Una notte d’estate e la poesia di Antonio Machado.

Notte d’estate (Noche de Verano) di Antonio Machado è una poesia che mette in scena la solitudine e il vuoto del poeta proiettati sul paesaggio di un vecchio villaggio durante una notte estiva.

Notte d’estate
È una bella notte d’estate
Tengono le alte case
aperti i balconi
del vecchio paese sulla vasta piazza
Nell’ampio rettangolo deserto,
panchine di pietra, evonimi ed acacie
simmetrici disegnano
le nere ombre sulla bianca arena.
Allo zenit la luna, e sulla torre
la sfera dell’orologio illuminata.
Io in questo vecchio paese a passeggiare
solo come un fantasma.

Noche de verano, (testo originale)

Es una hermosa noche de verano.
Tienen las altas casas
abiertos los balcones
del viejo pueblo a la anchurosa plaza.
En el amplio rectángulo desierto,
bancos de piedra, evónimos y acacias
simétricos dibujan
sus negras sombras en la arena blanca.
En el cenit, la luna, y en la torre,
la esfera del reloj iluminada.
Yo en este viejo pueblo paseando
solo, como un fantasma.

Antonio Machado

Il caldo di una notte d’estate, i climatizzatori che non facevano ancora sentire il loro rumore notturno, i balconi delle case ai piani alti, per far entrare la frescura della notte.
Tutto questo creava comunità, appartenenza, identità collettiva .Questo paesaggio risveglia il senso di solitudine di chi lo vive , come Antonio Machado,espressione di un malessere esistenziale per una perdita recente , oppure ,chi lo ricorda può ritrovarvi luoghi antichi, sommessi momenti di piacevole solitudine in periodi giovanili, quando le notti semplici e silenziose facevano da sfondo a sogni e desideri. Chi non ha avuto momenti come questi, che ripensati ad anni di distanza non ci vedano ,come il fantasma di Machado, aggirarsi tra tutto quello che non c’è più ed è stato , per noi, tantissimo? E l’orologio della torre ci  fa scorrere ,proprio  davanti agli occhi, il film della vita che scorre e di quello che è stata la nostra esistenza.

borgo estivo

Gli scrittori odierni che da bambini si permettevano di rifiutare le verdure..

Il misconoscimento letterario di Susanna Agnelli è una forma di classismo al contrario. Oltre che il modo per perdersi un grande esempio di stoicismo moderno. Altro che quelli di oggi.

susanna

“Appartengono alla letteratura tutti i libri che si possono leggere due volte” ha decretato Gómez Dávila, e dunque “Vestivamo alla marinara” di Susanna Agnelli è letteratura. L’ho letto nell’altro secolo, l’ho riletto ora con nuovo piacere e nuovo profitto. Il misconoscimento letterario di Susanna Agnelli è una forma di classismo al contrario. Oltre che il modo per perdersi un grande esempio di stoicismo moderno (stoicismo di lusso ma pur sempre stoicismo). Infermiera ovviamente volontaria abbracciava le tubercolotiche morenti che le colleghe schifavano, guidava ambulanze sotto i bombardamenti, attraversava il Mediterraneo su navi ospedale spesso silurate dagli angloamericani (in barba alla Convenzione di Ginevra), sfidava le pallottole dei cecchini fascisti, a Firenze, per recuperare il corpo di una donna colpita malgrado l’evidente gravidanza… Senza mai una lamentela, puro dovere e puro stile fin nella scrittura asciutta, perfetta, senza un grammo di grasso e di compiacimento. Anche un grande esempio di educazione (a Torino, da piccola): “Se uno non finiva tutto quello che aveva nel piatto se lo ritrovava davanti al pasto seguente”. Dopo Susanna Agnelli come faccio a leggere gli scrittori odierni, senza vita e senza stile, che da bambini, è chiaro, si permettevano di rifiutare le verdure?

Camillo Langone  __da il FOGLIO             

Marchesi tra il futile e il dilettevole…

Marcello Marchesi è l’anello di congiunzione tra la letteratura e lo spettacolo, tra satira e comicità tramite l’umorismo. Marchesi è il ponte tra Flaiano e Totò, tra Achille Campanile e Walter Chiari, tra Leo Longanesi e Paolo Villaggio. Dopo decenni di silenzio dalla sua morte, nel 1978, ora riaffiora perché sono stati ripubblicati due suoi libri da La Nave di Teseo: la raccolta di boutade Il dottor Divago e il romanzo Il Malloppo. 

