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Sara
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Vecchio Paz
Esistono persone al mondo, poche per fortuna, che credono di poter barattare una intera Via Crucis con una semplice stretta di mano, o una visita ad un museo, e che si approfittano della vostra confusione per passare un colpo di spugna su un milione di frasi, e miliardi di parole d'amore...
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Quel viaggio sarebbe stato molto lungo. La conoscevano tutti in paese, Elettra. L’aristocratica Signora che viveva in quella minuscola casa, lassù, nella mansarda di un palazzo di fine ottocento. Dalla finestra Elettra vedeva il mare e quel giorno il mare le parlava di un sole che stava per essere inghiottito dalle onde.
Aveva lasciato tutto in ordine nell’appartamento: la cucina senza una stoviglia da lavare, la stanza da letto con le tende bianche chiuse e le imposte accostate, la coperta di lana, lavorata a mano, ben distesa sul letto rifatto.
Elettra scendeva le scale con grazia ed eleganza. Il suo abito era in velluto blu cobalto, una cinta, dello stesso tessuto e colore, abbracciava la sua vita snella. Il colletto impreziosito da un merletto bianco. Il viso abbellito dalla cipria pastello e da un lieve tocco di rossetto. Le mani, affusolate e candide, portavano al dito un anello di oro bianco e zaffiro. L’unico anello che avrebbero mai conosciuto. Tuttavia, il dito era quello più giusto per un anello. Il soprabito grigio, come le scarpe dal tacco appena accennato.
Il buon Gino l’avrebbe accompagnata alla stazione del paese. Un’ora di viaggio fino alla prima città e, da lì, un altro treno per l’ultima destinazione. In tutto dieci ore, o poco più.
Com’era lontano il traguardo! Ma non abbastanza da sedare la sua ansia e la sua emozione.
Quando i suoi piedi scesero dal treno, un sorriso pervase il suo intero corpo e il suo cuore iniziò a battere come da qualche tempo non accadeva.
Chiese la strada dell’albergo. Non aveva timore a viaggiare da sola, sebbene inesperta, sebbene i tempi, sebbene donna.
Elettra sapeva che sarebbe arrivata in anticipo. E così avvenne.
Aveva più di un’ora a sua disposizione. Un’ora prima che arrivasse lui.
***
La stanza é piccola, con un bagnetto ben fornito di ogni accessorio.
Elettra apre la sua valigia. Giusto l’occorrente per due notti. Si spoglia, si fa una lunga doccia calda. Si cosparge di crema a profumare la pelle, a prepararla. E’ agitata come una ragazzina. Indossa biancheria di seta nera. Si trucca e per farlo sporge il suo seno abbondante sul lavandino, avvicinandosi al grande specchio illuminato.
Si veste di un vestito rosso, come le sue scarpe nuove; sotto, una guepiere a reggere le calze. Sorride. Il buon Gino non avrebbe mai potuto immaginare cosa contenesse la valigia che così premurosamente l’aveva aiutata a trasportare! Aveva detto che andava a trovare un’amica che non vedeva da tempo. Troppo tempo.
Profumo.
Lascia la stanza che ora sa di lei e ripercorre la strada verso la stazione. Il cuore è un tamburo in gola. Lui arriva con un po’ di ritardo e la trova intirizzita, seduta su un cornicione, a cercarlo tra i passeggeri scesi dal treno. E’ enorme rispetto a lei, al suo piccolo corpo. La vede, sorride, le va incontro. Lei lo vede e resta seduta ad attenderlo. Lui la abbraccia e la solleva, facendola volteggiare e stringendola a sé.
Lui, quello che, tanti anni fa, le ha regalato quell’anello, così perfetto a quel dito, perfetto quasi come quella promessa che non poté più mantenere.
I baci timidi di Elettra lo guidano fino all’albergo, gli sguardi si parlano muti. E’ felice, lei. Salgono nella stanza. Lui ha portato una bottiglia di vino rosso, di annata, la stessa della promessa. Brindano i loro corpi, i loro sorrisi. Brindano fameliche le labbra. Brindano le emozioni. Le rughe sembrano sparire dal volto di entrambi, si rivedono com’erano. Si vedono come sono. Si amano per interi giorni due.
Elettra ritrova sé, la sua femminilità mai sfiorata, mai offerta. Ritrova la giovinezza rimasta sospesa.
Dormono, l’uno accanto all’altro, l’uno sull’altro. Si annusano, si conoscono. S’imparano. Le ore fuggono lente, insegnano a parlare e a tacere.
***
Il giorno della partenza il treno di Elettra sarebbe partito un’ora prima del treno di lui. Avrebbero lasciato l’albergo solo dopo essersi amati un’ultima volta. Poi lui l’avrebbe accompagnata al treno, fino alla cuccetta. Le avrebbe dato un bacio. Un ultimo dolce bacio, sui gradini del vagone, un bacio come quelli delle foto del dopoguerra. Si sarebbero promessi un nuovo incontro che entrambi sapevano non ci sarebbe mai stato.
Lui le avrebbe giurato amore eterno, baciando l’anello che lo avrebbe testimoniato e sigillato. Ad Elettra andava bene così.
***
La stanza é piccola, con un bagnetto ben fornito di ogni accessorio.
Elettra apre la sua valigia. Giusto l’occorrente per due notti. Si spoglia, si fa una lunga doccia calda. Si cosparge di crema a profumare la pelle. Indossa biancheria di seta nera. Si trucca e per farlo sporge il suo seno abbondante sul lavandino, avvicinandosi al grande specchio illuminato.
Si veste di un vestito rosso, come le sue scarpe; sotto, una guepiere a reggere le calze.
Profumo.
Elettra esce, arriva alla stazione e prosegue dritta, traballando sui suoi tacchi, troppo alti e consumati. Si ferma in un’osteria a buon prezzo. Apre la borsetta, che odora insieme di vecchio e mai usato. Spende i suoi soldi seduta a un tavolo, bevendo vino rosso della casa. Mangiucchia qualcosa controvoglia. Fuma. Torna in albergo. Dorme fino a tarda mattina. Poi ricomincia il suo rito, la sera.
Il buon Gino non avrebbe mai potuto immaginare quali stracci contenesse la valigia che così premurosamente l’aveva aiutata a trasportare! Aveva detto che andava a trovare un’amica che non vedeva da tempo.
Elettra brindava così, ogni cinque anni precisi, alla sua solitudine.
La stanza era piena e vuota di lei, sempre la stessa, nello stesso albergo della stessa città e l’anello era quello che le aveva regalato sua nonna. Oro bianco e zaffiro.
Una sola volta ebbe vicino la fune della felicità, ma la sua mano, non fu abbastanza lesta nell’acchiapparla.
Erba
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