni, dei bisnonni e degli avi degli avi, dalla macchina a vapore in poi, ricadessero sulle nostre spalle. E poi, con la pioggia, ci si può almeno vestire in modo decente: altro importante elemento di disagio e dibattito da bar, in questa estate caldissima e lunghissima. Dal cappotto alla maglietta, senza passare da quelle dodici giacche da mezza stagione destinate a una reclusione putiniana nell’armadio, una boccata d’aria ogni tanto, e poi di nuovo un anno a riposare. Dureranno se non altro per sempre, passeranno e poi torneranno di moda come i cicli solari lunghi undici anni. È diventato pure difficile andarsene dalle città, perché non esiste più quella furbizia di andare ai laghi o al mare prima che scoppino le vacanze: ci si va appena possibile. La Liguria è invasa da Camogli a Sarzana ogni weekend da febbraio in poi (il Ponente non so, non frequento, ma immagino una situazione simile), i laghi anche, i cittadini hanno pure scoperto i fiumi, pur di lasciare i viali e i palazzi. Anche le città con vista sul mare sono invase: la spiaggetta di Boccadasse, a Genova, è diventata una specie di Ponte di Rialto per densità di instagrammatori, sembra una riproduzione dell’Italia in Miniatura, a vederla così piena. Anche gli odiatori dell’inverno, i fisici e le menti più evoluti per resistere a sudore e umidità, devono fare un passo indietro davanti all’estate semestrale. Non si può sopportare per centocinquanta giorni questa violenza costante. A Milano, gli alberelli dei piani di riforestazione urbana sono poco più alti di una persona, boccheggiano impotenti e smunti. Dove c’è il mare, l’acqua si scalda già a maggio come in una pozza poco profonda. Si guarda all’orizzonte con terrore, immaginando cieli color sabbia, scenari da Mad Max nei viali della circonvallazione, nuvole infuocate. Se non ci sono più le mezze stagioni, se la l’immaginario estivo è così mutato – altro che sahariane elegante da Finzi-Contini, semmai magliette iper traspiranti di multinazionali giapponesi, braghette corte, ahimè ciabatte – allora dovremmo trovare un altro nome a questa macro-stagione inevitabile, inespugnabile, in cui agonizzare. Estate ha un suono ancora troppo dolce, che ogni volta ci fa sperare possa andare meglio, possa tornare com’era stato. Non tornerà.

Davide Coppo

 

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La vita gratis…

 