A vederlo vestito in bianco e nero, coi baffi e gli occhiali neri, come Flaiano, più l’ombrello e il cappello, sembrava uno di quei borghesi di Magritte, con bombetta, cravatta e abito scuro, piovuti dal cielo. Marchesi era un logo vivente della tv in bianco e nero, incompatibile con la tv a colori; difatti se ne andò all’altro mondo con l’avvento del colore. Me lo ricordo da bambino questo signore di mezza età che mi sembrava fuori posto in tv, troppo serio per essere comico, troppo scanzonato per essere serio. Autore di cinema, famoso soprattutto per i film di Totò, autore in tv di memorabili programmi, autore di tanti indimenticabili motti di Carosello, scopritore di talenti. E autore di testi, di libri che raccolgono i suoi calembour, i suoi giochi di parole, i suoi versi surreali. Si definì futile e spiegò la parola in senso figurato: “Mi fa venire in mente un fucile che spara a borotalco. A pensarci bene, un fucile così non ammazza nessuno e fa sorridere. Sì, sì, sono futile”. Ma dilettevole.  Veniva dal Bertoldo, risposta milanese al romano Marc’Aurelio, con Giovanni Mosca e Cesare Zavattini, Giovannino Guareschi e Vittorio Metz, suo amico e coautore di una vita; vi scrivevano pure Campanile, Longanesi, Maccari, Carletto Manzoni e il giovane Federico Fellini. Collaborò a lungo con la Rai sin da quando si chiamava Eiar. Fu il primo “copyrighter italiano” e le sue trovate, i suoi detti, ebbero successo anche da morto, a molti anni di distanza: pensate al titolo del best-seller di Gino e Michele, Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano: era suo. Coniò slogan virali per la pubblicità ma sotto sotto era un moralista contro il consumismo: si pentì di aver venduto il cervello alla pubblicità e di essere diventato “stratega del desiderio, colonizzatore di anime, uomo al neon”. Per lui il consumismo era una religione a rovescio fondata sullo spreco e sul superfluo, l’avidità e i desideri insaziabili: “diventeremo tutti Buttisti/seguaci del dio Butta/divinità dello spreco/Motto di chi l’adora/Butta via e compra ancora”. Per dirla in breve, rovesciava un noto proverbio: “La pubblicità è il commercio dell’anima”. Come Penelope, Marchesi disfaceva di notte la tela della pubblicità che tesseva di giorno. Ridendo “castigat mores”, quei costumi che lui stesso aveva invogliato a imitare coi suoi caroselli. Amava il non-sense sin dalla nascita: “quando nacqui in casa c’era solo mio padre. Mia madre era uscita”. Andò in tv perché “era l’unico modo per non vederla”. Dedicò il suo Diario futile a tutte le lettere dell’alfabeto, rendendo divertente la consueta formula di rito “Senza di loro non avrei mai potuto scrivere questo diario”.  Si definì attraverso sei aggettivi preceduti dal più: l’uomo più allegro, più malinconico, più funereo, più bugiardo, più aperto, più provvisorio. E malinconico fu sul serio, come Flaiano e Longanesi. Abissale è la mestizia di alcuni suoi versi, come questi: “quando penso che non m’innamorerò, ormai più/che non soffrirò, ormai, più per amore/ mi sento un morto a cui batte il cuore”.  Scrisse, a suo modo, il necrologio più onesto del fascismo: “Il fascismo: l’Italia del periodo Paleopolitico. Il periodo in cui eravamo tutti fidenti, fidentissimi e c’era uno più fidente di tutti. Il fascismo sembrava il sogno di un popolo povero che faceva tenerezza anche agli americani. Ohè! La traversata atlantica! Vuoi vedere che l’ingenuità è la strada giusta? Vogliono l’imperetto, birichini. Alè, diamogli lo scappellotto delle sanzioni. Poi arrivò il compagno cattivo e tutto si guastò irrimediabilmente”.Sono celebri e folgoranti le sue definizioni che giocano sui luoghi comuni e il suo dizionario delle celebrità; ma sono più significative le sue osservazioni da u-moralista, ossia moralista umorista e umorale. Per apprezzare Marchesi bisogna tuttavia avere un retroterra colto o almeno liceale, conoscere un po’ di storia, di latino e di cultura generale.Irriverente verso tutti: quel devoto ipocrita che assisteva tutte le domeniche alle “Sacre Finzioni”; quel poeta, la cui figura “naneggia in tutta la sua pochezza nel panorama della poesia contemporanea”. O quella volta che disse di aver sfregiato una tela d’arte informale alla galleria d’arte moderna:“con quel taglio il suo valore è salito di un milione”. Criticò il progresso: “Bella la vita di adesso. Si vive più a lungo, si muore più spesso”. Poi la sua tenera poesia a “l’unico amico” (Vittorio Metz) “Vieni a trovarmi finché son vivo… scambiamoci un sacco d’idee sbagliate/invecchiamo un’ora insieme”. Quando era demoralizzato si sentiva “un brufolo devitalizzato”. Tendeva a dimenticare i torti subiti ma non per generosità, confessò, ma perché non gli andava di soffrire. Anche la sua vita finì in modo assurdo, tragicamente buffo, a 66 anni: fu nel mare in Sardegna per un’audace capriola nell’acqua. E dire che pochi anni prima in Essere o benessere aveva scritto della strana sorte di un supertimido: “Affogò perché si vergognava a gridare aiuto”. Disse di sé: “Sono un mediocre pieno di genialità, sono un genio che non ce la fa”. Ad avercene di mediocri come lui.

