S_CAROGNEAvvertenze: questo è un blog, bipolare come i più comuni disturbi dell'umore |
Sara
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Vecchio Paz
Esistono persone al mondo, poche per fortuna, che credono di poter barattare una intera Via Crucis con una semplice stretta di mano, o una visita ad un museo, e che si approfittano della vostra confusione per passare un colpo di spugna su un milione di frasi, e miliardi di parole d'amore...
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Questa è una storia che inizia dall’omèga ignorando l’alfa, inizia dalle omissioni e dall’impossibilità di passare oltre, dal parlare e dal tacere, dalle distanze e dalle affinità e finisce con il prendere coscienza della propria forza - e della propria debolezza - solo a posteriori.
Questa è la storia di un desueto destino, fatto in ugual misura di ciò che fu e di ciò che non sarebbe dovuto essere, che solo in parte la volontà di chi è rimasto è riuscito a riscattare.
Sono passati due anni dal momento in cui si decise che la polizia avrebbe indagato sulla polizia: un pasticcio su cui sono in corso altre due inchieste parallele – condotte dallo stesso pm - per presunti depistaggi e boicottaggi delle indagini. Di certo c’è il testo della telefonata arrivata in centrale (in cui si sente distintamente uno dei poliziotti coinvolti dire l'abbiamo bastonato di brutto, è mezzo morto) i manganelli spezzati che sfigurarono Federico (sfigurare, una parola che forse non piace alla difesa ma rende bene l'idea) e la testimonianza di Anne Marie Tsegueu, residente in Via Ippodromo, luogo in cui il 25 settembre del 2005 Federico Aldrovandi perse la vita durante quello che sarebbe dovuto essere soltanto un fermo.
Due anni: pochi, troppo pochi se confrontati a quei venti e passa anni che sarebbero stati necessari perché Aldro arrivasse alla piena maturità, ovvero all’età dei poliziotti che sono adesso alla sbarra. Vent’anni per dar voce all’irreversibile e all’irrealizzato, allo scelto e al rifiutato, a ciò che torna e a ciò che si perde, come se tutto fosse uguale: il peccato, la colpa, lo scrupolo, la nera schiena del tempo.
Beh, Aldro questi venti anni non li ha avuti, e solo questo conta.
Se in un avvenimento imprevisto, nel capriccio di un destino, vi è forse una grazia che sfugge, in un delitto vi è solo la violenza primigenia che spinge chi resta a pretendere giustizia, costi quel che costi: quel che succede non succede del tutto fino a quando non viene scoperto, fino a quando non lo si dice e fino a quando non lo si sa.
E se noi tutti ne siamo venuti a conoscenza è stato solo grazie ad un blog, quello che Patrizia, la mamma, ha aperto per dar voce al proprio legittimo e sacrosanto desiderio di conoscere la verità. E’ questo il bello delle parole scritte: sono indifferenti alla polvere del tempo, alle distanze, alle lingue. Prima o poi qualcuno le riscopre, magari in un remoto baule o in un cassetto chiuso a chiave, e le trova sempre in splendida forma, come fossero state apposte ieri.
Sono parole generalmente dotate di ogni qualità tranne quella necessaria a rendere sopportabile una ingiustizia, come se esistesse una zona d’ombra in cui solo loro possono penetrare, e di certo non per illuminarla o rischiararla. Sono le stesse parole che creano una strana comunione tra chi ha valicato la disperazione, passando attraverso tutti i setacci che il dolore impone: nei precetti comuni di chi ha troppo sofferto c’è una intimità che diventa fuoco, una scintilla che per quanti sforzi vengano fatti non si riesce mai a spegnere.
D’altronde certi peccati si possono perdonare solo a chi sconta la propria pena e ogni pena presuppone una giustizia, quasi l’autorità giudiziaria fosse una correzione del destino, una uguaglianza, una equazione morale.
Non so se amo abbastanza il mondo da tentare di integrarmi in esso ma nella battaglia iniziata dai genitori di Federico, nella loro disperazione, c’è una dignità che commuove e spinge a partecipare. Ed è così che la loro battaglia è diventata anche la nostra, di tutti noi che nel tempo abbiamo continuato a seguire quel blog che in parte ha creato la madre ma che in parte si è formato da solo, come una nascita contro cui non puoi fare nulla. La gioia di Newton davanti alla mela caduta, la collera che spinge al castigo, la linea retta che non esiste più da quando si è vista la curvatura del mondo: tutte equazioni a senso unico, ineluttabili, di cui a volte sciogliamo l’incognita diventando radice.
Non si sfugge alla propria miseria dividendola con quella altrui però quando si scrive a volte succedono cose strane. Succede che diventa possibile credere di potersi ricavare un posto, una funzione, un destino diverso, un mondo dove persino la nostra equazione possa essere risolta: la potenza della propria esistenza divisa per la capacità di partecipare a quella altrui. Uno fratto l’infinito, passando per ogni numero primo, come se la serie di Fibonacci potesse finalmente darci la capacità di mettere ordine nell’Universo e la forza di continuare a cercarne il senso.
In ogni vigilia c’è un breve istante che ci fa cogliere quell’ultima gioia, quella stretta che ci ha fatto toccare quanto di più intimo c’è al mondo, un breve istante in cui persino il paesaggio emana gravità, come se i nostri morti fossero ancora appesi agli alberi o distesi sotto un cannone fumante. Quel breve istante che dopo ritroveremo nel tepore dei vicoli, nel fresco di un bicchiere di vino o nella penombra di un portone ogni volta che gli stessi morti torneranno crudelmente a mancarci, e ogni volta che saremo inutilmente tentati di dimenticarci di loro.
Domani la sentenza.
Erba
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