Lui si reca nei luoghi dell'orrore, tra cumuli di scarpe. Dannazione, Hanna, perché non hai aperto quelle porte?
Lei è impietrita. Esiste una dichiarazione firmata da tutte le imputate: anche lei non ha aperto le porte. Semplicemente perché non era lecito, non poteva lasciarle fuggire: sarebbe stato il caos. Lui è distrutto: lei ha scelto. Il giudice le chiede di scrivere qualcosa, per appurare chi sia l'autrice della dichiarazione. Scriva.
No, non occorre: l'ho scritta io. (Lo dice con tale convinzione da sembrare sincera.)
Gli è tutto chiaro. Si alza impetuosamente dal suo scranno. Lei lo vede. (Ne sono certa.)
Il dubbio lo assale: che fare? Ha una informazione a favore di una imputata ostinata a mantenere un segreto. Per vergogna. Come può essere? Esiste qualcosa di più vergognoso di un omicidio? (Anzi di trecento?) Sì. Cosa ne sanno gli altri?
Hanna, ci sono visite! Lei, dignitosamente rinchiusa in una cella, ha un sussulto. Non può essere altri che lui. Accetta. Non rifiuta. Cosa spera? Beh, è comprensibile che voglia rivederlo: è sola, è fragile, in fondo, anche lei. Desidera forse la sua approvazione? Lo ama? Lo aveva amato? Spera intimamente che lui, senza porle domande, senza usare frasi di circostanza, le legga qualcosa? (Sono ancora carina?)
E lui? Durante la prima visione, in lacrime, l'ho definito bastardo mentre girava i tacchi, ma forse sbagliavo. Chissà, potrebbe non aver voluto umiliarla, lasciandole credere di non aver scoperto il suo segreto. Certo è che vederla camminare per tornare in cella, dopo aver atteso invano, è stato commovente. Appare un vuoto involucro, sembra delusa. Temo anche che lei in quei momenti sia travolta dalla certezza che il loro fosse stato Amore.
Lui va da colei che presto diventerà sua moglie. Ha la consapevolezza che, non andando da Hanna, non la vedrà mai più. Ricorda, mentre fa l'amore, il corpo di Hanna, l'unico del quale riconosceva l'odore, l'unico sul quale per tutta la vita avrebbe mai goduto veramente. La sua testa fa l'amore con lei. Il corpo, talvolta, cerca di sopravvivere.
Dorme da solo, dopo. Lei si sveglia-lava-veste, poi arriva in tribunale, con più dignità di chiunque dei presenti. Troia nazista. Ha paura, è colpevole. Lui piange. Non è un romanzo. Non c'è lieto fine. Lo guarda e sembra voglia dire “Grazie. Dobbiamo gioire: il segreto è al sicuro.” Ma come! È finita.
1976: del suo matrimonio resta una figlia bellissima.
Trasloca. Scatole piene di libri lo circondano. Si illumina. Legge. Legge per lei. Legge, ancora, per lei. (Ok, sono testi inglesi, ma che fa.) Posta? Posta per me? E come potrò leggere? Ma di cosa si tratta? Cassette. Come fosse una bimba a Natale scarta i suoi doni. Solo con uno sguardo più spento.
L'Odissea. Le basta udire la voce di Michael per la durata di tre sillabe per provare lo smarrimento di pertinenza delle anime sensibili e cocciute. Spegne, spaventata dal suo stesso trasalire. Dio come fa male. Play.
La voce di Michael. Non è più sola. Il mondo classico, le eroine, gli amori e le avventure, scritti da altri su carta, sono lì. Lui ha saputo conferire loro forme e movenze. Non è forse un modo sublime questo di fare l'amore? In una cella il cielo e Michael.
Ricordi? Prima l'amore, poi la lettura. E dopo: prima la lettura, poi l'amore. Adesso insieme, anche se i corpi sono – materialmente -lontani. Quello che fu pretesto, forse fine, e poi causa, ora è mezzo: la lettura.
Lui, leggendo, ritrova il sorriso. (Il piacere che sa di suscitare in lei lo inebria, lo ispira.) Lei lo aspetta, e mentre lo fa rende accogliente la sua umile dimora. Arreda la sua prigione con le cassette inviatele copiosamente. Sorprendentemente Hanna sa accoglierlo ancora. Come poche sa non farsi travolgere.