Marcello Veneziani,

 

C’era una volta Marcello, il latin lover…

 

Marcello, ah Marcello. A cent’anni dalla sua nascita, a ventotto dalla sua morte, Marcello Mastroianni resta nell’immaginario collettivo, e nei suoi luoghi comuni, la rappresentazione verace dell’italiano: belloccio, serioso, loquace, latin lover e sex symbol, dalla voce un po’ nasale, inconfondibile ma senza tratti particolari. Tutti i grandi attori della commedia all’italiana erano in fondo comici, “ridicoli”, avevano perlomeno un lato caricaturale e grottesco che li rendeva beniamini del pubblico: Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Monica Vitti, Ugo Tognazzi, Walter Chiari, fino a Giancarlo Giannini e Paolo Villaggio, per non dire della generazione precedente, quella di Totò, Vittorio de Sica, Peppino de Filippo e Aldo Fabrizi.  Mastroianni, invece, era l’unico tra i più famosi che non voleva far ridere, attor brillante ma non comico, la sua figura non straripava mai dal ruolo assegnato nel film. Mastroianni restava dentro il racconto e la sua parte. Il tono della sua voce era duttile, si adattava all’allegro andante della commedia ma sapeva inoltrarsi anche nella voce trasognata e misteriosa di alcuni film felliniani, onirici e malinconici; e nei ruoli tragici di alcuni film, come Todo Modo o Fantasma d’amore. La sua versione femminile a cui era solitamente accoppiato nella saga cinematografica era Sophia Loren. Erano la Coppia primordiale del cinema italiano, l’Adamo ed Eva della nostra identità. Coppia brillante ma non sempre usata in ruoli brillanti; si pensi a Una giornata particolare di Ettore Scola. Però, a differenza della Loren, che quest’anno compie novant’anni, Mastroianni non ebbe mai l’Oscar, anche se ci andò più volte vicino. Mastroianni era l’attore italiano per antonomasia; attor simbolo, o come oggi si dice, “iconico”; per questa sua trattenuta vocazione alla commedia brillante e arciitaliana fu poi utilizzato anche in film più seri e meno caserecci come Sostiene Pereira, Oci Ciornie o il pirandelliano Le due vite di Mattia Pascal. E recitò molto anche all’estero. Anche nella commedia italiana Mastroianni fu attore nazionale, nel senso che non fu solo romanesco o laziale; fu pure siculo, napoletano o genericamente provinciale. Anche per questo Mastroianni appariva come l’idealtipo dell’attore, senza particolari virtù e virtuosismi, come invece il prodigioso Sordi o il mattatore Gassman. Fu l’attore felliniano per eccellenza, ma non si identificò nel cinema felliniano, fu anche altro. E non si identificò nemmeno nel ruolo dell’amatore e del seduttore, perché interpretò pure il suo contrario, come nel Bell’Antonio di Vitaliano Brancati, che diventò in quegli anni il paradigma dell’impotente. O come l’omosessuale di Una giornata particolare. Da ragazzo fui perseguitato da quel “Marcello come here” che Anita Ekberg nell’iconico bagno nella fontana di Trevi rivolgeva a Marcello Mastroianni ne La dolce vita, invitandolo a entrare nella mitica vasca berniniana. Quel grido fu per me un’iniziazione alla vita adulta, dopo che negli anni dell’infanzia ero stato Marcellino pane e vino, il protagonista di un’altra famosa saga cattolica e puerile. Poi diventò un tormentone un po’ molesto. Mastroianni rappresentò l’autobiografia della nazione soprattutto perché ne La dolce vita, sbarcava da provinciale in cerca di fortuna nella Roma godereccia e un poco malinconica del boom economico. E in quella storia di provinciale sbarcato a Roma si riconosceva l’autore che aveva scritto il film, il pescarese Ennio Flaiano; il regista che lo aveva realizzato, il riminese Federico Fellini; e pure il protagonista omonimo, il ciociaro Marcello Mastroianni. Tre provinciali alla conquista della Capitale. Ma in quel viaggio dalla provincia alla metropoli si riconosceva una fetta numerosa di italiani, soprattutto centro-meridionali, sbarcati nella Roma impiegatizia dei ministeri o in quella sognatrice di Cinecittà. A differenza degli altri grandi attori italiani, Mastroianni ha avuto la possibilità di realizzare alla fine della sua vita, un film-congedo, curato dalla sua ultima compagna, Annamaria Tatò, Mi ricordo, si io mi ricordo.   Mastroianni non rappresentò mai il cinema impegnato e ideologicamente schierato, ma non si sottrasse ad alcuni ruoli obbligati dallo spirito politico del tempo. Fa impressione vederlo schierato, con tutti i grandi registi e attori del cinema italiano nel picchetto d’onore alla morte di Enrico Berlinguer nel 1984. C’era quasi tutto il plotone del cinema italiano, dei grandi registi mancava solo Luchino Visconti, morto qualche anno prima ma comunista aristocratico e decadentista; non mancava nemmeno Federico Fellini che pure non era mai stato vicino al Pci e alla sinistra militante; e questo la dice lunga sull’egemonia culturale nel cinema italiano e sul potere di intimidazione o di pressione che esercitava, con relativo invito a conformarsi. Non si poteva mancare, e Mastroianni naturalmente non mancò . Mastroianni aveva compiuto studi modesti e nessuna accademia, in guerra si era arrangiato e l’aveva scampata, si tenne fuori dalla vita pubblica e dall’impegno civile. Ebbe famosi amori e una notorietà internazionale maggiore rispetto agli altri protagonisti della commedia all’italiana, magari più adorati in patria, ma meno esportabili all’estero. Nonostante la fama di essere pigro e in fondo riluttante, Mastroianni fu attore prolifico, duttile e non andò mai controcorrente. Morì a Parigi dove ormai viveva da anni ma la sua faccia restò il volto più famoso di quell’Italia della nostra infanzia, della nostra giovinezza, e comunque quella da cui proveniamo.

