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Sara
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Esistono persone al mondo, poche per fortuna, che credono di poter barattare una intera Via Crucis con una semplice stretta di mano, o una visita ad un museo, e che si approfittano della vostra confusione per passare un colpo di spugna su un milione di frasi, e miliardi di parole d'amore...
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The show must go on
Post n°139 pubblicato il 28 Novembre 2007 da erbavoglio_70
Esistono ancora cose che non si possono fare né con un mouse né barando. Una di queste è danzare. Allontanate dalla vostra mente il pensiero della meringa che abita al terzo piano. Lei è una bimba grassa e viziata trascinata dalla mamma ogni martedì e giovedì in una sedicente scuola di danza. Essere ballerine è un'altra cosa. Ovviamente ci vuole dedizione, sacrificio, talento e bla blà. Ma occorre anche una sana vena di follia. E me ne sono ricordata qualche sera fa, assistendo al Teatro Piccini alla rappresentazione di Giselle. Ammetto di essere tornata bambina, di aver invidiato ogni singola ballerina del corpo di ballo, di aver pensato con convinzione “sarò ballerina”. In pratica in un lampo la sensazione Flashdance ha stravolto la mia vita per la seconda volta. E così il proposito di scrivere una recensione è sfumato: ero troppo coinvolta emotivamente. La storia di Giselle si può riassumere grossolanamente come segue: una bella contadinella si innamora di un giovane, scopre che il baldo esemplare maschile è in realtà un nobile in odore di nozze e muore per il dolore (primo atto); la sua anima è accolta dalle Villi che vorrebbero punire il fedifrago, ma lei lo accompagna attraverso una notte di amore verso la salvezza (secondo atto). Profonda è la spaccatura tra i due atti: nelle vesti della contadinella Giselle sorride in un modo quasi idiota, irritante. Quel sorriso è trasfigurato dalla follia che la conduce alla morte, prima che voi possiate andare al bar a ristorarvi. E un brivido vi correrà lungo la schiena: cosa accadrà dopo? Non nego che, pur non essendo stata una fan della Fracci, la sua interpretazione resta ineguagliabile: lei si spettinava in modo scomposto, era drammaticamente pazza. La danzatrice della compagnia di Mosca La classique (ho perso il programma e non ne ricordo il nome) serbava però una sorpresa: messo da parte “il lavoro quotidiano della ballerina gelida e folle, rapita in un sorriso meccanico” di cui parlava Baudelaire, nel secondo atto si è trasformata in un essere impalpabile, etereo, ma comunque, se possibile, passionale. La tecnica eccellente le consentiva di eseguire perfettamente, senza sforzo apparente, i passi di repertorio, concedendo allo spettatore il privilegio di perdersi nella disperata irrevocabilità della sua situazione di fanciulla morta prematuramente e perdutamente innamorata. I suoi occhi non cercavano più consensi, né della platea né del suo amato. Danzava come se non dovesse badare alla sequenza dei passi, come se lei davvero fosse una Villi, tradita, ma non pentita di essere morta per avere amato troppo. Inevitabilmente ho pensato a tutte le volte che da bambina raggiungeva la scuola di danza, con gli occhi bramosi di apprendere, ai pianti dopo la prima audizione fallita, agli sforzi per sorridere mentre l'arabesque, apparentemente perfetto, le costava fatica e tremore. Tutto questo in scena non c'era: riempiva il palco il suo corpo, usato come docile strumento di espressione, al di là della storia, della musica e del tempo. Al di là della sua stessa vita. Era perfetta: in fondo persa dentro i cazzi suoi. Nota a latere: è recentemente scomparso Maurice Béjart. Cercate su You Tube i segni del suo genio, immaginate di essere a teatro. Dimenticherete definitivamente Amici di Maria De Filippi.
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Erba
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