Lui prende nota, cataloga. Lei ripone con metodo e cura. Sono marito e moglie.
Hanna è ormai pronta. Vuole un libro. Si accosta alla biblioteca con il timore, la curiosità, l'eccitazione febbrile di una vergine al talamo. Libri! Libri! Appare sovrastata. Quei mostri, quegli oggetti diabolici, dai quali sgorgano passioni, capaci di annodarle lo stomaco, di appagare i suoi desideri, di suscitarne altri, sono lì. Li ama. Non ne ha mai posseduto uno. Ne vuole uno. La signora con il cagnolino.
Cavolo. Quanta intelligenza e caparbietà in questa donna che il mondo intero crede senza speranza! Trova in una vecchia scatola di latta – tutto ciò che ha – (dove forse una piccola prigioniera custodiva i suoi tesori) il coraggio e una matita. Usa il metodo globale e doma quelle misteriose sequenze di simboli. Pur condannata, è libera.
1980: scrive, dopo faticosi esercizi una lettera (una frase, invero: Grazie per l'ultimo, ragazzo. Mi è piaciuto molto). Che importa dove si trova, ha vinto: non ha più segreti, peccato che sia troppo tardi.
È bellissima mentre attende una risposta, lo è ancor più perché sa bene di attenderla invano.
Che importa. Più storie d'amore. / Penso che Schiller abbia bisogno di una donna. / Ti arrivano le mie lettere? Scrivimi, ragazzo. (Poche cose sono struggenti quanto questa esortazione, ad opera di una persona – prima, di fatto, muta – che lotta per comunicare, conscia del potere della parola, erigendo la scrittura all'unica forma di dialogo possibile.)
Lui, c'era da aspettarselo, non risponde. Sì: non è più sotto il suo giogo, non ha più un aguzzino. Lei, imparando a leggere, liberando se stessa dall'analfabetismo, lo ha affrancato. Qual è, ora, il suo ruolo?
1988: la direttrice della prigione lo contatta; Hanna presto uscirà di prigione, lui è il suo unico contatto. La deve aiutare.
Ma come? Dovrà rivederla? Hanna, a sua insaputa aguzzina, poi amante totalizzante, prigioniera dell'ignoranza, vittima di questa e dei suoi tempi, a lungo rinchiusa in una singolare torre d'avorio, esiste ancora? Allora anche lui esiste; e di loro cosa è rimasto?
Decide di andare a trovarla. Lo avvertono: Si è lasciata andare, negli ultimi anni. Non è più lei.
Sorridono, gli occhi velati di ineffabile tristezza. La mano. Cerca la sua mano, la prende, lui impercettibilmente oppone resistenza, poi la ritrae. Lei, dignitosamente, cela l'incredulità. Ma come? Per Hanna due amanti non si abbandonano mai. E, se ne hanno l'opportunità, in silenzio, devono dar spazio ai loro corpi. Giusto. Dove hanno lasciato i loro corpi?
Leggi? È più bello ascoltare.
Hanna, lo hai compreso anche tu: è finita. Ma dove siete? Che posto triste, questa mensa, come scenografia della fine di un amore.
Hai pensato al passato?/ A te?/ No.../ No, non importa che cosa provo. I morti sono morti. Ho imparato a leggere./ Verrò a prenderti fra una settimana.
Lui va via, senza toccarla, senza sfiorarla, senza soffermarsi sul corpo di Hanna, indugiando almeno un po' – almeno con lo sguardo - prima di andare. Lei muore così, prima di decidere di farla finita. Muore prima il suo corpo della sua anima.
Lui le prepara un nido accogliente, fuori. Intanto lei dispone con cura i libri (la condurranno loro, sollevando il suo corpo dopo aver a lungo allietato la sua anima, alla fine), allinea le scarpe. La sorvegliante è in esubero.
Il giorno stabilito lui le porta dei fiori. (E il cerchio si chiude.) La cella è vuota. Alle pareti ci sono gli unici segnali dell'esistenza di una donna nota per qualche tempo al mondo come una criminale: sono ritagli, frasi, parole. Non aveva avuto fretta di andare via: c'è anche un testamento. Dite a Michael che lo saluto.
Forse la scatola di latta torna alla legittima proprietaria, una sopravvissuta.
Buonasera.