Marcello Veneziani                                                                                                               

Una donna d’antan…

 

Sono all’antica, fatta di cose piccole, che oggi non si percepiscono più. Amo ancora la galanteria del baciamano, il corteggiamento, che mi si apra la portiera della macchina e mi si aiuti a scendere. Mi perdo nelle poesie, mi stupisco per un mazzo di fiori, mi emoziono per un” scendi, sono sotto casa tua”. La mia anima si perde nel romanticismo, il mio cuore batte forte per un abbraccio, i miei occhi si scaldano sotto una coperta. Non mi piace scappare dalle cose, risolvere con un messaggio, o una telefonata frettolosa, preferisco parlare a quattr’occhi e adoro le telefonate notturne per parlare d’amore. Scelgo sempre di arrivare in fretta , qualunque sia la situazione, che andarci troppo piano. Mi piace il rumore del sole alle sei di mattino, quando nell’alba tutto tace, amo metterci il cuore quando faccio l’amore, amo ancora il rispetto e il pudore di me e dei sentimenti. Amo la fedeltà, odio la gelosia ,mentre il mio agire è indubbia fiducia reciproca. Amo l’amicizia che gioca a carte mentre si parla di vita, due occhi che mi guardano come fossi l’unica cosa al mondo. La mia anima è fatta di cose antiche, di vecchie biciclette in giro per antichi borghi, di passeggiate mano nella mano, di notti illuminate da candele. Amo le sorprese, imparare le cose che non conosco, mi piacciono i baci inaspettati , i morsi sulle labbra, amo le cose folli, piccole pazzie, perchè  la normalità mi spegne dentro…

fiore viola

Fra me e me…

 