I ricordi dormono accanto a noi. A volte è bello svegliarli e svegliarsi con loro. Si apre un mondo che credevi di non conoscere, invece ci vivevi dentro, e allora ti appariva naturale, come l’acqua che scorre e l’aria che respiri. La nostalgia non è una malattia ma un dono, la sua malinconia è un guscio che protegge un frutto gioioso.
Ci vorrebbe davvero una clinica dei ricordi, come scrive Georgi Gosdopinov nel suo romanzo Cronorifugio, dove la gente va a riprendersi i ricordi smarriti nel tempo o nella testa delle persone. Se dovessi scegliere il decennio preferito in cui rivivere, come succede ai popoli nel romanzo di Gosdopinov, sceglierei senza esitazioni il primo che vissi. Perché il più antico, il più lontano vissuto, il più diverso da oggi, avvolto nel mitico alone dell’infanzia quando non sai dove finisce la realtà e dove comincia la favola, tramite la fantasia. Risale a un’epoca primitiva, ancora senza tv ed elettrodomestici, usati da poco e da pochi pionieri. La chiave per aprire quel cassetto favoloso, oltre l’incanto della vita vista con gli occhi magici dell’infanzia – la scoperta primigenia delle cose, il fascino della prima volta di tutto, il piacere di scoprirsi al mondo e di conquistare ogni giorno un pezzo di vita e di conoscenza – è l’apriti sesamo di quel tempo magico, quel luogo, quel mondo che non c’è più: la vita gratis.
È la vita a portata di mano, all’aperto, senza prezzo e senza pretese, semplice e generosa, gratuita, dove tutto è accessibile a tutti: il ristoro delle fontane, il riposo delle panchine, il giardino pubblico, i frutti appesi agli alberi, i carrubi offerti dai rami ai viandanti, il ruscello in cui ti lavi e lavi i tuoi panni, i giochi fatti con ciò che hai a disposizione, senza arnesi, più la fantasia di un regola o di un oggetto che facilmente costruisci con le tue mani; e poi il mare libero, come i boschi e la campagna. Hai sete? Non vai al bar ma bevi alla fontana, e anche a casa non compri l’acqua minerale ma attingi dalle pompe e dai ruscelli. Le fontane d’estate erano ritrovi affollati, gente che beve, che riempie brocche, che si lava i piedi, dove ai bambini si dà fretta nei loro trastulli d’acqua per far bere gli adulti. Hai fame per uno spuntino? Stacchi un frutto dall’albero e lo mangi; finché è un frutto puoi anche staccarlo da un albero che appartiene a qualcuno, non lo stai saccheggiando, non è un peccato. Anzi, lo sarebbe il contrario, non dare da bere agli assetati e da mangiare agli affamati, come ci insegnavano. Vuoi riposarti? Non c’è bisogno di ordinare qualcosa a un tavolo, ti siedi alla panchina, come ancora fanno, soprattutto i vecchi al paese e aspetti, aspetti che passi il tempo, il caldo, la stanchezza. Da vecchi, il tempo è lungo e la vita è breve; il contrario dei giovani, a cui le ore corrono in fretta ma gli anni davanti sono tanti.
Vuoi farti un bagno? Niente stabilimento balneare, con lettini e ombrelloni, niente cabine, pedalò o gommoni, ma spiaggia libera con bagno libero, a volte senza costume o con le mutande di casa; e se hai caldo ti rituffi o trovi l’ombra di una grotta, la cavità di uno scoglio, o un albero vicino a riva. Tutto appare più semplice. E al mare corpi magri, non obesi né sottoposti a dieta, non rifatti, ritoccati, siliconati, palestrati, senza tatuaggi, creme, lampade, telefonini. Poi si passa la sera con lo struscio, il piacere è l’incontro, lo scambio di parole, la battuta. Basta poco per vivere. Gratis.
I bambini che giocano con niente tra strade e spiazzi, il massimo è rimediare un pallone. Il resto solo giochi di fantasia: la campana, i quattro angoli, nascondino, mago o libero, la piramide, il ciuccio, fiori e frutti, più mimica e indovinelli; giochi d’inventiva e abilità che non prevedono attrezzi.
Questa era la vita gratis, in uso soprattutto nella provincia, in particolare a sud, ma in fondo tutto il mondo è paese. E non era un secolo fa. Si poteva vivere senza soldi e senza limiti d’accesso, con poche pretese. Si campava d’aria, di terra, d’acqua, d’amicizia, espedienti e fantasia. Poi, è vero, c’erano i benestanti e i bisognosi, le proprietà private, i muri di recinzione, i privilegi, l’abbondanza e la penuria, le criature scalze; i mendicanti erano del posto.
La vita gratis era un mondo che sembrava fresco di creazione, appena sfornato da Madre Natura o dal Padreterno; ancora giovane, un po’ bambino, ingenuo nei suoi piccoli desideri, facili d’appagare.
Era bella la vita gratis, e lo dici con un sospiro, ma chissà se lo pensi davvero. Era una vita povera, ancora cruda, difficile nella sua facilità, aspra nella sua dolcezza; una vita che non riusciremmo più a vivere, perché abbiamo bisogno di troppe cose che prima non avevamo e perciò erano allora superflue; ma ora non sappiamo farne a meno. La nostalgia è dolceamara perché sai che quel mondo non può tornare e non ha senso affannarsi a restaurarlo. Tutta la sua poesia, la sua bellezza, è in quella irrimediabile lontananza; l’incanto di una perdita che non si recupera. Non si torna bambini, tuttavia è bello ritrovare lo spirito e lo stupore delle origini, pur sapendo che il tempo è passato ed è impossibile retrocedere. Ma il tempo, lo dice pure Gosdopinov, sembra rettilineo invece è circolare; alle curve rallenta, ci sono i tornanti. E la vita perfetta sa ricongiungere la fine all’inizio. In fondo, gratis vuol dire per grazia, e il proverbio antico aggiungeva et amore dei. La vita gratis, la grazia di essere al mondo…

 Marcello Veneziani

 Grazie a  Marcello Veneziani,scrittore, giornalista, filosofo, che seguo da tantissimi anni. Leggerla per me è , fin dalla prima volta, pane quotidiano, che nutre il mio spirito, la mia mente. I suoi scritti mi fanno una meravigliosa compagnia, grazie infinite per ogni sua parola, in cui spessissimo mi ritrovo,e sono felice che molte persone visitino questo mio blog, dove da tempo ho preso abitudine di condividere quanto di suo  mi piace avere a portata di rilettura.. Ancora grazie di cuore e tutta la mia stima. GSB

Elisewin e Adams…io e te.

