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Sara
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Vecchio Paz
Esistono persone al mondo, poche per fortuna, che credono di poter barattare una intera Via Crucis con una semplice stretta di mano, o una visita ad un museo, e che si approfittano della vostra confusione per passare un colpo di spugna su un milione di frasi, e miliardi di parole d'amore...
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Eravamo venti intorno a una lunghissima tavola apparecchiata in maniera semplice. Ogni anno gli spaghetti con il sugo di pesce, le rape, i mandarini avevano lo stesso sapore. Quei mandarini con la buccia spessa, profumata, che pizzicano agli occhi. E il vino bianco. A lungo a me è stato proibito assaggiarlo.
Io e i miei fratelli eravamo impazienti di arrivare a casa dei nonni, una casa enorme, con un piccolo giardino. Eravamo bramosi dei suoi odori. In nessun luogo del mondo, ne sono certa, ne esistono di uguali. Perché di mobili, libri antichi, di sugo della nonna e di dopobarba del nonno, certo. Ma per mille altre ragioni. Di immagini non ne ho molte in testa: ogni anno tutto uguale, ogni anno le stesse. Percorrevamo il viale frettolosamente, infreddoliti, ansiosi come per una nascita, come per uno spettacolo di magia. Con la paura che fosse già iniziato. Dietro c'erano babbo e mamma. Da fuori si intravedeva un grande abete, addobbato con palline grandi e pacchiane diverse l'una dall'altra. E con mandarini. I saluti, i baci ai cuginetti, agli zii con le loro barbe ispide, alle zie variamente dipinte. Poi il bacio al nonno, a quell'uomo che zittiva i figli con uno sguardo e lasciava che gli togliessi il sigaro dalle mani. Era grande. Indossava una giacca da camera, in sintonia con l'atmosfera casalinga, non di festa, ma di intimità. Sotto l'albero tutti, tranne una zia perennemente in lotta con il tempo, avevano disposto i loro regali. Ma noi bambini, dopo una rapida, doverosa, occhiata, li ignoravamo. Le regole familiari prescrivevano l'apertura dei doni solo il giorno successivo, dopo l'interminabile pranzo di Natale, con la tavola imbandita a festa e i tortellini in brodo, che mi mettevano tristezza. Mentre le donne terminavano di preparare le pietanze in cucina, gli uomini parlavano, chi in piedi, chi appoggiato al pianoforte a coda che ormai non usava più nessuno da anni, chi fissando con stupore il caminetto acceso. E noi bambini facevamo i bambini, rubando dalla tavola olive e pane, come fossero una rarità. Il nonno si era eclissato nel suo studio. Stava per arrivare il momento che aspettavo dall'anno precedente. Bastava che lui chiudesse la porta alle sue spalle perché tutti interrompessero di parlare e si avvicinassero al tavolo. Mio nonno non credeva in Dio. Credeva nella magia di Natale. E leggeva con voce ferma e dura alcune frasi scritte da un suo amico, ricordi personali, nulla di più. Poi ci rimproverava: “ci saremmo dovuti riunire il giorno di Santa Lucia, non solo stasera”.
La semplicità di quelle parole risvegliava in lui il senso di appartenenza alla sua terra, alla sua casa, alla sua famiglia. Quelle parole gli ricordavano che il suo amore per la sapienza, per la scienza, per Giordano Bruno, non lo mettevano al riparo dal dolore del mondo, non arginavano l'ingiustizia. E per un giorno metteva da parte dotte citazioni per trovare rifugio nel suo stesso sangue. Terminata la lettura i suoi occhi si bagnavano di lacrime, quelle di un bambino. E io sentivo la sua fragilità, provavo l'impulso di abbracciarlo, ma non lo facevo. Eravamo tutti immobili. In piedi, con la testa bassa. Anche babbo e mamma. L'odore di pesce ormai aveva invaso la stanza, e noi ne facevamo una scorta. Lui, poi, dopo aver spinto i suoi ricordi indietro, diceva a noi nipoti che sempre ci saremmo dovuti riunire intorno a quel tavolo, con i nostri figli. Tornava il sonoro. E la cena procedeva fra racconti, aneddoti, banalità quotidiane. Dai vetri delle grandi finestre i più fortunati potevano scorgere Babbo Natale, lo zio burlone che vanta ogni famiglia. Ma era ancora Vigilia. Si doveva pensare al Bambinello: “un bambino della famiglia lo portava in processione per tutta la casa, trepidamente, mentre il resto della famiglia, candeline accese in mano, lo seguiva con aria commossa e divertita, più commossa che divertita in verità, cantando le vecchie nenie che vengono dai secoli”.
Io mi sentivo protetta, certa che la casa dei nonni non sarebbe cambiata mai e che ogni Natale sarebbe stato così. Esattamente così. In effetti il 24 Dicembre, dovunque mi trovi, mi nascondo per un po', rileggo il foglio ingiallito che mio nonno serbava gelosamente in un cassetto, ed è Natale. Quella tavola deve esistere da qualche parte, perché io ci sono seduta.
Erba
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