 Una canzone può portarti indietro di mesi o anni in soli tre minuti; credo che certe fotografie oltre a fermare il tempo, siano in grado di fermare anche il mondo intorno quando le riprendi in mano, anche sbiadite e ingiallite; ho l’impressione che ,ritrovarmi tra le pagine di un libro, mi faccia pensare di non essere l’unica a provare certe cose. Credo che l’amore di una sola persona conti più del disprezzo di centomila ,come nelle seconde possibilità per un mondo migliore. Rimanere in silenzio con chi ami senza provare imbarazzo è una delle sensazioni più belle che si possano provare ,poichè si tacciono spesso troppe cose per imbarazzo. Mi piace sorridere per compiacimento , rido di rado, ma quando mi capita è sempre una di quelle risate così forti da farti arrivare a piangere di gioia- Sono certa che innamorarsi al punto di esserlo ancora, nonostante la morte, sia talmente grandioso  da convincermi che insieme siamo stati qualcosa di meraviglioso e che la cosa più bella è che ci abbiamo creduto tutti e due.. così il tuo ricordo è il tuo abbraccio nascosto in ogni mio respiro.

insieme

Il diario…

 

Fin da piccola, dalle prime emozioni percepite come tali, ho sentito il bisogno che  non andassero perdute, mi piaceva conservare per il giorno dopo i fiorellini raccolti, oppure qualche pietruzza colorata.  Da che imparai a parlare con me stessa usando la penna, da che ho memoria, avevo sempre un quaderno, un’agenda con me. Iniziai senza avere un ordine cronologico, appoggiavo dei pensieri su spazi vuoti, a volte morivano là senza tante cerimonie, a volte i pensieri si arricchivano di ghirigori, di foglie, fiori, intrecci di volute e segni di matita, che prendevano forma attraverso sforzi di fantasia, a volte li trasformavo in piccole storie. Crescendo i quaderni furono agende e l’agenda divenne una specie di ordine temporale per quei pensieri arruffati di vento, di pioggia e di sole.  Poi le agende divennero panciute, inglobarono piccoli fogli, scontrini da conservare, ricordi sotto forma di biglietti da visita e ancora pensieri cerchiati, orari posticipati, frecce nervose tracciate su appuntamenti pesanti. Brani di testi, che mi avevano colpito, che sentivo miei e non volevo andassero perduti ,diventarono presto lo scheletro di questi miei pensieri indimenticabili, che alternavo con emozioni  particolari da appuntare per capirne i motivi e confrontarle. Andò avanti tanti anni e ancora oggi ho un’agenda con me, la sfoglio nelle sale d’attesa, nei momenti sospesi, nel tempo che aspetta di riempirsi d’altro. Dentro biglietti di cinema, ricette, lista di cose da fare, da comprare, da ricordare. Fogli piegati come segnalibri per ricordare qualcosa. A volte ci trovo in mezzo una penna dimenticata, a volte delle persone. E’ il fardello della mia vita, che mi porto appresso, un compagno piacevole nei momenti vuoti, fuori casa, quando non uso il PC per aiutare le mani stanche, anchilosate, che faticano a scrivere a mano, ma  che, ancora devono annotare pensieri, brani, ed emozioni  qui.

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Oggi la pioggia, una banana e la musica…

 