Elisewin e Adams…io e te.

Leggo e rileggo. Ci sono autori verso i quali provo un ‘attrazione, una specie di innamoramento, che mi riporta a periodi sulle loro pagine. Alessandro Baricco è uno di questi, leggerlo è perdersi sempre in storie speciali i cui personaggi sono sempre persone particolari, magari eccentriche,ma mai banali , che la vita fa muovere su palcoscenici reali nel loro surreale, perchè il mondo è fatto di persone di ogni genere, tutte diverse tra loro eppure spesso accomunate da un caso che le porta a scoprirsi in incontri inimmaginati e inimmaginabili, ma quasi sempre salvifici.Ieri ho riletto per l’ennesima volta “Oceano mare” e mi sono persa ancora una volta in questo brano,dove la storia di Elisewin e Adam mi racconta la favola di una ragazzina e di un uomo più grande, che il destino ha legato per sessant’anni e che non riesco a dimenticare…

 

https://youtu.be/a-mLBHN7vFw CLICCA L’IMMAGINE

Nelle terre di Carewall, non smetterebbero mai di raccontare questa storia. Se solo la conoscessero. Non smetterebbero mai. Ognuno a modo suo, ma tutti continuerebbero a raccontare di quei due e di un’intera notte passata a restituirsi la vita, l’un l’altra, con le labbra e con le mani, una ragazzina che non ha visto nulla e un uomo che ha visto troppo, uno dentro l’altra – ogni palmo di pelle è un viaggio, di scoperta, di ritorno – nella bocca di Adams a sentire il sapore del mondo, sul seno di Elisewin a dimenticarlo – nel grembo di quella notte stravolta, nera burrasca, lapilli di schiuma nel buio, onde come cataste franate, rumore, sonore folate, furiose di suono e velocità, lanciate sul pelo del mare, nei nervi del mondo, oceano mare, colosso che gronda, stravolto – sospiri, sospiri nella gola di Elisewin – velluto che vola – sospiri ad ogni passo nuovo in quel mondo che valica monti mai visti e laghi di forme impensabili – sul ventre di Adams il peso bianco di quella ragazzina che dondola musiche mute – chi l’avrebbe mai detto che baciando gli occhi di un uomo si possa vedere così lontano – accarezzando le gambe di una ragazzina si possa correre così veloci e fuggire – fuggire da tutto – vedere lontano – venivano dai due più lontani estremi della vita, questo è stupefacente, da pensare che mai si sarebbero sfiorati, se non attraversando da capo a piedi l’universo, e invece nemmeno si erano dovuti cercare, questo è incredibile, e tutto il difficile era stato solo riconoscersi, riconoscersi, una cosa di un attimo, il primo sguardo e già lo sapevano, questo è il meraviglioso – questo continuerebbero a raccontare, per sempre, nelle terre di Carewall, perché nessuno possa dimenticare che non si è mai lontani abbastanza per trovarsi, mai – lontani abbastanza – per trovarsi – lo erano quei due, lontani, più di chiunque altro e adesso – grida la voce di Elisewin, per i fiumi di storie che forzano la sua anima, e piange Adams, sentendole scivolare via, quelle storie, alla fine, finalmente, finite – forse il mondo è una ferita e qualcuno la sta ricucendo in quei due corpi che si mescolano – e nemmeno è amore, questo è stupefacente, ma è mani, e pelle, labbra, stupore, sesso, sapore – tristezza, forse – perfino tristezza – desiderio – quando lo racconteranno non diranno la parola amore – mille parole diranno, taceranno amore – tace tutto, intorno, quando d’improvviso Elisewin sente la schiena spezzarsi e la mente sbiancare, stringe quell’uomo dentro, gli afferra le mani e pensa: morirò. Sente la schiena spezzarsi e la mente sbiancare, stringe quell’uomo dentro, gli afferra le mani e, vedi, non morirà.

Alessandro Baricco, (da) “Oceano Mare”, 1993.