Oggi piove, come non pioveva da tanto. La pioggia tranquilla, pulita, regolare, direi una pioggia d’altri tempi, quella che ogni goccia smuove il terreno, scende un millimetro dopo l’altro nella terra appena inumidita dalle notti invernali, ristoro per terreni assetati, ristoro per i miei occhi, che da sempre amano queste giornate. Quando le gambe non avevano il peso degli anni erano questi i giorni in cui il tempo passava macinando chilometri, passo dopo passo sulle stradine di campagna, osservando la natura rinascere, nel silenzio appeno interrotto dal canto della pioggia. Ma oggi ho camminato il solito passeggio in giardino,e ho cercato di respirare pioggia a pieno cuore, e poi.. é lunga una giornata,e allora mi è venuta voglia di ascoltare qualche vecchio disco. Mentre cerco, spolvero i molti dischi in vinile, che non hanno regolarmente la mia attenzione. Mi capita in mano una copertina bianca, al centro una banana matura, un disco del 1967, l’esordio rock sperimentale dei Velvet Undergoud, come era chiamato allora questo genere musicale , al mio orecchio un rock gradevole, non aggressivo. Ed ecco accavallarsi ricordo su ricordo. L’occhio corre subito alla firma di Andy Warhol ,che pilotò allora la corsa all’ acquisto del long-play, forse più che per la musica, per la copertina dell’album . Con pochi soldi bella musica e l’illusione di possedere un’ opera di una celebrità dell’epoca.. questa banana firmata Andy Warhol, il pittore newyorkese famoso per le sue feste strampalate e per i famosissimi ritratti di celebrità .Che meraviglia i dischi in vinile di un tempo, riproduzioni perfette.. è vero, bastava un graffietto provocato dallo strisciare accidentale del pickup per bloccare la riproduzione sulla stessa nota, eppure , anche strisciati mi piace ancora risentirli a distanza di tanto tempo… persino la musica di allora pare suonare diversa, mi riporta agli occhi della mente ragazze coi capelli cotonati, giovani in abiti attillati, pantaloni a zampa d’elefante, le zeppe altissime.. fine anni sessanta ,era bella la vita. Si, davvero bella e felice la mia gioventù, quando tutto era perfetto, senza sbavature e il tempo sembrava dovesse passare solo per gli altri…la vita , poi , è tutta un’altra storia.

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                                                  http://youtu.be/0cWzxJvgWc8

Ieri commemorazione speciale,ma…A che serve la Rai.

 

La televisione compie oggi settant’anni ma nel celebrare il suo compleanno si omettono due dettagli storici non da poco. Il primo è che l’anniversario più importante di quest’anno, almeno come data, non è il settantennale della tv ma il centenario della radio, da cui nacque la Rai. La radio è la madre della tv, è l’incipit delle trasmissioni nell’etere. Il battesimo ufficiale della radio fu il 6 ottobre del 1924, in epoca fascista, l’emittente fu l’unione radiofonica italiana che poi assunse il nome famoso dell’Eiar. Che fu, si, altoparlante del regime fascista e della sua propaganda ma fu anche mezzo formidabile di informazione, istruzione e modernizzazione di massa. Arrivò perfino nelle campagne, fu il primo massiccio tentativo di includere i contadini nell’informazione, il loro passaggio dalla natura alla cronaca, dal tempo meteo al tempo storico.  Il secondo dettaglio trascurato dai tele-celebratori è che il 3 gennaio del 1954, andarono in onda i segnali e gli annunci ufficiali della Rai-tv ma le prime trasmissioni televisive risalgono in realtà al 1939, dopo un decennio di esperimenti. La Tv nacque in seno all’Eiar, sotto il regime fascista. Se non ci fosse stata la guerra, la tv si sarebbe diffusa un decennio prima, magari con l’esposizione universale del 1942 e avrebbe presumibilmente seguito nel tono e nell’ispirazione il modello di nazionalizzazione e mobilitazione delle masse che aveva assunto la sua sorella maggiore, la radio, nata e cresciuta sotto il regime fascista. Ma non solo: a inaugurare la televisione, nel 1939, non fu un ministro della cultura, dell’educazione o della pubblica istruzione, un Bottai, un Gentile o un Biggini, ma addirittura Achille Starace, il segretario del Partito nazionale fascista. Proprio lui, l’inventore delle veline, ma in un senso assai diverso da quello televisivo recente, famoso per i suoi ginnici salti nel cerchio di fuoco e per la devozione cieca e assoluta nei confronti del Duce, fino alla morte. Fu lui che compì il primo salto nel quadrato magico della scatola luminosa e tenne a battesimo il mezzo televisivo alle soglie del conflitto mondiale. Fu pure allestita una sala a Villa Torlonia, residenza del duce e della sua famiglia, per  seguire i primi programmi sperimentali. Mussolini vedeva la tv prima che apparisse Mike Bongiorno. Le cose non nascono mai dal nulla, ma sono figlie di altre situazioni e di altri contesti.

Ristabilita la verità storica, di solito omessa per ridicoli motivi di omertà storica e ottusa partigianeria, poniamoci la domanda per eccellenza: qual è il bilancio complessivo che si può fare della televisione, ovvero qual è il segno dell’influenza che ha esercitato sugli italiani, come singoli e come popolo, e sulle istituzioni? Si potrebbe dire che la storia della televisione sia divisa in due parti, che in linea di massima coincidono con le due metà del suo secolo di vita: nella prima parte la radio-televisione è stata soprattutto un mezzo di promozione popolare e di elevazione di massa, nella seconda parte è stata soprattutto un mezzo di peggioramento e involgarimento dei gusti di massa e dei modelli di vita. Da mezzo evolutivo a industria per il peggioramento della specie… Il punto di svolta coincise con due fattori emersi negli anni settanta: da una parte l’avvento della tv commerciale e dunque della concorrenza, che pure di solito migliora i prodotti ma nel caso della tv ha prodotto una gara al ribasso della qualità e della mission; dall’altra parte la tv controllata dal potere politico si fa lottizzazione, e questo da un verso garantisce un maggior pluralismo dell’informazione ma dall’altro abbassa il livello della televisione all’interesse dei partiti e della loro propaganda, dei loro impresari e dei loro emissari. La gara della quantità ha ucciso la qualità, la gara dei consumi si è abbattuta sui costumi.  Si può davvero sostenere che per cinquant’anni almeno la tv ha, si, uniformato gusti, conformato stili di vita, banalizzato saperi, ma ha alfabetizzato il paese in modo capillare e massiccio, ha unificato davvero l’Italia, ha consentito il passaggio alla lingua italiana di larghe aree del sapere, ha dato istruzione primaria più della scuola, ha intrattenuto, divertito, avvicinato la gente alla cultura e ai fatti del giorno. E dunque la sua impronta può dirsi complessivamente positiva.  Ma dalla fine degli anni settanta, la tv ha cominciato a invertire il suo ruolo, la propaganda e la promozione pubblicitaria hanno prevalso sulla tv che informa, traduce la cultura in visione popolare e fa crescere il livello del paese. L’imperativo degli ascolti, dello share e dell’audience, ha ulteriormente abbassato la soglia della qualità e il senso della sua missione. Detto questo, non si vuol concludere alla Pasolini che la tv vada abolita o spenta; resta una struttura primaria per un paese, uno spazio pubblico, una piazza essenziale di confronto, connessione e integrazione. Ed esercita una funzione comunque utile, se non insostituibile, anche nell’equilibrio delle fonti d’informazione, tra media, social, carta stampata. L’abbrutimento avviene quando la tv diventa il solo mezzo d’informazione e di intrattenimento, la sola finestra sul mondo, e sostituisce la lettura, l’incontro di persona e altre forme di in/formazione. Bisogna saperla dosare, e usare spirito critico. Il suo limite rispetto a internet è noto: non è interattiva, l’utente è spettatore e non attore. Ma la tv, soprattutto se è pubblica, ha il dovere di aiutare un paese e un popolo a crescere sul piano civile e culturale. Chi sostiene che la tv non debba coltivare propositi educativi o comunitari perché altrimenti diventa una tv etica e pedagogica, sottilmente autoritaria e prescrittiva, non si rende conto che senza un progetto educativo e comunitario, gli utenti e soprattutto i minori non vengono lasciati liberi ma in balia di altre agenzie diseducative. Peraltro ognuno è libero di fare zapping nel vasto arcipelago delle offerte televisive. Se la gara è solo tra chi fa più ascolti coi giochini, il trash, le tele-risse denominate talk show, si ritiri lo Stato e si lascino in campo i privati. Ne guadagnerebbero la dignità, l’intelligenza e il mercato. Alla Rai spetta il compito di sfatare il pregiudizio che culturale e popolare, formativo e ricreativo, siano incompatibili. Ma quel pregiudizio si è insediato da decenni nella testa della signora che oggi compie settant’anni, e sua madre cento.

Marcello Veneziani

Quando si dice “ti amo” ad un’ombra.

 

Ti amo
come una frase inutile
che scappa fuori
maldestra
e fa un’aria nuova
aria di mani
intorno alla vita
aria di ballo.
Ti presento alla notte
come un custode assoluto
una promessa grandiosa
che colma ogni buco
ogni fessura tutta la perdita.
Ti porto con me
in questo tempo spinato
e le ore pulsano
come vene che scombinano
il senno del tempo
e fanno subito,
in piena notte,
incontro,
mani
che stringono mani
una festa
di pomodori sulla tavola.

Chandra Candiani

 

donna allo specchio